22 luglio 2019

GIALLI / BORSELLINO, ROSSI, PANTANI: E’ DEPISTAGGIO CONTINUO

L’eterno giallo sulla strage di via D’Amelio. La vergogna di una verità non raggiunta, di una giustizia che non arriva. E lo scandalo di un maxi depistaggio di Stato, orchestrato proprio da chi avrebbe dovuto operare per mandare in galera killer e mandanti: ed invece ha coperto, occultato, sviato.
La più colossale menzogna costruita calpestando la memoria del giudice coraggio Paolo Borsellino, il simbolo, con Giovanni Falcone, nella vera, autentica lotta alle mafie e ai loro riciclaggi stramiliardari.

Falcone, Borsellino e Antonino Caponnetto. In apertura Paolo Borsellino e, sullo sfondo, il tribunale di Palermo
I cittadini sono ormai stufi di marce, marcette, sbandierate e sceneggiate: vogliono la verità su quei morti, e vedere finalmente sotto processo tutti quelli che fino ad oggi l’hanno fatta franca.
Siamo alla seconda puntata sui Misteri d’Italia, che sono in piedi da decenni, come tanti sepolcri imbiancati. Abbiamo parlato del caso clou, quello che ha visto l’assassinio a Mogadiscio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. E adesso siamo al giallo della strage di via D’Amelio, che guarda caso ha non pochi punti in comune.

QUEL DEPISTAGGIO CHE HA NOMI E COGNOMI
In primo luogo perché, come nel giallo Alpi, siamo in presenza di un clamoroso Depistaggio di Stato. Sul quale fino ad oggi non si sono levate proteste, in mezzo ad un totale, complice silenzio politico e istituzionale. Nessuna forza politica, infatti, è scesa in campo per dire una parola su quel depistaggio, né il governo gialloverde, né l’impalpabile opposizione, né s’è udita una sillaba da parte del presidente mummia Sergio Mattarella. Una vergogna.
Un depistaggio sul quale s’è aperto un processo: alla sbarra tre poliziotti che facevano parte, all’epoca delle prime indagini, del team guidato dall’ex questore di Palermo Arnaldo La Barbera. Un uomo anche dei Servizi segreti, La Barbera, sul quale è stata scaraventata tutta la responsabilità per il depistaggio, vale a dire il taroccamento del pentito Vincenzo Scarantino.
Adesso La Barbera non può difendersi, perché da una quindicina d’anni è passato a miglior vita. Non può quindi più raccontare se ha fatto tutto di testa sua, se ha organizzato la tragica sceneggiata da solo, oppure se ci sono stati interventi dall’alto, ad esempio dei magistrati dai quali funzionalmente e gerarchicamente dipendeva.

Il falso pentito Vincenzo Scarantino
A questo punto sorge spontanea la domanda: riuscirà mai il processo in corso sul depistaggio a chiarire quale effettivo ruolo hanno giocato i magistrati?
Vorranno e potranno raccontare quello che è veramente successo i tre poliziotti ora alla sbarra? Sarà verità oppure omertà? Staremo a vedere.
Il nodo sta tutto nella costruzione a tavolino del pentito Scarantino. Una costruzione emersa mano a mano, attraverso non poche testimonianze. La verbalizzazione sulla strage di Scarantino era servita a far condannare 7 innocenti che hanno scontato la bellezza di 16 anni di galera.
Proprio come è successo per il giovane somalo che ha scontato sempre 16 anni (sembra un macabro rituale) per un omicidio mai commesso, quello di Ilaria e Miran, sulla base della testimonianza taroccata di un altro somalo, alias Gelle.
Nella sua ultima verbalizzazione Scarantino (e così poi ha fatto la moglie) ha descritto per filo e per segno tutta l’operazione-taroccamento. E’ stato minacciato, intimidito, convinto non certo con metodi anglosassoni ad imparare un copione a memoria. Ogni giorno, prima delle udienze processuali, veniva istruito come uno scolaretto, gli veniva fatta ripetere la parte. Gli era stato anche detto che in caso difficoltà avrebbe potuto chiedere di andare in bagno, lì dove avrebbe trovato un poliziotto pronto a ricordagli la parte e imbeccargli le risposte. Ai confini della realtà.

Nino Di Matteo
Tutto questo è ormai storia. Ora occorre arrivare agli autori del testo della sceneggiata. In che misura e con quali ruoli sono coinvolti i tre magistrati che ne hanno “gestito” il pentimento, ossia Anna Maria PalmaCarmine Petralia e Nino Di Matteo?
La figlia di Paolo, Fiammetta Borsellino, ha più volte puntato l’indice nei confronti dei magistrati che fino ad oggi non hanno subito alcuna conseguenza, né civile, né penale. Chiede con la forza e la passione civile che la animano di accertare per ciascuno le precise responsabilità. Potranno saltare fuori dal processo che vede alla sbarra i tre poliziotti?
Da tener presente un elemento non da poco. Uno dei tanti magistrati che hanno seguito le prime piste per far luce sulla strage di via D’Amelio è stata Ilda Boccassini. Toga di gran prestigio, la quale ha potuto valutare l’attendibilità di Scarantino. E prima di passare alla procura di Milano, ha inviato una memoria ai suoi colleghi – evidentemente Palma, Petralia e Di Matteo in prima fila – per metterli in guardia da un pentito del tutto inattendibile e inaffidabile come Scarantino. Ma di tutta evidenza i colleghi non hanno tenuto in alcun conte le sue parole.
Sarà possibile approfondire tale circostanza nel corso dell’odierno processo per il maxi depistaggio?

DAVID ROSSI / GENOVA INDAGA SU SIENA (?)
Passiamo ad altri due gialli senza mai alcuna risposta. Nemmeno parziale. Con il concreto rischio che vadano a finire definitivamente in naftalina. Stiamo parlando dei casi di David Rossi e Marco Pantani. Accumunati, anche stavolta, da non poche, tragiche somiglianze.

David Rossi
Una cortina di silenzio sta sempre più avvolgendo la morte dell’ex responsabile delle comunicazioni per il Monte dei Paschi di Siena, David Rossi, volato giù dal quarto piano della sede centrale in via dei Salimbeni, a Siena.
Un caso che la procura di Siena ha più volte cercato di archiviare, sostenendo la tesi del suicidio. Una tesi che non sta in piedi, manifestamente infondata, per tutta una serie di anomalie che anche uno scolaretto delle elementari sarebbe in grado di vedere.
Per questo oltre un anno fa il fascicolo è passato alla procura di Genova, che dovrebbe indagare anche sulle stesse indagini farlocche portate avanti a Siena.
Ma da Genova non arrivano notizie. Tutto fermo, a quanto pare. Come mai? C’è forse qualche remora nel cavar fuori scomode verità sulle inerzie, quanto meno, dei colleghi senesi?
Periodicamente saltano fuori alcune news, soprattutto per i servizi mandati in onda dalla Iene. Ed emergono di volta in volta notizie su festini, attività massoniche, strani intrecci all’interno del Montedei Paschi, interventi vaticani. Poi di nuovo cala il silenzio più assordate.
Una scena del crimine che parla da sola, come documentano alcune perizie. Quella sulla dinamica della caduta del corpo, da cui risulta chiaro come si sia verifica una spinta e non si possa essere trattato di una caduta da suicidio Poi la perizia grafologica, per dimostrare come le due lettere lasciate ai familiari da David Rossi fossero state scritte sotto coazione. E soprattutto quella medica che evidenzia segni di colluttazione sul corpo, da trascinamento e da sollevamento: che fanno letteralmente a pugni con ogni ipotesi di suicidio.
Senza contare uno degli elementi base. I vertici MPS – già teatro di diverse altri morti sospette di funzionari in quei bollenti anni di “crisi”, come viene documentate nel libro “Morte dei Paschi di Siena” di Elio Lannutti – erano a conoscenza del fatto che a brevissimo David Rossi si sarebbe recato dai magistrati per raccontare la sua verità sugli scandali targati Mps. Una testimonianza che poteva risultare devastante. Per questo David non doveva parlare.

MARCO PANTANI / GIRI E GIRONI INFERNALI
Così come non avrebbe mai dovuto parlare Marco Pantani sugli scandali del doping nelle corse e sulle mani delle scommesse pilotate dalla camorra in occasione del Giro d’Italia del 1999.
Un giallo che dovrebbe tornare ancor più di attualità oggi, dopo le recenti rivelazioni su un altro giallo, la morte del calciatore David Astori.

Marco Pantani
La fine di Pantani resta avvolta in una cortina di nebbia su cui la magistratura non ha voluto far luce. La scena del crimine, quel 14 febbraio 2004 al residence Le Rose di Rimini, parlava in un modo che più chiaro non si può.
Una stanza sottosopra, il letto squarciato, un giubbotto non si sa chi di chi e soprattutto un corpo che racconta di ferite, trascinamento, tracce ematiche, tutto evidente frutto di una colluttazione. E ancora, una pallina di pane e coca che avrebbe dovuto subito indirizzare gli inquirenti verso una pista ben precisa: Pantani venne “abboffato” con palline di pane e coca, tali da provocargli un arresto cardiaco.
Ma quella scena del crimine è stata subito inquinata: indagini fatte con i piedi e, per fare un solo esempio, tracce di un cornetto Algida nel contenitore dei rifiuti, lì lasciato – così scrivono i magistrati – da chi ha subito fatto le indagini: forse per concentrarsi meglio…
Cento e passa anomalie, ha denunciato con amarezza il legale della famiglia Pantani, Antonio De Rensis. Che si è dovuto arrendere davanti alla richiesta di archiviazione sancita dalla procura di Forlì e poi ratificata dalla Cassazione.
Sotto il mero profilo tecnico resta in vita una flebile inchiesta alla Procura di Napoli, affidata al pm antimafia Antonella Serio. Lo stesso De Renzis, ingoiata la sentenza della Cassazione, ha cercato di far riaprire il caso del Giro d’Italia 1999, quello che decretò la fine sportiva e anche umana del Pirata. Un Giro chiaramente comprato e taroccato dalla camorra, che aveva scommesso miliardi di lire, all’epoca, sulla sconfitta del campione.

L’avvocato Antonio De Rensis
Il quale fu fermato, infatti, al tappone di Madonna di Campiglio. Per uno ematocrito troppo elevato, frutto di una combine, proprio perché la camorra aveva effettuato quelle maxi scommesse. Non ci volle molto a “convincere” con metodi non proprio inglesi i medici dell’equipe ad alterare quei dati. “Oggi il ciclismo è morto”, disse quel giorno il capo equipe, un medico svedese, Wim Jeremiasse, dopo qualche mese “affondato” in un lago austriaco.
Della combine aveva parlato un camorrista in carcere a RenatoVallanzasca, e da lì partì l’indagine della procura di Forlì. Che identificò quel camorrista, il quale confermò la sua versione, poi ribadita da diversi altri pentiti di camorra. Ma che fa la procura di Forlì? Se ne frega, ritiene le prove non sufficienti e archivia!
De Renzis chiede alla procura di Napoli la riapertura del caso quasi tre anni fa: proprio perché è coinvolta la camorra e hanno parlato dei pentiti.
Ma da allora di quel fascicolo giudiziario non si sa più niente.
La giustizia è sempre in fase di archiviazione.

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