30 dicembre 2019

Il fantasma Edoardo Agnelli, le non-indagini sulla sua fine

Edoardo Agnelli Edoardo Agnelli, figlio del presidente della Fiat, è morto il 15 novembre del 2000. Come? Esattamente, non si sa. Il suo fantasma, invece, si aggira senza pace da ormai 19 anni, senza il conforto di una messa di suffragio, di un pietoso necrologio. Strano fantasma, Edoardo Agnelli: uscito di scena poco prima della morte dell’Avvocato, e dopo l’improvvisa investitura di John Elkann. Morto dopo aver detto che – da erede di un terzo dell’impero industriale – avrebbe messo il naso nei bilanci. Quel 15 novembre, l’irrequieto Agnelli junior (anomalo, imprevedibile, idealista) era già un fantasma: uscito di casa non si sa come, perso di vista dalla scorta. Secondo gli inquirenti avrebbe guidato la sua Croma senza però lasciare tracce: non un’impronta digitale, nemmeno sul volante. Non indossava guanti: nel caso, li avrebbero trovati insieme a tutto il resto, ai piedi del fatale viadotto sulla Torino-Savona dove emerse il corpo, 78 metri più in basso. Strano ritrovamento: era riconoscibile, non sfracellato, senza sfondamento della cassa toracica. Le bretelle allacciate, le scarpe non stringate (mocassini) ancora ai piedi, gli occhiali rimasti sul naso. Dopo un volo di quasi cento metri? Ebbene sì, e caso chiuso: suicidio.
Il primo a non credere alla versione ufficiale è un cronista di razza come Gigi Moncalvo, per un semplice motivo: nessuno svolse vere indagini. E ha dell’incredibile la trascuratezza di chi avrebbe dovuto ricostruire le ultime ore di Edoardo Agnelli. Un ragazzone di 46 anni, a lungo celebrato dall’Iran come “martire dell’Islam”. «Sulla sua morte, il governo di Teheran ci ha pedalato parecchio», dice Moncalvo, autore del libro-inchiesta “Agnelli segreti“, che alla tragica fine di Edoardo dedica 8 capitoli, fondati sul fascicolo della Procura di Mondovì. La tesi degli ayatollah: Edoardo, che aveva aderito all’Islam, sarebbe stato ucciso da un complotto sionista, ordito per mettere le mani sulla Fiat manipolando l’ebreo John Philip Jacob Elkann, allora giovanissimo. Obiettivo: scongiurare il rischio che ci finisse “un musulmano”, a controllare i conti della Fiat. A far paura era la caratura di Edoardo, che aveva dichiarato guerra alla produzione di armamenti, «come le mine antiuomo che la Fiat metteva sul mercato, tramite la consociata Valsella».
Moncalvo è un veterano dell’informazione italiana: profetico innocentista sul caso Tortora, redattore al “Giorno” e al “Corriere”, fautore dei primi Tg berlusconiani, infine dirigente Rai. E autore prolifico di saggi coraggiosi (e subito scomparsi dalle librerie) come quelli dedicati alle dinastie Agnelli e Caracciolo. «Non dico che Edoardo non si sia ucciso, né che “sia stato suicidato”», ribadisce a “Forme d’Onda“, trasmissione web-radio. «Dico solo che, a 19 anni dal decesso, non sappiamo come sia morto: se si è tolto la vita, se è stato ucciso. Se è uscito di casa da solo, oppure no. Se è stato deposto già cadavere ai piedi di quel viadotto. L’unica certezza è questa: Edoardo è morto». Riparlare della sua fine, osserva il giornalista, sembra sempre una cosa sgradevole, «come se si volesse rivangare il passato e non lasciare in pace un signore che è morto a 46 anni, in circostanze che sono ancora oggi misteriose, anzi misteriosissime». Stranezze: «Dopo 19 anni, il fascicolo presso il tribunale di Mondovì è ancora secretato, nonostante ci siano state inchieste, e nonostante io e alcuniMoncalvoavvocati abbiamo inviato alla Procura di Mondovì il mio libro “Agnelli segreti”, dove sono indicati 48 punti che rivelano come non sono state fatte le indagini, come si è voluto nascondere una serie di responsabilità notevoli».
Niente complottismi: solo fatti documentati. «Una massiccia campagna di stampa orchestrata dall’ufficio pubbliche relazioni della Fiat, quindi per ordine della famiglia, ha sempre voluto far credere che Edoardo si fosse suicidato». Chiariamoci, premette Moncalvo: «Tutte queste voci attorno alla sua morte si sono diffuse proprio a causa della mancata chiarezza fatta da chi aveva il potere e il dovere di intervenire: il primis il procuratore capo di Mondovì, Riccardo Bausone, ora in pensione». Edoardo «poteva dare fastidio, pur nella sua irrequietudine», nonostante «le trappole in cui era caduto». Per esempio, nel ‘90, l’incidente di Malindi, in Kenya: fermato dalla polizia per possesso di stupefacenti. «Un arresto avvenuto con accompagnamento di telecamere, cioè in una maniera che destava molti sospetti sulle modalità e sugli scopi di quella vicenda». La storia poi accelera di colpo nel ‘97, quando si spegne (a soli 33 anni) il cugino Giovannino, cioè Giovanni Alberto Agnelli, figlio di Umberto, dipinto dai giornali, erroneamente, come ipotetico delfino dell’Avvocato. Al suo posto, nel Cda Fiat, anziché Edoardo viene inserito stranamente l’imberbe John. Per protestare, il primogenito chiama Paolo Griseri, affidando al “Manifesto” la più clamorosa delle interviste: non creda, mio padre, di sbarazzarsi di me.
Attenzione: «Edoardo era considerato una sorta di lebbroso, un ragazzo da evitare. Per offenderlo, screditarlo e diffamarlo, si diceva: Edoardo è matto, drogato e sbalestrato, impregnato di teorie e filosofie confuse, piene di astrattismi e di utopie». Obiettivo: isolarlo. Griseri, oggi redattore di “Repubblica”, violò l’embargo. Incontrò il giovane Agnelli al convento dei cappuccini di Torino, una sera di nebbia. Ne uscirono frasi lapidarie. Un avvertimento: come erede, mi spetterà un terzo dalla Fiat, della Exor, dell’Accomandita Giovanni Agnelli e soprattutto della Dicembre, la società strategica che domina tutto. «Una dichiarazione che a qualcuno fa tremare i polsi: non si illuda, mio padre – precisa Edoardo – di scrivere o di disporre che quel terzo di diritto che mi spetta, delle azioni, mi venga liquidato convertendolo in denaro. No: io voglio le azioni, come mio diritto. Voglio verificare i bilanci della società, controllare i prodotti della Fiat». Edoardo lo mette proprio in chiaro: non Il giovane Edoardo con il padreaccetterà di essere messo alla porta con una buonuscita zeppa di milioni. Vuole poter pesare, dire la sua. Per questo, esigerà un terzo della partecipazione azionaria.
Prende anche le distanze da John Elkann: mi meraviglia, dice, che mio padre lo abbia nominato. E’ stato un grosso errore: la cooptazione di “Yaki” è stata decisa contro le perplessità di mio padre, che infatti all’inizio non voleva dare il suo assenso. «Come se (e qui fa una rivelazione importante) Gianni Agnelli fosse stato in qualche modo convinto, forzato, costretto a nominare John nel Cda?». Edoardo dice che “qualcuno” ha spinto il padre ad agire in quel modo. Moncalvo pensa a Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens, che definisce «i due “consiglieri della corona”, i due Richelieu della real casa torinese». Quasi ci fosse la seguente configurazione: intanto prepariamo il terreno a ciò che accadrà dopo la morte dell’Avvocato, all’epoca in precarie condizioni, reduce da 6 operazioni al cuore e tormentato da un tumore alla prostata (si spegnerà quasi 5 anni dopo, il 24 gennaio 2003). Quindi, “qualcuno” – per mantenere il potere – manovrò perché venisse fatto fuori, sul piano azionario, il figlio di Agnelli, per mettere al suo posto un soggetto come il ragazzino John, molto più controllabile, addomesticabile, condizionabile?
La domanda di Moncalvo resta in sospeso, fino alle deduzioni più recenti, dopo la guerra familiare scatenata dalla sorella di Edoardo, Margherita Agnelli, sull’eredità dell’Avvocato. E se Edoardo fosse stato ancora vivo, alla morte di suo padre nel 2003? «La vedova, Marella, ha donato tutto a suo nipote John Elkann irritando la figlia, Margherita. Vivo Edoardo, alleato con sua sorella, la madre non avrebbe potuto fare quello che ha fatto, a favore di John». Quindi, ragiona Moncalvo, «la scomparsa di Edoardo ha facilitato il disegno di coloro che volevano mettere le mani sulla Fiat, o ufficialmente o dietro le quinte, o comandando attraverso un giovanotto pallido, imberbe e inesperto». Costoro, aggiunge sempre Moncalvo, se si fossero trovati sulla loro strada Edoardo Agnelli, come avrebbero potuto convincere “donna Marella” a donare la sua parte? «Come avrebbero potuto convincere John ad accoltellare sua madre, Margherita, portandole via la Dicembre e il controllo della società? E come Grande Stevens e Gabettiavrebbe potuto, la stessa “donna Marella”, accoltellare alla schiena sua figlia Margherita, rompendo l’unità familiare e mettendole contro il primogenito, John? Pensate che cosa avrebbe determinato, la sola presenza di Edoardo».
Solo ipotesi, naturalmente, perché Edoardo Agnelli è diventato ufficialmente un fantasma due anni e sette mesi dopo la famosa intervista al “Manifesto”. E qui Moncalvo, autorizzato da Margherita Agnelli a consultare le carte giudiziarie, spalanca il libro della vergogna. Il 15 novembre 2000, la famosa Fiat Croma viene avvistata da un addetto alla sicurezza autostradale, in sosta sul ponte che sovrasta il fiume Stura di Demonte, nel territorio di Fossano. Il corpo di Edoardo è rinvenuto, quasi intatto, 78 metri più in basso, ai piedi del viadotto. L’esame necroscopico è sommario, grossolanamente superficiale: il medico legale (non quello di turno, ma un medico chiamato apposta dal procuratore) sbaglia il peso e l’altezza del cadavere, togliendoli 20 chili e 20 centimetri. Dieci anni dopo, a “La storia siamo noi”, Giovanni Minoli farà una sua ricostruzione, “L’ultimo volo”, che cita le versioni alternative ma poi accredita la tesi del suicidio. Gli esperti in studio, si esaspera Moncalvo, «arriveranno a dire che è normale, se uno cade in piedi, che possa accorciarsi e diventare quasi nano».
Gigi Moncalvo insiste sui primi istanti del ritrovamento. La polizia stradale di Cuneo, subito sul posto, viene rimpiazzata dalla polizia torinese, accorsa in forze. Il questore, Nicola Cavaliere, ha accompagnato personalmente il padre, Gianni Agnelli, sconvolto, a riconoscere quel che resta di suo figlio. Il procuratore Bausone fa due annunci, a caldo. Primo: non si esclude nessuna ipotesi. Secondo: sarà fondamentale l’esito dell’autopsia. Peccato però che l’autopsia non verrà mai eseguita, e che l’unica ipotesi in campo sarà quella del suicidio. L’esame autoptico, chiarisce Moncalvo, sulla carta era rischioso: se per caso nel corpo di Edoardo fossero emerse tracce di stupefacenti, sarebbe scattata d’ufficio una imbarazzante indagine parallela, a Torino, sul mondo dello spaccio eventualmente frequentato dalla vittima. Ma l’autopsia mancata, secondo Moncalvo, è solo uno degli aspetti, neppure il peggiore, della clamorosa non-indagine. La Croma era parcheggiata in modo perfetto, allineata al guard-rail, e Edoardo Agnelli non sapeva posteggiare in retromarcia. Pesava 119 chili, ed era claudicante: si aiutava col bastone, per i Il luogo del ritrovamento del corpopostumi di una caduta. In quelle condizioni, con un fisico come il suo (un metro e novanta di statura) sarebbe sgusciato dall’auto e si sarebbe arrampicato sul parapetto, alto un metro e mezzo, per poi lanciarsi sotto. E senza essere visto da nessuno, lungo un’autostrada percorsa da quasi 70 veicoli al minuto.
Per la Procura di Mondovì, la prova regina dell’ipotetico suicidio è rappresentata dal Telepass trovato a bordo della Croma, che registra ogni spostamento. Quella mattina: l’ingresso a Torino in direzione Savona, l’uscita a Marene, il rientro in autostrada fino al viadotto di Fossano. Coincide coi percorsi dei tre giorni precedenti: segno, per gli inquirenti, che Edoardo Agnelli vagasse in cerca di un ponte da cui gettarsi. Peccato, dice Moncalvo, che la vettura su cui era installato il Telepass viaggiasse a 150 all’ora: non certo la velocità ideale, per chi si sta guardando attorno in cerca del punto adatto in cui farla finita. Non solo: il Telepass non prova che Edoardo fosse alla guida della Croma. E non essendo collegato alla targa, non dimostra nemmeno che fosse installato su quella berlina: l’aggeggio infatti può essere benissimo trasferito da una vettura all’altra. Per giunta, la Croma disponeva di un navigatore Gps: quello sì, avrebbe rivelato con certezza i movimenti della Croma. «Ma il Gps non è stato controllato. Invece il Telepass, incredibilmente, è diventato l’unica prova su cui fondare l’ipotesi del suicidio». Del resto, meglio non dire: si stenta a credere – insiste Moncalvo – che ci si sia davvero rifiutati di indagare.
Eppure, visitata Villa Sole, la casa di Edoardo sulla collina torinese, la Digos – dice sempre Moncalvo – evita di sequestrare i filmati delle telecamere di sorveglianza: sarebbe stato il primo passo, elementare. Avrebbe svelato a che ora Edoardo era uscito di casa, se era solo o accompagnato, se era ancora vivo. E se indossava già – come poi si è accertato, sotto il tragico viadotto – il suo pigiama a righe, sotto l’abito blu. E non è tutto: in casa ci sono quattro telefoni, ma nessuno chiederà alla Telecom i tabulati. Resteranno muti anche i due computer. «Erano protetti da password, dissero gli inquirenti. Per superare l’ostacolo, però, bastava un hacker di vent’anni». E la scorta di Edoardo? Se c’era, dormiva: «Dissero che si era allontanato senza che ne accorgessero, nonostante avessero avuto l’ordine di sorvegliarlo ovunque: la famiglia sperava che la presenza della scorta lo tenesse lontano dalla droga o da incontri con persone particolari». Cade dalle nuvole, il personale di sicurezza: dice che Villa SoleEdoardo se n’era andato a spasso, con la sua Croma, anche nei tre giorni precedenti. La cosa strana, osserva Moncalvo, è che la polizia non fa altre domande: anzi, si accontenta di un memoriale consegnato loro dai vigilantes, evidentemente preparato dalla società, la Orione, che gestisce la security del mondo Fiat.
Moncalvo si domanda cos’abbia potuto rendere così accondiscendenti gli agenti della Digos: il potere immenso della famiglia Agnelli, i rapporti personali del questore con l’Avvocato?Forse anche il miraggio di poter lasciare un giorno la divisa per un posto tra le guardie dell’Orione, dove si rischia meno e si guadagna il doppio? Ma quello che lascia maggiormente stupefatti, dice Moncalvo, è innanzitutto il comportamento della magistratura. «Dieci giorni dopo il ritrovamento – racconta il giornalista – al procuratore di Mondovì arriva una lettera anonima, proveniente da un carcere di massima sicurezza del Nord Italia». Si parla apertamente di omicidio, riguardo alla fine di Edoardo. La lettera l’ha scritta probabilmente un detenuto condannato per reati di mafia, dato che (in altre sue parti) contiene riferimenti precisi a una vicenda criminale molto grave. «Nella lettera vengono accusati alcuni magistrati». Nel momento in cui Bausone riceve la missiva, per dovere d’ufficio la trasmette alla Procura generale di Torino, allora retta da Giancarlo Caselli. «Bausone allega un proprio appunto, in cui dice: è arrivata questa lettera, anonima, che formula ipotesi sui mandanti e sul modo in cui è morto Edoardo Agnelli. Ma posso assicurare – aggiunge – che si tratta di un evidente caso di “precipitazione”».
Quindi, sintetizza Moncalvo, «a soli 10 giorni dalla morte, senza aver svolto indagini, Bausone ha già deciso che Edoardo Agnelli si è suicidato». E questo, nonostante il minuzioso rapporto della Polstrada di Cuneo: Edoardo Agnelli avrebbe guidato la sua auto fino a Fossano, ma come un fantasma, senza lasciare tracce. «Sulle superfici lisce della Croma non ci sono impronte. Volante, cambio, autoradio, radiotelefono, sedili, portiere, maniglie. E Edoardo non portava guanti». Senza impronte anche gli oggetti a bordo: una bottiglia d’acqua bevuta a metà, 11 scatole di fiammiferi, 8 confezioni di filtri David Ross, 11 confezioni di panni per la pulitura delle lenti. Non un’impronta neppure sui 5 bloc notes con fogli manoscritti: con scritto cosa, poi? Non lo si sa. Niente tracce sulle 5 cartine geografiche, sulle 2 mappe fotocopiate, sui 4 blocchetti di prelievo Lapo e John Elkann con Marella Agnellimateriale. Nessuna impronta digitale sui 2 telecomandi, sulla lampada di emergenza, sullo spolverino, sulle 5 audiocassette. Su quell’auto, Edoardo non aveva mai lasciato un’orma, nemmeno nei giorni precedenti?
L’assenza di impronte lascia sbalorditi, dice Moncalvo: «Morire che ci sia un poliziotto, un questore, un capo della Digos – ma soprattutto un magistrato – che non rimanga stupefatto come lo siamo rimasti noi». Logica deduzione: «Solo un’organizzazione criminale di altissimo livello arriva a “ripulire” perfettamente da ogni tipo di impronte ogni superficie, interna ed esterna, di un’automobile». MafiaServizi segreti? E chi lo sa. Nessuno ha incalzato la scorta, per capire come mai Edoardo fosse stato lasciato libero di allontanarsi. Nessuno ha mai chiesto nemmeno all’autogrill sull’autostrada, dice Moncalvo, se per caso, quel maledetto 15 novembre, qualche automobilista di passaggio non avesse intravisto un uomo alto quasi due metri, praticamente zoppo, arrampicarsi sul parapetto. «Di fronte a un sospetto suicidio – ricorda il giornalista – si indaga per induzione al suicidio: qualcuno potrebbe aver spinto il malcapitato alla disperazione, per qualsiasi motivo (di salute, finanziario, sentimentale), magari comunicandogli notizie false. Si tratta ovviamente di un reato gravissimo».
Quella fatidica mattina, risulta che Edoardo Agnelli abbia chiamato al telefono suo padre, per il quale nutriva una sorta di venerazione, restando però in linea solo per dieci secondi. Poi ha chiamato lo zio, Carlo Caracciolo, con cui era sempre stato in ottimi rapporti. Cosa si dissero? Non si sa, precisa Moncalvo: nessuno gliel’ha chiesto. «Normalmente, si interrogano le ultime persone con cui la vittima ha parlato, per appurare se trasparisse un suo eventuale stato di angoscia». Invece, in questo caso, «gli inquirenti non hanno sentito né il padre, né la madre, né lo zio, né la sorella». Alberto Bini, il procuratore di Edoardo, ha detto che quella mattina il figlio dell’Avvocato aveva chiamato il dentista, per disdire un appuntamento: per che motivo? Edoardo«La polizia – aggiunge Moncalvo – non ha sentito nemmeno il centralinista di casa Agnelli, giusto per verificare se ci fosse stata davvero, quella telefonata al padre. Né sono stati sentiti Gabetti e Grande Stevens». Ufficialmente, infatti, Edoardo lavorava all’Ifi, Istituto Finanziario Italiano, e quindi era un dipendente di Gabetti, «che avrebbe potuto dire se c’erano preoccupazioni, se Edoardo si trovava bene, o se magari creava lui stesso problemi».
In compenso, Margherita Agnelli rivela che, quella stessa mattina, Edoardo aveva telefonato a suo marito, Serge De Pahlen. A suo cognato, Edoardo disse: so che sei a Torino, vediamoci più tardi e andiamo a pranzo insieme. «Strano, per uno che sta per suicidarsi». A meno che, appunto, sul viadotto di Fossano non sia mai salito Edoardo Agnelli, ma solo il suo fantasma: un uomo invisibile, capace di guidare senza lasciare impronte. Zoppicante, ma agile come un gatto: lesto ad arrampicarsi – non visto da nessuno – su quel parapetto. Per poi finire 78 metri più in basso, coi mocassini ai piedi e gli occhiali ancora al loro posto. Insiste Moncalvo: restiamo ai fatti, tralasciando i complottismi (fioriti inevitabilmente a causa delle troppe reticenze). «L’unica verità accertata è che Edoardo è morto. Ma parlare ancora di suicidio, dopo 19 anni, mi sembra una vergogna». Curiosità: il tragico viadotto di Fossano è dedicato al generale dei carabinieri Franco Romano, scomparso due anni prima di Edoardo. Cadde in elicottero, «un incidente strano». Dopo una prima tappa in val d’Aosta, sarebbe volato fino al Sestriere per commemorare Giovannino Agnelli. Il generale sfortunato e il figlio dell’Avvocato: destini di morte, in qualche modo collegati a quel viadotto. E un’unica simbologia, la “precipitazione”: la caduta dall’alto, a troncare due vite che contavano molto.

28 dicembre 2019

Electronic Frontier Foundation: Help EFF save .ORG

Electronic Frontier Foundation (EFF)
Hi Supporter of Digital Freedom,
The .ORG domain registry—home to groups around the world working for the public good, many of which hold governments and corporations accountable—is on the verge of being sold off to a newly-formed private equity firm in a $1.1 billion deal.
We at EFF, with hundreds of other major organizations and over 18,000 individuals, have spoken out to oppose the .ORG registry's sale to the firm. Yet this is far from over. Will you donate to EFF this year and help us fight back?
The announcement came right after the registry was granted the authority to make major changes to how .ORG is run without consulting the .ORG community. With the new rules in place, the registry's sale means danger for the millions of individuals and organizations using a .ORG website, subjecting them to real threats of censorship and increased fees. But we won't let this happen quietly.
As a member of EFF, you have funded expert technical evaluation, legal analysis, and vocal advocacy to ensure threats to Internet rights don't go unanswered. And right now, any donation made by December 31 will help EFF receive special grants in our Year End Challenge—every supporter matters.
You can amplify our collective power and send the message that the nonprofit and NGO community is not for sale. Will you lend your support to EFF today?
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Aaron Jue
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GIALLO BERGAMINI / TRASFERITO IL PM A UN PASSO DALLA VERITA’


30 anni dal giallo Bergamini, il calciatore del Cosenza assassinato il 18 novembre del 1989 senza che ancora sia stata fatta verità e giustizia.
Eugenio Facciolla, il pm che stava lavorando da 4 anni sulle nuove, concrete piste investigative, è stato incredibilmente e improvvisamente trasferito dal Csm alla Procura di Potenza.
Ora l’ennesimo appello dei familiari della (allora) giovane vittima.
Sottolinea la sorella di DenisDonata Bergamini. “Devo accettare che il nostro sistema giudiziario prevede tre gradi di giudizio e che anche per i peggiori reati esistono gli sconti di pena. Però chi ha ucciso mio fratello e chi ha mentito, ha beneficiato di trent’anni di impunità mentre la mia famiglia è stata punita nel modo più atroce e disumano. Sono veramente stanca di aspettare, ma nutro fiducia nel procuratore Facciolla”.
L’appello, ripreso dall’Avvenire lo scorso 18 novembre, ha subito ricevuto una risposta dalla giustizia di casa nostra: il Csm, infatti, ha trasferito in un baleno il procuratore scomodo, colui il quale stava tirando le fila della sua strategia investigativa.
Ecco come descrive la vicenda un sito calabrese. “Dopo tre decenni di insabbiamenti, assurdi depistaggi e falsità profuse in serie industriale, la giustizia stava facendo bene il suo corso, grazie al lavoro certosino intrapreso quattro anni fa dal procuratore di Castrovillari Facciolla, il quale aveva accolto la richiesta di riapertura delle indagini sulla morte di Bergamini avanzata dal legale della famiglia del calciatore, l’avvocato Fabio Anselmo”.
Lo stesso, combattivo legale che ha difeso la famiglia Cucchi per l’uccisione di Stefano.
Le indagini di Facciolla, viene precisato, “avevano accertato, una volta per tutte, che il ventisettenne centrocampista del Cosenza non si era affatto suicidato, alla vigilia della gara con il Messina (che mai avrebbe saltato per nulla al mondo), gettandosi sotto un camion che transitava sulla statale 106 in località Roseto Capo Spulico, ma vi era stato gettato dopo che mani ignote l’avevano ucciso”.
E ancora. “Assassini che lo avevano prelevato a forza dal cinema di Cosenza dove era andato a vedere un film assieme ai compagni di squadra (era sabato e quindi in ritiro)”.
Poi: “Questo e molto altro era ormai chiaro al procuratore Facciolla e ai suoi collaboratori che avevano proceduto ad indagare tre persone: due per concorso in omicidio, Raffaele Pisano (il camionista), Isabella Interno, ex fidanzata di Denis, e il poliziotto Luciano Conte (marito della Interno) accusato di favoreggiamento.
Sulla vicenda è stato appena pubblicato un libro, “Oltre l’indizio” scritto dalla giornalista Rita Cavaliere.

Nella foto Denis Bergamini

27 dicembre 2019

A Belfast avevo visto i primi scontri e i primi morti. Mi avevano preparato per il Medio Oriente


Rispetto al Medio Oriente, l’Irlanda del Nord era una destinazione tranquilla. Tragica, settaria, brutale, ipocrita; la piccola guerra civile, per quello che era, era ciò che quelli dell’intelligence militare britannica definivano un conflitto a “bassa intensità.” Noi giornalisti scrivevamo le nostre storie. Poi tornavamo nei nostri alloggi in affitto di Belfast. E vivevamo (o almeno così pensavamo) nel Regno Unito.
Ho assistito alle mie prime, vere battaglie in Falls Road e a Derry e ho corso per tutta Belfast nel Venerdì di Sangue, nel luglio 1972, e ho visto i resti di esseri umani, dopo che 20 bombe dell’IRA erano esplose in tutta la città, in un’ora e mezza. C’erano stati nove morti, cinque civili, la maggior parte di loro alla stazione degli autobus. L’IRA aveva affermato di aver avvisato. La polizia aveva detto di essere oberata di lavoro. Ero furioso quando avevo visto il risultato. Era stato quando avevo capito che la guerra non è una questione di vittoria o di sconfitta, ma di fallimento totale dello spirito umano, da entrambe le parti.
Sì, è a Belfast che ho visto i miei primi cadaveri: un soldato britannico che cadeva dal retro del suo veicolo blindato ad Andersonstown, il suo fucile che rimbalzava sull’asfalto, ucciso da un Provisional dell’IRA con i capelli molto lunghi che si nascondeva dietro una pattumiera; e un paramilitare protestante che giaceva nella bara, circondato da persone in lutto con la camicia bruna, che erano, come si sarebbe poi scoperto, i suoi assassini. Il padre aveva sollevato la mano del figlio morto per farmi vedere che gli avevano spezzato le dita.
Ma nell’Irlanda del Nord (in preparazione per quello che sarebbe poi successo in Medio Oriente, cosa che allora non avrei neanche potuto immaginare) c’era stata soprattutto l’esperienza di confrontarsi con i funzionari governativi e i colonnelli dell’esercito britannico, quando mentivano mentre cercavo di farli parlare. Se riportavo la notizia di soldati britannici che brutalizzavano i Cattolici, mi dicevano che ero “pro-IRA” o “filo-terrorista” (un’accusa quest’ultima a cui mi sarei tristemente abituato in Medio Oriente), mentre quando viaggiavo con le pattuglie dell’esercito britannico o della polizia mi stavo alleando con le “forze della Corona,” o ero malignamente accusato di essere un funzionario dell’intelligence.
E quando avevo scritto un articolo che aveva offeso l’ufficiale in capo delle truppe britanniche nell’Irlanda del Nord, ero stato bandito dai briefing dell’esercito, un boicottaggio che, in seguito, avevo a mia volta imposto all’esercito, quando avevano deciso di perdonare le mie trasgressioni. Rifiutarsi di parlare con i colonnelli era stata la decisione giusta, perché, dopo averla presa,  capitani e maggiori freschi di nomina mi affiancavano nelle strade di Belfast e mi consegnavano buste con istruzioni militari riservate che ritenevano moralmente discutibili.
Quando avevo ricevuto i documenti che indicavano che gli Inglesi intendevano ricattare i politici protestanti che non avevano intenzione di sostenere la loro politica nell’Irlanda del Nord, avevo pubblicato la storia. Due giorni dopo, tre detective si erano presentati a casa mia prima dell’alba per interrogarmi sulle mie fonti. Ero fuggito nella Repubblica Irlandese, mi ero registrato in un hotel di Dublino ed ero stato subito affrontato dal funzionario del MI6 dell’ambasciata britannica. Avevo minacciato di chiamare la polizia irlandese se non avesse smesso di molestarmi. Se n’era andato. All’epoca non era stato così divertente come sembra adesso. Ma era stata una lezione. Avevo poi pubblicato la storia dell’intrusione da parte del funzionario dell’ambasciata.
Mai, mai, non arrendersi mai, come aveva detto una volta Churchill (che non è mai stato un mio eroe, dovrei aggiungere, anche se il suo ritratto era appeso sopra il camino nella biblioteca di mio padre), ma, in questa sfida, l’uomo del 1940 aveva ragione. Non cedere mai all’autorità. Quando hai una grande storia e chi ha veramente il potere vorrebbe calpestarti (qualche volta con l’aiuto dei tuoi stessi colleghi), non scusarti mai. Rimani fedele alla storia. Avrei imparato anni dopo (quando ero a Beirut, in guerre in cui solo la mia esperienza di Belfast mi avrebbe aiutato a sopravvivere) che i documenti ricattatori che erano venuti in mio possesso e che avevo pubblicato erano solo una piccola parte di quello che sarebbe poi diventato lo scandalo di Kincora, una sordida storia in cui era coinvolta l’intelligence britannica, che avrebbe fornito bambini orfani a noti pedofili, per poi ricattarli a livello politico. Una feroce disputa su ciò che è accaduto a Kincora continua ancora oggi, con un’inchiesta governativa già respinta dalle vittime.
Molti di quelli che avevo intervistato a Belfast e a Derry (o Londonderry, come la chiamavamo allora), crudeli rappresentanti dell’UDA, spietati Provisional, uomini delle pubbliche relazioni governative, vecchi soldati, sono già morti. Ma è stato (pensandoci a mente fredda) un importante campo di allenamento per i tradimenti, i massacri e il cinismo del Medio Oriente. Noi giornalisti dobbiamo combattere i Trump così come i dittatori arabi, i lobbisti filo-israeliani e le fazioni mussulmane e, talvolta, certo, tollerare anche la rabbia dei nostri stessi colleghi.
Il passaggio da Belfast [al Medio Oriente] non è stato dalla padella alla brace. E’ stato da una violenza immaginabile ad una crudeltà inimmaginabile su larga scala. Sono grato per quegli anni nell’Irlanda del Nord. Penso che mi abbiano aiutato a sopravvivere in quelli successivi.
Torno ancora a Belfast, per tenere conferenze sul Medio Oriente o per stare con il mio vecchio amico David McKittrick, che era poi diventato il corrispondente dell’Independent a Belfast, e vorrei anche che ci fosse un Buon Venerdì per il Medio Oriente. Ahimè, non ci sarà. Gli accordi di pace non vanno molto lontano. Ma ora a Belfast, quando sono lì, vedo le vecchie inimicizie scongelate e riscaldate dal folle desiderio del Regno Unito di suicidarsi sulla Brexit. E temo che la creatura di Downing Street e i suoi nani di governo faranno a pezzi l’Irlanda del Nord. Io prego di no. Ma, se così fosse, lo vedrò standomene al sicuro in Medio Oriente.
Robert Fisk

26 dicembre 2019

Wall Street Journal: i soldi per i poveri restano in Vaticano

Obolo di San PietroMentre Papa Francesco predica contro i mali della disuguaglianza economica e i peccati del capitalismo, la Chiesa cattolica sottrae all’Obolo di San Pietro oltre 50 milioni di dollari l’anno per tappare i buchi del proprio bilancio ormai fuori controllo. E tutto questo, scrove Tyler Durden su “Zero Hedge”, dopo aver pagato, in diversi decenni, oltre 3 miliardi di dollari di risarcimenti nei processi contro i preti pedofili in tutto il mondo. Secondo il “Wall Street Journal”, la maggior parte dei circa 55 milioni di dollari che la Chiesa riceve ogni anno va a «colmare il buco nel bilancio amministrativo del Vaticano, mentre solo il 10% viene speso per opere di beneficenza». Questa assai poco pubblicizzata indiscrezione su come la Santa Sede spenda l’Obolo di San Pietro, «conosciuta solo da alcuni alti funzionari vaticani», secondo il quotidiano statunitense «sta suscitando tra alcuni leader della Chiesa cattolica il timore che i fedeli si sentano ingannati sull’utilizzo delle loro donazioni, cosa che potrebbe danneggiare ulteriormente la credibilità della gestione finanziaria vaticana di Papa Francesco». Eppure, l’Obolo di San Pietro – che raccoglie fondi ogni anno, a fine giugno – viene definito come una iniziativa per i bisognosi: un «gesto di carità, un modo per sostenere l’attività del Papa e della Chiesa Universale per favorire soprattutto i più poveri e le Chiese in difficoltà». È anche «un invito a conoscere e ad essere vicini alla nuove forme di povertà e fragilità».
Una sezione del sito web, dedicata alle “opere realizzate” descrive l’utilizzo delle sovvenzioni individuali. Esempio: 100.000 euro in aiuti di prima necessità ai sopravvissuti al terremoto del mese scorso in Albania, 150.000 euro per le persone colpite nel mese di marzo dal ciclone Idai nell’Africa sud-orientale. «Lo scopo della raccolta dell’Obolo di San Pietro è quello di fornire al Santo Padre i mezzi finanziari per rispondere a coloro che soffrono a causa di guerre, oppressioni, calamità naturali e malattie», secondo il sito web della Conferenza Episcopale statunitense. Solo che, negli ultimi cinque anni – scrive Durden, in un post tradotto da “Come Don Chisciotte” – solo il 10% del denaro raccolto (oltre 55 milioni di dollari nel 2018) è stato realmente destinato alle varie cause benefiche pubblicizzate per sollecitarne la raccolta. Lo affermano «persone che hanno familiarità con la questione», secondo cui «circa i 2/3 dei fondi vengono utilizzati per contribuire a colmare il deficit di bilancio della Santa Sede, in pratica l’amministrazione centrale della Chiesa Cattolica e la rete diplomatica mondiale della stessa Santa Sede». Per il 2018, si parla di un disavanzo di circa 78 milioni di dollari, su una spesa totale di circa 334 milioni.
La “riallocazione” delle donazioni di beneficenza – aggiunge Durden – arriva nel momento in cui la Santa Sede sta affrontando un deficit di bilancio in forte espansione che, nell’ammonimento del Papa ai cardinali, potrebbe avere un «grave impatto» sul La raccolta per l'Obolofuturo economico della Chiesa. Papa Francesco era stato eletto nel 2013 anche con il mandato di revisionare le finanze vaticane, «dopo le accuse di corruzione, sprechi e incompetenze», secondo il “Wall Street Journal”. La notizia della cattiva gestione finanziaria del Vaticano «non potrebbe arrivare in un momento peggiore», visto che la Chiesa è alle prese «con uno scandalo legato a dubbi investimenti immobiliari londinesi che hanno portato, nel mese di novembre, al licenziamento del suo principale gestore finanziario, René Brülhart». Scoppiato per la prima volta a ottobre, quest’ultimo scandalo è imperniato sui tentativi della Santa Sede di ottenere un prestito di 110 milioni di dollari) per l’acquisto di proprietà di lusso nel quartiere londinese di Chelsea. Per contro, «i regolamenti vaticani consentono al Papa di usare le donazioni come ritiene più opportuno, anche per sostenere la propria amministrazione». Il patrimonio dell’Obolo ammonta attualmente a circa 600 milioni di euro, «in calo rispetto ai circa 700 milioni dell’inizio dell’attuale pontificato», secondo Durden «in gran parte a causa di investimenti sbagliati».

25 dicembre 2019

Bolivia, laboratorio di una nuova strategia di destabilizzazione, di Thierry Meyssan


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La nuova presidente dello Stato Plurinazionale della Bolivia brandisce i Quattro Vangeli e denuncia i “riti satanici” degli indios. Diversamente dai commenti della stampa internazionale, Jeanine Áñez non se la prende con gli indios – peraltro tutti cristiani – in quanto etnia, ma vuole imporre il fanatismo religioso.


La stampa internazionale è cauta nel riferire quanto accade in Bolivia. Descrive il rovesciamento del presidente Evo Morales, parla di un ennesimo colpo di Stato, ma non riesce a inquadrare quel che sta davvero succedendo. Non si accorge del nascere d’una nuova forza politica, finora sconosciuta in America Latina. Secondo Thierry Meyssan, se le autorità religiose del continente non si assumeranno subito le proprie responsabilità, niente riuscirà a impedire il dilagare del caos.

l 14 ottobre 2019, in un’intervista alla televisione Giga Vision, il presidente Evo Morales dichiarò di possedere registrazioni comprovanti la preparazione di un colpo di Stato da parte di esponenti dell’estrema destra e di ex militari, da mettere in atto qualora avesse vinto le elezioni [1].
Quel che poi è accaduto non è un vero e proprio colpo di Stato: è un rovesciamento del presidente costituzionale. Niente induce a credere che il nuovo regime saprà stabilizzare il Paese. Sono i primordi di un periodo di caos.
Le rivolte che si sono susseguite dal 21 ottobre hanno indotto a fuggire, l’uno dopo l’altro, il presidente, il vicepresidente, il presidente del senato, il presidente dell’Assemblea nazionale, nonché il primo vicepresidente del senato. Le sommosse non sono però cessate con l’intronizzazione alla presidenza ad interim, il 12 novembre scorso, della seconda vicepresidente del senato, Jeanine Áñez. Il partito di Áñez ha solo quattro deputati e senatori su 130. In compenso, la nomina di un nuovo governo senza indigeni ha spinto gli indios a scendere in piazza in sostituzione dei sicari che hanno cacciato il governo Morales.
Ovunque si registrano violenze interetniche. La stampa locale riferisce delle umiliazioni pubbliche e degli stupri. E conta i morti.
Se è evidente che la presidente Áñez ha il sostegno dell’esercito, non si sa invece chi abbia cacciato Morales: potrebbe essere una forza locale o una società transnazionale, oppure entrambe. L’annullamento di un mega-contratto per lo sfruttamento delle miniere di litio potrebbe aver spinto un concorrente a investire nel rovesciamento del presidente.
Una cosa soltanto è certa: gli Stati Uniti d’America, che adesso si rallegrano per il corso preso dagli avvenimenti, non li hanno provocati, sebbene cittadini e funzionari USA vi siano probabilmente implicati, come ha affermato il direttore dell’SVR [Servizio d’intelligence internazionale, ndt] russo, Sergueï Narychkine.
La pubblicazione della registrazione di una conversazione tra la ministra degli Esteri della Colombia, Claudia Blum, e l’ambasciatore colombiano a Washington, Francisco Santos, in un caffè della capitale statunitense, non lascia dubbi [2]: in questo momento il segretario di Stato USA Mike Pompeo è contrario a ogni intervento in America Latina; ha già mollato l’autoproclamatosi presidente del Venezuela, Juan Guaidó, facendo precipitare nello sgomento la Colombia anti-Maduro, e rifiuta ogni contatto con i numerosi apprendisti putschisti latino-americani.
Sembra che la nomina di Elliot Abrams come rappresentante speciale USA per il Venezuela non sia stata soltanto il prezzo della chiusura dell’inchiesta russa del procuratore Robert Mueller [3], ma anche un mezzo per farla finita con i neo-conservatori dell’amministrazione. Questo “diplomatico” si è comportato talmente male che in pochi mesi ha distrutto ogni speranza d’intervento imperialista USA in America Latina.
Del resto, il dipartimento di Stato USA è un cumulo di macerie: alti diplomatici hanno testimoniato contro il presidente Trump davanti alla commissione della Camera dei Rappresentanti incaricata dell’impeachment.
Ma chi conduce il gioco se non è l’amministrazione Trump a farlo? Evidentemente ci sono ancora residui importanti delle reti create dalla CIA negli anni dal 1950 al 1970. Dopo quarant’anni sono ancora presenti in numerosi Paesi dell’America Latina e possono agire autonomamente, con pochi appoggi esterni.

Le ombre del passato

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Ante Pavelić, capo della milizia degli ustascia, e il suo protettore, l’arcivescovo cattolico di Zagabria, monsignor Alojzije Stepinac. Il primo è ritenuto uno dei peggiori criminali della seconda guerra mondiale, il secondo viene considerato santo per aver lottato contro il comunismo.
Quando gli Stati Uniti decisero di arginare l’URSS, il primo direttore della CIA, Allen Dulles, e il fratello, il segretario di Stato John Foster Dulles, esfiltrarono miliziani dell’Asse un po’ ovunque nel mondo per combattere i partiti comunisti. Furono riuniti in un’associazione, la Lega Anticomunista Mondiale (WACL) [4], che organizzò in America Latina il “piano Condor” [5] per una cooperazione fra i regimi filo-USA e per assassinare i leader rivoluzionari, ovunque si rifugiassero.
Il generale-presidente boliviano Alfredo Ovando Candia (1965-1970) affidò al nazista Klaus Barbie (il “macellaio di Lione”) la caccia all’argentino Che Guevara. Barbie riuscì a eleminarlo nel 1967, come nel 1943 aveva fatto con il capo della Resistenza francese, Jean Moulin. Durante le dittature del generale Hugo Banzer Suárez (1971-1978) e di Luis Garcia Meza Tejada (1980-81), Klaus Barbie, assistito da Stefano Delle Chiaie (membro di Gladio, che organizzò in Italia il tentativo del colpo di Stato del principe Borghese), ristrutturò la polizia e i servizi segreti boliviani.
Dopo le dimissioni del presidente statunitense Richard Nixon, gli Stati Uniti si dedicarono alla grande operazione di trasparenza con le commissioni Church, Pike e Rockefeller sulle attività segrete della CIA. Il mondo scoprì soltanto le increspature di superficie, che erano comunque troppo. Nel 1977 il presidente Jimmy Carter nominò l’ammiraglio Stansfield Turner a capo della CIA, con l’incarico di ripulirla dai collaboratori dell’Asse e di trasformare i regimi filo-americani da dittature in democrazie. È perciò legittimo chiedersi come abbiano potuto Klaus Barbie e Stefano delle Chiaie supervisionare fino al 1981 il sistema repressivo della Bolivia.
Evidentemente Barbie e Delle Chiaie erano riusciti a organizzare la società boliviana in modo da prescindere dal sostegno di Casa Bianca e CIA. Gli bastava il sostegno discreto di qualche alto funzionario statunitense e il denaro di qualche multinazionale. Allo stesso modo hanno probabilmente agito i putschisti del 2019.
Durante il periodo anticomunista, Barbie favorì l’installazione in Bolivia di croati ustascia che avevano facilitato la sua fuga dall’Europa. Quest’organizzazione terrorista, creata nel 1929, rivendicava in primo luogo un’identità cattolica e aveva il sostegno della Santa Sede nella lotta contro i sovietici. Nel periodo tra le due guerre compì numerosi assassinii politici, fra gli altri quello, in Francia, del re ortodosso Alessandro I di Jugoslavia. Con la seconda guerra mondiale gli ustascia si allearono con fascisti e nazisti, pur conservando la propria specificità. Massacrarono gli ortodossi e arruolarono i mussulmani. In contraddizione con il cristianesimo cui in origine si riferivano, promossero una visione razzista del mondo e non consideravano gli slavi e gli ebrei come esseri umani a pieno titolo [6]. Alla fine della seconda guerra mondiale gli ustascia e il loro capo Ante Pavelić fuggirono dall’Europa e si rifugiarono in Argentina, dove furono accolti dal generale Juan Perón. Alcuni di loro però rifiutarono la sua politica e si staccarono: il gruppuscolo più intransigente emigrò in Bolivia [7].
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Per il neo-ustascia Luis Fernando Camacho, «la Bolivia appartiene a Cristo!»; una verità lapalissiana in una Paese al 98% cristiano. Ma cosa intende esattamente?

Gli ustascia in Bolivia

Quali che siano le ragioni etiche, è sempre difficile rinunciare a uno strumento offensivo. Così non bisogna meravigliarsi che collaboratori cacciati dal presidente Carter dalla CIA collaborarono con il vicepresidente di Ronald Reagan ed ex direttore della CIA, George Bush senior. Alcuni di loro formarono l’Antibolchevik Bloc of Nations [8]; si trattava soprattutto di ucraini [9], baltici [10] e croati. Tutti criminali oggi al potere.
Concerto di un gruppo ustascia a Zagabria nel 2007.
Gli ustascia boliviani hanno mantenuto legami con i fratelli d’armi in Croazia, in particolare durante la guerra del 1991-1995, in cui sostennero il partito cristiano-democratico di Franjo Tudman. In Bolivia hanno creato l’Unione Giovanile Cruceñista, milizia nota per le violenze antirazziali e le uccisioni d’indios aymara. Uno dei vecchi capi, l’avvocato e uomo d’affari Luis Fernando Camacho, è oggi presidente del Comitato Civico pro-Santa Cruz. È lui che apertamente dirige i sicari che hanno cacciato dal Paese l’aymara Evo Morales.
Sembra che anche il nuovo comandante in capo dell’esercito, Iván Patricio Inchausti Rioja, provenga dagli ustascia di Croazia. È lui che guida la repressione contro gli indios, munito della licenza d’uccidere della presidente Jeanine Áñes.
La forza degli ustascia boliviani non è nel numero. Sono solo un gruppuscolo. Eppure sono riusciti a cacciare il presidente Morales. La loro forza sta nell’ideologia: strumentalizzare la religione per giustificare il crimine. In un Paese cristiano nessuno osa opporsi spontaneamente a persone che si richiamano a Cristo.
Tutti i cristiani che hanno letto o sentito la nuova presidente annunciare il ritorno al governo della Bibbia e dei Quattro Vangeli — lei non sembra fare distinzione tra i due testi — e denunciare i «riti satanici degli indios» ne sono stati scioccati. Tutti hanno pensato fosse adepta di una setta. No, è soltanto una fervente cattolica.
Da molti anni mettiamo in guardia contro i partigiani al Pentagono della strategia Rumsfeld/Cebrowski, che vogliono fare nel Bacino dei Caraibi quanto fatto nel Medio Oriente Allargato. Sotto l’aspetto tecnico, il loro piano si è sempre scontrato con l’assenza di una forza latina, comparabile ai Fratelli Mussulmani e ad Al Qaeda. Tutte le macchinazioni partivano dalla tradizionale opposizione dei “capitalisti liberali” ai “socialisti del XXI secolo”. Non è più così. Ora una corrente interna al cattolicesimo predica la violenza in nome di Dio. Essa rende fattibile il caos. I cattolici latini si trovano nella stessa situazione dei sunniti arabi: devono con urgenza condannare questi individui per non essere travolti dalla loro violenza.

23 dicembre 2019

IL GIALLO ENRICO FORTI / DA 20 ANNI NEGLI STATES IN GALERA SENZA PROVE


In galera da 20 anni nei “democratici” States senza uno straccio di prova, senza un giusto processo, senza un movente per un omicidio che non ha mai commesso.
E’ l’incredibile story di Enrico ‘Chico’ Forti, del quale appunto ricorrono i vent’anni di folle detenzione nelle galere a stelle e strisce e sulla cui vicenda ha appena presentato un’interrogazione parlamentare alla Camera Michela Rostan di Liberi e Uguali.

Michela Rostan. In apertura la spiaggia di Miami e Chico Forti
Chiede al ministro degli Esteri Luigi Di Maio: “Forti dal 2000 si trova in carcere negli Stati Uniti, con una condanna all’ergastolo per omicidio avvenuto in base a un processo lampo, indiziario e senza prove. Il procedimento giudiziario in cui è stato coinvolto in nostro concittadino è, a detta di molti, lacunoso e parziale. A Forti sono stati negati diritti elementari di garanzia per difendersi. Cinque anni fa la Camera ha approvato una mozione per chiedere al Governo un impegno forte a tutela del nostro concittadino. Da allora si è mosso poco. L’esecutivo attivi i suoi buoni rapporti con gli Stati Uniti, sempre molto solerti quando si tratta di difendere i diritti di un connazionale, e avanzi con decisione la richiesta di un giusto processo con le giuste garanzie”.

IL PEGGIOR CASO DI MALAGIUSTIZIA NEGLI STATES
Ricostruiamo per sommi capi l’incredibile vicenda, etichettata dal legale di Forti, Joseph Tacopina (proprietario tra l’altro del Venezia Calcio) come “il peggior caso di malagiustizia che abbia mai visto negli Stati Uniti”. Non poco.
Di Forti si hanno le prime notizie quasi trent’anni fa, nel 1990, quando partecipa con successo ad una puntata di “Telemike”, vincendo la bella somma di 80 milioni. Ed è così che può soddisfare il sogno di una new life, volando negli amati States con la moglie per iniziare la nuova vita. Diventa videomaker e produttore televisivo, un vero dream; realizza soprattutto reportage sugli sport estremi che vende a diverse emittenti a stelle e strisce.

Joseph Tacopina
Le cose vanno ok e riesce a addirittura a trasferirsi in un quartiere esclusivo di Miami, in Florida. Decide di diversificare le sue attività e comincia ad investire nel settore immobiliare. Ed ecco che arriva una buona chance, ossia l’acquisto di un albergo che va per la maggiore – ma in quel periodo si trova in difficoltà – il Pike’s Hotel di Ibiza. Il proprietario, Tony Pike, entra in contatto con Chico Forti, la trattativa pare incanalarsi per il verso giusto. A questo punto Tony Pike decide di far venire a Miami il fratello, Dale, per avere il suo avallo alla vendita.
Chico va a prendere Dale all’aeroporto ma poche ore dopo il cadavere dello stesso Dale viene trovato sulla spiaggia di Miami con due proiettili nella testa, nelle tasche il biglietto aereo comprato da Forte. Il quale viene immediatamente fermato dalla polizia e trascinato senza complimenti in galera.
Seguirà un processo sommario, tipo Far West e alla conclusione manca solo il cappio al collo. Invece, sarà un continuo vagare per le galere statunitensi.

COME TI INCASTRO MEGLIO
Ecco alcune frasi dei parenti o di chi si è occupato del caso.
Sottolinea lo zio Gianni che si è venduto anche la casa per pagare le spese legali e tutto quanto potesse aiutare il nipote: “E’ stato condannato per aver pianificato l’omicidio di una persona che non aveva mai visto né incontrato in vita sua”.
“E’ tutta una costruzione della colpevolezza. Ciò che era a sgravio nel processo è stato eliminato o non si trova più”.
La madre novantunenne: “Devo mantenermi giovane per aspettare che esca”.
L’avvocato Tacopina: “Non ci sono prove né dai magistrati né dalla polizia che Chico sia l’assassino. Sono rimasto scioccato quando ho letto la trascrizione del processo. Ci sono dozzine di motivi che fano dubitare della sua colpevolezza”. E ancora: “anche un novellino dell’investigazione capirebbe che tutto è stato studiato per incastrarlo. Non c’è niente, è tragicamente ridicolo. Sembra una commedia di Benigni”. O una tragedia di Sofocle.
Un amico di vecchia data, Francesco Guidetti, fa notare: “viveva un momento felice e fortunato della sua vita, non aveva il minimo motivo per ipotizzare un omicidio del genere”.

Lorenzo Matassa
Ferdinando Imposimato, il magistrato coraggio che per decenni ha denunciato mafie & terrorismi e si è battuto con vigore per l’innocenza di Chico Forti: “In tutta la storia non esiste un solo indizio concreto. Nelle mie molteplici letture dei fascicoli processuali non ne ho trovato uno, uno solo”.
Ed infatti, a quanto pare, tutto dipende da pochi granelli di sabbia. Quelli trovati nelle tasche di Chico Forti e che proverrebbero dalla spiaggia dove è stato trovato il corpo della vittima.
Osserva Lorenzo Matassa, un altro ex magistrato che ha studiato a lungo il giallo: “Negli Stati Uniti, per condannare qualcuno, devi superare ogni ragionevole dubbio. Qui non esiste alcun movente. Non può esistere un delitto senza movente: a cosa giovava l’assassinio di questo ragazzo?”.
Secondo i giudici a stelle e strisce il movente sarebbe stato di interesse: ritengono, senza peraltro poterlo in alcun modo provare, che Dale fosse contrario alla vendita del Pike e che proprio per questo Forti avrebbe deciso di farlo fuori. Davvero ‘fuori’ dal mondo!

SERVIZI DI POLIZIA
La realtà è invece esattamente un’altra. E fa balzare evidenti tutte le responsabilità della polizia. Chico, infatti, aveva osato produrre un docufilm da novanta sull’omicidio di Gianni Versace facendo risaltare, nella pellicola, il pessimo operato della polizia di Miami in tutta la vicenda.

Gianni Versace
Ecco cosa scrive un sito americano a proposito dell’assassino del famoso stilista, Andrew Cunanan, e non solo: “Dopo una lunga caccia all’uomo, Cunanan venne trovato morto a Miami. Chico Forti realizzò un documentario in cui veniva dato spazio all’ipotesi che Cunanan sarebbe stato ucciso altrove e poi spostato nella casa in cui è stato ritrovato per inscenare un suicidio. Il documentario mise in cattiva luce l’operato della polizia di Miami. E’ da lì che sono cominciati i suoi problemi. Per esempio, la giudice che condannò Chico faceva parte del team che aveva condotto le indagini sulla morte di Cunanan”. Se vi par poco per depistare!
Ma c’è ancora una ciliegina sulla torta. In tutto il corso del processo, l’accusato non ha MAI avuto modo di difendersi né di dire la sua. Infatti non è MAI stato interrogato né MAI ha potuto verbalizzare in aula, al pubblico dibattimento nel corso del quale perfino il più efferato killer ha tutto il diritto di parlare.
Qui un innocente non ha potuto dire neanche una sillaba.
E’ questa la giustizia nei super democratici Usa?