11 marzo 2020

La Turchia in cerca di potere, di Thierry Meyssan


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Plastico del complesso presidenziale di Ankara, il “palazzo bianco”. La Turchia compensa l’incapacità a darsi una definizione con una forma di delirio di grandezza.

Pur rallegrandosene, la stampa internazionale interpreta il voltafaccia della Turchia – ora nuovamente in contrasto con la Russia – come ulteriore prova del carattere imprevedibile del sultano Erdoğan. Secondo Thierry Meyssan è invece una dimostrazione della perseveranza di Ankara nel ricercare un’identità: non potendo scegliere il proprio destino, si adatta alla nuova situazione.

La Turchia attuale è l’erede delle orde di Gengis Khan, dell’impero ottomano, nonché dello Stato laico di Mustafa Kemal. Ha rifiutato la definizione dei propri confini del Trattato di Sèvres (1920) e ha imposto con la forza le modifiche del Trattato di Losanna (1923), ma ancora oggi si ritiene incompresa e amputata dei territori greci, ciprioti, siriani e iracheni, che non ha mai smesso di rivendicare. Persiste nel negare i crimini del passato, compreso il genocidio dei non-mussulmani.
Ormai da un secolo la Turchia non riesce a definirsi territorialmente; la sua politica estera è perciò una reazione ai rapporti di forza regionali e mondiali, che dà l’impressione, sbagliata, di una volontà erratica.
Il recente voltafaccia nei rapporti con la Russia non è il colpo di testa di un lunatico, ma la prosecuzione di una ricerca identitaria in un contesto instabile.

1 – La sparizione dell’URSS (1991)

Il 26 dicembre 1991, quando l’URSS fu sciolta, per la Turchia – che, imprevidente, non aveva pensato ad affermarsi come membro del campo dei vincitori della guerra fredda – venne meno la ragione della propria esistenza.
Ankara aveva preso in considerazione di modernizzarsi aderendo alla Comunità Europea; gli europei però non avevano intenzione di accoglierla e tiravano per le lunghe i negoziati (Stato associato dal 1963, candidato dal 1987). Una seconda possibilità era mettersi a capo del mondo mussulmano, seguendo le orme dell’impero ottomano; ma i sauditi, che presiedono la Conferenza Islamica, si opponevano. Si offriva una terza possibilità: riannodare i legami con le popolazioni turcofone di cultura mongola dell’Asia centrale, diventate indipendenti.
La Turchia esitò troppo e si lasciò sfuggire questa “finestra di uscita”. Comandando l’operazione Tempesta nel Deserto per liberare il Kuwait e convocando la conferenza di Madrid sulla Palestina (1991), il presidente Bush padre mise in atto un ordine regionale stabile, retto dal triumvirato Arabia Saudita/Egitto/Siria. Per conquistarsi spazio, la Turchia annodò una relazione privilegiata con l’altro orfano del Medio Oriente, Israele, che condivide le sue stesse fantasie irredentiste [1].

2 – L’11 Settembre 2001

Distruggendo i suoi principali nemici – Afghanistan e Iraq – il presidente Bush figlio permise all’Iran di riconquistare un ruolo nella regione. Teheran si mise alla testa di un’“Asse della Resistenza” di alcuni Paesi (Iran, Iraq, Siria, Libano e Palestina) contro gli altri, organizzati attorno ad Arabia Saudita e Israele. Contrariamente alle apparenze e alla lettura semplicistica dell’Occidente, non si trattava di un’opposizione pro o anti-USA, nemmeno di un contrasto fra sciiti e sunniti, bensì di un conflitto regionale fasullo, attizzato dal Pentagono, come l’inutile guerra decennale fra Iraq e Iran. Questa volta però l’obiettivo finale non era indebolire gli uni e gli altri, bensì far distruggere agli stessi abitanti tutte le strutture statali della regione (strategia Rumsfeld/Cebrowski).
Unico Stato della regione ad aver immediatamente capito il gioco, la Turchia scelse di tutelarsi, mantenendo buone relazioni con entrambi i campi e sollecitando uno sviluppo economico invece che esortare alla guerra civile regionale. Prese perciò le distanze da Israele.
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Mappa dello stato-maggiore USA, pubblicata dal colonnello Ralph Peters (2006): contrariamente a ogni previsione, gli Stati Uniti si apprestano a smantellare l’alleato turco creando sul suo territorio un “Kurdistan libero”.
Quando nel 2006 il colonnello Ralph Peters pubblicò la mappa dei progetti dello stato-maggiore USA, fu chiaro che anche la Turchia sarebbe stata distrutta dall’alleato USA, a favore di un “Kurdistan libero” [2], vagamente ispirato al Kurdistan disegnato nel 1920. Una parte degli ufficiali generali turchi rimise in discussione l’allineamento della Turchia a Washington e suggerì di stringere una diversa alleanza. Tastarono il terreno dalle parti di Beijing (Mosca non era ancora tornata a essere una potenza militare). Alcuni fecero il gran passo aprendo un canale di discussione e acquistando qualche arma. Furono arrestati nel 2008, insieme ai responsabili del Partito dei Lavoratori (İşçi Partisi) (kemalo-maoisti), nell’ambito dello scandalo Ergenekon. Quasi tutti gli ufficiali di stato-maggiore furono condannati a pesanti pene detentive, con la falsa accusa di spionaggio a favore degli USA; in seguito la verità venne a galla e tutte le sentenze furono invalidate.
Indispettita, Ankara acconsentì a creare un mercato comune con il vicino siriano, per proteggersi da un eventuale massacro in vista di un “Kurdistan libero”.

3 - Le “Primavere arabe” (2011)

Durante l’operazione delle “Primavere arabe”, con cui gli anglosassoni ambivano a issare al potere i Fratelli Mussulmani nell’intero Medio Oriente Allargato, la Turchia sperò di poter approfittare dell’appartenenza alla Confraternita del presidente Recep Tayyip Erdoğan e mettersi così al riparo dall’annunciato caos. Ankara ridestò quindi la tribù ottomana dei Misurata in Libia e aiutò la NATO a rovesciare il suo alleato Muammar Gheddafi. Entrò poi in guerra con il partner siriano. Furono due avventure che distrussero l’economia turca, fino a quel momento fiorente.
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Mentre si nasconde dai militari incaricati dalla CIA di ucciderlo, il presidente Erdoğan riesce a rivolgersi al popolo turco in televisione, per mezzo di un portatile retto dalla presentatrice. Il 15 luglio, in poche ore, ristabilisce la legalità costituzionale.
Quando la Russia entrò in scena e sconfisse Daesh, la Turchia decise di liberarsi degli Occidentali. Si avvicinò a Mosca, acquistò sistemi missilistici S-400 e la centrale atomica di Akkuyu, a Sochi e Astana s’impegnò per la pace in Siria. La CIA reagì manipolando l’organizzazione di Fetullah Gülen e finanziando l’HPD (Partito delle Minoranze) contro l’AKP (islamista). Fece abbattere un Sukhoï-24, tentò di assassinare il presidente Erdoğan, fallì un colpo di Stato, riuscì a uccidere l’ambasciatore russo Andreï Karlov, e altro ancora.
Stordita, la Turchia replicò con una grande caccia alle streghe: furono imprigionate circa 500 mila persone, sospettate di aver partecipato a un tentativo di assassinio in cui potevano al più essere implicate alcune centinaia di militari.
Ankara decise così di collocarsi a metà strada tra Washington e Mosca, perseguendo la propria indipendenza anche a rischio di essere schiacciata in ogni momento da un accordo tra i due Grandi. La Turchia cercò anche di posizionarsi in modo da sostenere e al tempo stesso intralciare i suoi due padrini: da un lato prese parte alla guerra contro la Siria, dall’altro sostenne l’Iran e installò basi in Qatar, Kuwait e Sudan.
Oltre all’impossibilità di sostenere a lungo una simile posizione, la Turchia si è trovata a inseguire cinque prede contemporaneamente: l’UE, con cui ha firmato un accordo sulle migrazioni; gli arabi, che ora asserisce di voler difendere da Israele; l’Asia Centrale, che tiene al riparo sotto la propria ala; la NATO, che non ha lasciato, e la Russia, che ha tentato di sedurre.

4 – L’assassinio del generale Soleimani (2020)

Il mondo intero ha creduto – a torto – che gli Stati Uniti, esausti, si ritirassero dal Medio Oriente Allargato e lasciassero campo libero alla Russia. In realtà, ritiravano le proprie truppe ma intendevano conservare il controllo della regione attraverso mercenari numerosi e addestrati: gli jihadisti.
Vista la volontà degli Stati Uniti di proseguire nel Nord Africa le distruzioni avviate nella parte asiatica del Medio Oriente Allargato, e considerando che è stato probabilmente il governo iraniano – e non Israele – ad aiutare il Pentagono a uccidere del generale Qassem Soleimani, Ankara ha ancora una volta modificato il proprio piano.
La Turchia è rientrata nell’orbita di Washington: Ankara, che il 13 gennaio a Mosca negoziava la pace in Siria, il 1° febbraio sfida brutalmente la stessa Russia, uccidendo ad Aleppo quattro ufficiali dell’FSB [3].
L’esercito turco, la tribù dei Misurata (Libia), nonché gli jihadisti di Idlib (Siria) – 5 mila dei quali trasferiti dai servizi segreti turchi in un mese e mezzo – hanno cominciato a dissanguare la Libia con la complicità, forse involontaria, del maresciallo Khalifa Haftar; non si fermeranno fino allo sfinimento completo delle parti in campo [4].

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