08 luglio 2020

Come Washington vuole trionfare, di Thierry Meyssan


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Nel 2001 Donald Rumsfeld e l’ammiraglio Arthur Cebrowski definivano gli obiettivi del Pentagono al tempo del capitalismo finanziario, mentre lo stato-maggiore disegnava questa mappa di spartizione del Grande Medio Oriente. Nel 2017 però Donald Trump si opponeva: 1. a modifiche dei confini; 2. alla creazione di Stati governati da jihadisti; 3. a truppe statunitensi nella regione. Il Pentagono cominciò così a riflettere su come portare avanti la distruzione delle strutture statali, senza però rimettere in causa i confini delle nazioni, in modo d’accontentare la Casa Bianca.

Durante i tre mesi di confinamento degli Occidentali, la mappa del Medio Oriente è stata trasformata in profondità. Lo Yemen è diviso in due Paesi distinti, Israele è paralizzato da due primi ministri che si detestano, l’Iran sostiene apertamente la NATO in Iraq e in Libia, la Turchia occupa il nord della Siria, l’Arabia Saudita è sull’orlo del fallimento. Tutte le alleanze sono rimesse in discussione e nuove divisioni compaiono, meglio riaffiorano.


Da due decenni Washington tenta di “riconfigurare” il Grande Medio Oriente, regione arbitrariamente definita, che va dall’Afghanistan al Marocco. Negli ultimi tre anni si sono però scontrate due strategie: da un lato il Pentagono, che vuole annientare le strutture statali dei Paesi della regione, dall’altro il presidente Trump, che vuole dominare commercialmente la regione, ma senza occuparla militarmente.
Quando, per prevenire l’epidemia di COVID-19, fu dichiarato il confinamento, Réseau Voltaire aveva avvertito che nella regione erano in corso cambiamenti talmente profondi da renderla diversa da quella conosciuta prima dell’intermezzo epidemiologico. Avevamo innanzitutto osservato che Washington aveva rinunciato alla distruzione delle strutture statali in Siria, divenuta zona riservata della Russia. Quindi, secondo noi, la questione principale era l’individuazione del prossimo obiettivo del Pentagono nella regione – due le possibilità: Turchia o Arabia Saudita, Paesi entrambi alleati degli Stati Uniti – e dei mercati che la Casa Bianca avrebbe tentato di aprire.
La nostra analisi è condivisa da tutti quelli che interpretano gli accadimenti degli ultimi vent’anni come l’attuazione della strategia Rumsfeld/Cebrowski di distruzione delle strutture statali del Grande Medio Oriente. È respinta invece da chi, rifiutandosi di tener conto dei fattori internazionali, ingenuamente interpreta gli avvenimenti come successione di guerre civili (Tunisia, Egitto, Libia, Siria, Yemen e, forse a breve, Libano) non collegate fra loro.
Ebbene, dopo i tre mesi di confinamento la Turchia ora è sostenuta militarmente in Libia dall’Iran; l’Arabia Saudita è invece sparita dai radar, in particolare nello Yemen; e gli Emirati sono il fulcro della stabilità regionale. L’avvio del ribaltamento regionale favorisce Ankara e Abu Dhabi, danneggia invece Riad. Le trasformazioni più radicali sono il ribaltamento della posizione dell’Iran, ora collocato a fianco della NATO, la distensione delle relazioni USA-Turchia e l’ascesa degli Emirati Arabi Uniti. I fatti ci hanno dato ragione. Coloro che invece hanno dato credito alla narrazione di guerre civili distinte si sono auto-ingannati. Naturalmente non lo ammetteranno e avranno bisogno di diversi mesi per adattare le loro analisi errate alle realtà.
È ovvio che tutti dovranno adeguare le proprie posizioni all’evoluzione della situazione e che le nostre osservazioni valgono solo per questo momento. Ma la regione si trasforma molto rapidamente e chi rifletterà troppo a lungo prima di reagire ne uscirà automaticamente battuto; un’osservazione valida per gli europei in particolare. Infine, questa nuova situazione è molto instabile e potrebbe essere rimessa in discussione da Washington – se il presidente Trump non dovesse succedere a se stesso – o da Mosca – se alla fine del mandato presidenziale il presidente Putin non riuscisse a conservare il potere – o da Beijing – se il presidente Xi insistesse a costruire in Occidente tronconi delle Vie della Seta.
Nel più grande silenzio mediatico gli Emirati Arabi Uniti si sono dissociati dall’Arabia Saudita sul campo di battaglia yemenita. Hanno appoggiato tribù che hanno espulso le truppe saudite dal proprio territorio. Insieme ai britannici occupano l’isola di Socotra e controllano così lo stretto di Bab el-Mandeb, all’uscita del Mar Rosso. Hanno di fatto operato una divisione dello Yemen che ricalca le frontiere della guerra fredda tra Yemen del Nord e Yemen del Sud [1].
L’Iran, nonostante la controversia frontaliera con gli Emirati e la guerra che si sono appena fatti per interposti yemeniti, è soddisfatto di quest’evoluzione che consente agli huthi sciiti d’ottenere una parvenza di pace, sebbene non ancora di sconfiggere la fame. Rassegnandosi infine all’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, con tre anni di ritardo Teheran ha riallacciato i contatti con Washington. In maniera spettacolare il governo di Hassan Rohani ha annunciato di sostenere militarmente il governo di el-Sarraj in Libia [2]. In pratica, questo significa sostegno ai Fratelli Mussulmani – come negli anni Novanta in Bosnia Erzegovina – nonché a Turchia e NATO – come durante il regime dello scià Reza Pahlevi. Alla luce di questi fatti, non si capisce cosa possa fare l’Iran in Siria, dove dovrebbe battersi contro i suoi nuovi alleati: gli jihadisti, la Turchia e la NATO.
Naturalmente bisogna tener presente che l’Iran, come il nuovo Israele, è bicefalo. Le dichiarazione del governo Rohani potrebbero non impegnare la Guida della Rivoluzione, ayatollah Ali Khamenei.
Comunque sia, il capovolgimento di posizione di un elemento fondamentale come l’Iran mette lo Hezbollah in cattive acque. Oggi emerge che sono stati proprio gli Stati Uniti a provocare, deliberatamente e con l’aiuto del governatore della Banca centrale del Libano, la caduta della lira libanese. Washington tenta ora di imporre a Beirut la legge statunitense (Caesar Syria Civilian Protection Act) che la obbligherebbe a chiudere la frontiera fra Libano e Siria. Il Libano sarebbe costretto per sopravvivere ad allearsi con l’unica altra potenza con cui condivide una frontiera terrestre: Israele, l’antico colonizzatore [3]. Stante la situazione a Tel Aviv, dove il potere è nelle mani di una coalizione bicefala – in cui sono alleati i partigiani del vecchio progetto coloniale britannico e i sostenitori del nazionalismo della terza generazione d’israeliani – non è certamente possibile una nuova invasione del Libano. Ma, trattandosi d’una coalizione estremamente fragile, un’inversione di rotta è possibile, forse addirittura probabile. Il Libano ha una sola possibilità: non applicare la legge USA e volgersi, non più verso l’Occidente, ma verso la Russia e la Cina. È quanto ha osato dire pubblicamente il segretario generale dello Hezbollah, sayyed Hassan Nasrallah, che ritiene l’Iran – nonostante il suo avvicinamento alla Turchia, presente nel nord del Libano con i Fratelli Mussulmani [4]), e alla NATO, presente alle spalle d’Israele – continui a essere culturalmente l’intermediario tra Cina e Occidente. Nell’Antichità e nel Medio Evo, lungo la via della seta non si parlavano le lingue locali, bensì il persiano.
Storicamente, lo Hezbollah è stato creato sul modello dei Basij della Rivoluzione iraniana, di cui condivide la bandiera. L’armamento però gli è stato fornito, fino al ritiro siriano dal Libano nel 2005, da Damasco, non da Teheran. Per ragioni sia ideologiche sia materiali, sarà quindi costretto a scegliere uno dei suoi due padrini. Sayyed Hassan Nasrallah è favorevole al modello laico siriano; il suo vice, sceicco Naïm Qassem, sostiene invece incondizionatamente il modello teocratico iraniano. Il denaro si trova però a Teheran, non a Damasco.
A ogni modo, i libanesi potrebbero essere fuorviati. Dato che non prendono in considerazione la possibilità che Stati Uniti e Russia abbiano deciso di applicare il trattato regionale di “Yalta”, negoziato nel 2012 e fatto fallire da Hillary Clinton e François Hollande, non riescono a capire perché Washington continui ad affliggerli. Se così fosse, il Libano potrebbe essere stato ascritto, a sua insaputa, alla zona d’influenza russa.
Anche ora, come costantemente accade da secoli, gli interessi delle potenze occidentali convergono nel senso della laicità, ma la strategia per dominare la regione le induce inesorabilmente ad appoggiarsi ai religiosi contro i nazionalisti (con la sola e breve eccezione degli USA nel 1953).
La Siria, accerchiata dagli alleati degli Stati Uniti, non può che rifornirsi dalla Russia. Una scelta da anni mal digerita dalla classe dirigente, percorribile solo dopo la risoluzione del conflitto che oppone il presidente Bashar al-Assad al miliardario Rami Maklouf, suo lontano cugino, nonché a tutte le oligarchie siriane. Un litigio non dovuto a un affare di famiglia, come raccontano i media occidentali, ma a una disputa comparabile a quella che negli anni Duemila consentì al presidente Vladimir Putin di riprendere il controllo delle oligarchie russe e di eliminare gli errori del periodo Eltsin. Diciassette anni di embargo contro Damasco non hanno fatto che rinviare quest’inevitabile prova di forza. Solo dopo la risoluzione di questo conflitto Damasco potrà pensare alla riconquista dei territori perduti: il Golan occupato da Israele e Idlib occupato dalla Turchia [5].
L’Iraq è stato il secondo Paese, dopo gli Emirati, ad aver capito il cambiamento iraniano. Si è subito accordato con Washington e con il nuovo Teheran per nominare primo ministro il capo dei servizi segreti, Mustafa al-Kadhimi, sebbene negli ultimi sei mesi il precedente Teheran l’avesse violentemente accusato di aver partecipato attivamente all’assassinio dell’eroe sciita Qassem Soleimani a Bagdad [6]. Di conseguenza, l’Iraq non dovrebbe più combattere la ricomparsa dei gruppi jihadisti iracheni (organizzazioni mercenarie anglosassoni, ora sostenute dall’Iran), bensì negoziare con i loro capi.
Israele, unico Paese al mondo governato da due primi ministri, non potrà più svolgere il ruolo di estensione delle potenze anglosassoni e nemmeno potrà diventare una nazione come le altre. La sua politica estera è paralizzata nel momento stesso in cui il Libano è indebolito e rappresenta quindi una preda d’elezione. Per i sostenitori del progetto coloniale – uniti dietro il primo ministro Benjamin Netanyahu e in declino – il cambiamento dell’Iran è già evidente in Iraq e in Libia. Per tirare avanti è urgente trovare un nuovo nemico iconico. Per i nazionalisti israeliani invece – uniti dietro il secondo primo ministro Benny Gantz – non conviene scagliare pietre contro nessuno ma negoziare prudentemente con Hamas, ossia con i Fratelli Mussulmani [7].
L’Egitto rimane focalizzato sul problema alimentare. Riesce a sfamare la popolazione solo grazie all’aiuto saudita e pianifica il proprio sviluppo economico contando sull’aiuto cinese. Al momento è paralizzato dall’arretramento saudita e dall’offensiva anticinese degli Stati Uniti. Ciononostante prosegue nel riarmo.
Infine la Libia: come Stato non esiste più. È divisa in due come lo Yemen. Grazie alla vittoria della NATO nel 2011 e all’assenza di truppe al suolo statunitensi, è l’unico Paese della regione in cui il Pentagono può portare avanti senza ostacoli la strategia Rumsfeld/Cebrowski [8]. I recenti successi militari di el-Sarraj (ossia dei Fratelli Mussulmani), sostenuto dalla Turchia e ora anche dall’Iran, non devono illudere. Il governo del maresciallo Haftar, sostenuto dagli Emirati e dall’Egitto, resiste. Il Pentagono vuole far durare il conflitto il più a lungo possibile, a spese della popolazione. Sostiene entrambi i campi, come accadde nella guerra Iraq-Iran (1980-1988), e sempre accorrerà in soccorso del perdente, salvo poi abbandonarlo l’indomani.
Rimangono i due grandi perdenti della nuova situazione: la Cina e l’Arabia Saudita.
L’influenza cinese in Iran è ferma. In Israele è appena stata bloccata dal segretario di Stato, Mike Pompeo. Beijing non costruirà la più grande centrale al mondo di desalinizzazione e i suoi progetti per i porti di Haifa e Ashdod sono destinati al fallimento, nonostante gli enormi investimenti già realizzati. Nessuno oserà eliminare i 18 mila jihadisti al confine tra Siria e Turchia [9], che perciò continuerà a essere instabile, sbarrando la strada all’ipotesi del passaggio a nord della Via della Seta. Rimarrà perciò percorribile soltanto il passaggio a sud, dal canale di Suez egiziano, che però continuerà a essere controllato dagli Occidentali.
Nessuno sa come sia messa l’Arabia Saudita. In tre anni il principe Mohammed bin Salman (MBS) ha saputo suscitare folli speranze in Occidente, nonché mettersi contro tutte le potenze della regione a forza d’impiccagioni, smembramenti degli oppositori e dissoluzione dei loro corpi nell’acido. L’Arabia Saudita ha dovuto battere in ritirata in Yemen, dove si era incautamente avventurata, e rinunciare alle grandi opere, in particolare alla costruzione della zona franca, che avrebbe dovuto ospitare miliardari del mondo interno, Neom [10]. Le sue gigantesche riserve petrolifere non sono più oggetto di speculazione e hanno perso parte importante del loro valore. La più grande potenza militare della regione altro non è che un colosso d’argilla agonizzante nelle sabbie del deserto che l’hanno vista sorgere.
Il presidente Donald Trump sta in fin dei conti raggiungendo i propri fini: ha fatto fallire il progetto del Pentagono di uno Stato affidato a un’organizzazione terrorista, Daesh, ed è riuscito a riassorbire nell’orbita economica USA tutti gli Stati della regione, eccezion fatta per la Siria, persa già nel 2014. Allo stesso tempo però il trionfo del Pentagono è parziale: è riuscito a distruggere le strutture statali di Afghanistan, Iraq, Libia e Yemen; ha fallito solo Siria, certamente grazie all’intervento militare russo, ma soprattutto perché i siriani incarnano il concetto di Stato dalla notte dei tempi.
L’annientamento delle strutture statali afgane, in conformità al piano del Pentagono, e il ritiro dal Paese delle truppe USA – che sarà effettivo il giorno delle elezioni presidenziali – voluto dal presidente Trump, avrebbero potuto segnare un’alleanza tra le due forze. Così non è stato. Il Pentagono ha tentato invano d’imporre la legge marziale negli Stati Uniti per l’epidemia di COVID-19 [11], poi ha aiutato sottobanco gli “Antifa”, che già aveva inquadrato in Siria [12], per coordinare le rivolte contro il “razzismo”. La Russia, che non ha mai cambiato posizione, aspetta tranquillamente di raccogliere gli allori del proprio impegno in Siria.
Traduzione
Rachele Marmetti
Giornale di bordo

www.voltairenet.org

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