Dopo quasi 30 anni dalla tragedia, la polizia restituisce alcuni oggetti ai familiari delle 140 vittime. Mentre la giustizia di casa nostra non è neanche capace di portare un briciolo di verità.
E’ la tragica fotografia dello stato comatoso – e penoso – della Giustizia (sic) nel Belpaese, sempre più calpestata in tanti, troppi buchi neri nei quali è sprofondata la nostra storia.
Stiamo parlando della strage del Moby Prince, quella notte del 10 aprile 1991, quando la motonave si schiantò contro la petroliera Agip Abruzzo e tutto finì in un atroce rogo, 140 cadaveri carbonizzati (139 per la precisione, perché uno morì annegato).
Come autentico relitto, ora, riemerge uno scatolone zeppo di orologi, fotografie, occhiali, biglietti d’albergo e via ricordando, gli oggetti custoditi per trent’anni chissà dove e ora, chissà perché, restituiti dalla Stato ai familiari delle vittime.
Mentre tra un mese si terrà la prima udienza, al tribunale di Firenze, per la causa intentata dai familiari contro i ministeri della Difesa e dei Trasporti, che finora non hanno sganciato un euro per i risarcimenti. Ai confini della realtà: dopo 30, trent’anni nei quali, appunto, ai familiari è stato negato uno straccio di giustizia.
Inchiesta fatta con i piedi, processi altrettanto da brividi, le evidenti responsabilità griffate Stati Uniti sepolte in mare, e dentro una nebbia che più sporca e fitta non si può.
Una nebbia che quella sera del 10 aprile non c’era. Totalmente inventata dagli inquirenti che hanno issato il primo muro di gomma proprio con quella nebbia presunta killer. Ed invece, come hanno rivelato altre indagini, quella sera il cielo era magicamente terso. Uccisi due volte, quindi, e avvolti nella nebbia!
Del tutto minimizzate, durante le udienze processuali, anche le carenze e negligenze nei soccorsi. E nemmeno presa in considerazione una pista più che valida, quella della “nafta”.
Tracce di nafta sono state rinvenute nell’unico passeggero trovato annegato: aveva nafta nella trachea e nei vestiti.
Ma chissenefrega.
A riversarsi in mare avrebbe dovuto essere solo il greggio e non la nafta, che invece era copiosa.
Da dove arrivava? Una pista viene dalle registrazioni radio. Emerge, infatti, che ad incendiarsi sia stato il locale-pompe. “Sono Paoli, vedevo che dal locale pompe esce parecchio fumo”, dice il comandante della Sicurezza Agip ai soccorritori. Che rispondono: “E’ il locale pompe, c’eravamo proprio noi a tirarci dell’acqua sopra”.
Se la petroliera stava pompando fuori nafta, vuol dire che lì doveva esserci anche un’altra imbarcazione che la stava ricevendo. E se c’era una terza nave, magari è per la sua presenza imprevista e non certo per una nebbia inesistente che il traghetto non è riuscito ad evitare la petroliera.
La Commissione parlamentare d’inchiesta, del resto, parla in più punti di un ostacolo che “avrebbe portato il comando del traghetto ad una manovra repentina per evitare l’impatto, conducendo tragicamente il Moby Prince a collidere con la petroliera”.
Ma di tutto questo la magistratura se ne frega.
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