29 giugno 2018

La Germania e la Siria di Thierry Meyssan

Le relazioni tra Germania e Siria, eccellenti all’epoca dell’imperatore Guglielmo II, oggi sono esecrabili. Il motivo è che Berlino, al termine della Guerra Fredda, è diventata retrovia dei Fratelli Mussulmani desiderosi di rovesciare la Repubblica araba siriana. Dal 2012 il ministero degli Esteri tedesco, insieme a quel serbatoio federale di cervelli che è l’SWP, operano direttamente per conto dello Stato Profondo statunitense con l’obiettivo di distruggere la Siria.


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A gennaio 2015 una marcia della tolleranza radunò a Berlino i responsabili politici tedeschi e i leader mussulmani, in reazione all’attentato contro Charlie Hebdo a Parigi. La signora Merkel vi sfilò a braccetto con Aiman Mazyek, segretario generale del Consiglio centrale dei mussulmani. Benché pretenda di aver rotto con i Fratelli Mussulmani e di esternarsi schiettamente, Mazyek protegge, nel seno del proprio sodalizio, sia la Milli Gorus (l’organizzazione suprematista di Recep Tayyip Erdoğan) sia i Fratelli Mussulmani ‒ matrice delle organizzazioni jihadiste ‒ allora presieduta mondialmente da Mahmoud Ezzat, ex braccio destro di Sayyed Qutb.
All’inizio del XX secolo la Germania vantava eccellenti relazioni storiche con l’impero ottomano. Il Kaiser Guglielmo II era affascinato dall’islam. Oltre a promuovere scavi archeologici, specialmente a Baalbeck, partecipò alla costruzione delle prime ferrovie, come la Damasco-Medina. Nel 1915, quando gl’inglesi organizzarono la cosiddetta Grande Rivolta Araba, il Reich e la Sublime Porta li affrontarono insieme. Ma in seguito persero la Prima Guerra mondiale e di conseguenza i vincitori li esclusero dalla regione, con gli accordi Sykes-Picot-Sazonov.
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Nel 1953 il presidente Eisenhower riceve una delegazione dei Fratelli Mussulmani, guidata da Saïd Ramadan. Ormai gli Stati Uniti sostengono l’islam politico all’estero.
Durante la Guerra Fredda la CIA arruolò alcuni dei migliori ufficiali nazisti per continuare la propria battaglia contro l’URSS. Tra di loro c’era Gerhard von Mende, che aveva reclutato mussulmani sovietici contro Mosca [1]. Nel 1953 questo alto funzionario installò a Monaco il capo dei Fratelli Mussulmani transfughi dall’Egitto, Saïd Ramadan [2].
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Alois Brunner, ritenuto responsabile della deportazione di 130 mila ebrei, nel 1954 fu installato dalla CIA a Damasco, per evitare che il regime del presidente Choukri al-Kouatli non stringesse alleanze con i sovietici.
Nello stesso periodo la CIA spedisce ‒ sotto copertura ‒ ufficiali nazisti un po’ dappertutto nel mondo, per combattere i pro-sovietici. Per esempio: Otto Skorzeny in Egitto, Fazlollah Zahedi in Iran e Alois Brunner [3] in Siria. Tutti organizzano i servizi segreti locali sul modello della Gestapo. Brunner non sarà estirpato che molto tempo dopo, nel 2000, dal presidente Bachar el-Assad.
Nel periodo intercorrente tra la rivoluzione khomeinista del 1979 e gli attentati dell’11 settembre 2001, la Germania Ovest si mostra prudente verso la Confraternita. Tuttavia, su richiesta della CIA e nel momento in cui la Siria riconosce la Germania Est, essa accetta di offrire asilo politico ai golpisti che nel 1982 tentarono il colpo di Stato contro il presidente Hafez el-Assad, tra cui l’ex Guida suprema Issam al-Attar, fratello della vicepresidente siriana Najah el-Attar. Negli anni Novanta, la Confraternita si riorganizza in Germania con l’aiuto di due uomini d’affari, il siriano Ali Ghaleb Himmat e l’egiziano Youssef Nada, che in seguito saranno accusati da Washington di finanziare Osama Bin Laden. [Nel 2001 Nada fu inserito nella Lista Nera dei terroristi, redatta dagli Stati Uniti. Per questo fu perseguito dalla Svizzera, dove risiedeva. Nada si rivolse alla giustizia europea, che nel 2012 lo riconobbe vittima di persecuzione immotivata. Nel 2015 gli Stati Uniti lo depennarono dalla Lista Nera, senza clamore. Ndt]
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Per lunghi anni il docente universitario tedesco Volker Perthes ha partecipato, a fianco della CIA, alla preparazione della guerra contro la Siria. Egli dirige il più potente serbatoio di cervelli europeo, la Stiftung Wissenschaft und Politik (SWP) e, a nome dell’ONU, assiste ai negoziati di Ginevra.
Quando gli Stati Uniti scatenano l’«interminabile guerra» nel «Medio Oriente Allargato», la CIA incoraggia la Germania riunificata a promuovere un «Dialogo con il mondo mussulmano». A questo fine, a Berlino, il ministero degli Esteri fa innanzitutto affidamento sul nuovo capo locale della Confraternita, Ibrahim el-Zayat, nonché su un esperto, Volker Perthes. Quest’ultimo diventerà il direttore del principale serbatoio di cervelli federale, la Fondazione per la Scienza e la Politica (SWP).
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Detlev Mehlis ha accusato, a nome dell’ONU, i presidenti libanese e siriano, Émile Lahoud e Bachar el-Assad, di essere i mandanti dell’assassinio di Rafic Hariri. La sua inchiesta si basava su false testimonianze che, quando sono state riconosciute tali, lo hanno costretto a dimettersi.
Nel 2005 la Germania partecipa all’assassinio di Rafic Hariri fornendo l’arma usata per ucciderlo (un esplosivo: non di tipo classico, contrariamente alla propaganda del «Tribunale» speciale) [4]. In seguito, la Germania fornisce anche il capo della Missione d’inchiesta dell’ONU, l’ex procuratore Detlev Mehlis [5], nonché il suo vice, l’ex commissario di polizia Gerhard Lehmann, implicato nello scandalo delle prigioni segrete della CIA.
Nel 2008, mentre la CIA prepara la «guerra civile» siriana, Volker Perthes è invitato dalla NATO alla riunione annuale del Gruppo di Bilderberg. Vi partecipa con un funzionario siriano della CIA, Bassma Kodmani. Insieme, spiegano ai partecipanti quali interessi abbia l’Occidente a rovesciare la Repubblica araba siriana e a issare al potere i Fratelli Mussulmani. Avendo mutuato il linguaggio doppio della Confraternita, Perthes firma nel 2011 un intervento d’opinione sul New York Times per irridere il presidente Assad, accusandolo di fantasticare su un «complotto» contro il suo Paese [6]. Nell’ottobre dello stesso anno, Perthes partecipa a una riunione del padronato turco organizzata dall’agenzia privata statunitense di informazioni Stratfor. Egli illustra ai partecipanti le risorse petrolifere e gassose che potranno rubare alla Siria [7].
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Clemens von Goetze (direttore del 3° dipartimento del ministero tedesco degli Esteri) e Anwar Mohammad Gargash (ministro degli Esteri degli Emirati) ad Abu Dhabi, durante la riunione del Gruppo di lavoro per il recupero dell’economia siriana.
Proseguendo nella propria missione, la Germania organizza ad Abu Dhabi, sotto la presidenza di un proprio diplomatico, Clemens von Goetze, una riunione degli Amici della Siria. Costui ripartisce tra i presenti le future concessioni di sfruttamento che saranno assegnate ai vincitori dopo che la NATO avrà rovesciato la Repubblica araba siriana [8].
A metà del 2012, Perthes è incaricato dal Dipartimento USA della Difesa di preparare «L’indomani», cioè il governo che sarà imposto alla Siria. Egli organizza riunioni al ministero degli Esteri, invitandovi 45 personalità siriane, tra cui la propria amica Bassna Kodmani e il Fratello Radwan Ziadeh, venuto apposta da Washington [9]. Logico che Perthes diventi uno dei consiglieri di Jeffrey Feltman all’ONU. A questo titolo partecipa a tutti i negoziati di Ginevra.
I propositi del ministero tedesco degli Esteri sono ripresi parola per parola dal Servizio europeo degli affari esteri, il SEAE, rappresentato da Federica Mogherini. Questo servizio, diretto da un alto funzionario francese, redige note confidenziali sulla Siria a beneficio dei capi di Stato e dei capi di governo dell’Unione.
Nel 2015 la cancelliera Angela Merkel e il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, diventato protettore mondiale dei Fratelli Mussulmani, organizzano il trasferimento di oltre un milione di persone verso la Germania [10], in armonia con le richieste della confindustria tedesca. Parecchi di questi migranti sono siriani di cui l’AKP [il partito di Erdoğan, ndt] si vuole liberare e di cui la Germania si preoccupa di evitare il ritorno al loro Paese.
Questa settimana la cancelliera Merkel sarà a Beirut e ad Amman per parlare della Siria.

28 giugno 2018

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La collocazione di Donald Trump di Thierry Meyssan

Eletto per attuare un mutamento paradigmatico, il presidente Trump continua a suscitare stupore in chi lo scambia per uno sventato. Eppure non sta facendo altro che realizzare le idee sviluppate in campagna elettorale, collocandosi all’interno d’una tradizione politica ben radicata nella storia statunitense, sia pur a lungo trascurata. Prendendo le distanze dalle distorsioni della comunicazione mediatica di Trump, Thierry Meyssan ne analizza l’operato mettendolo a confronto con quanto si è impegnato a fare.



Durante la campagna elettorale per le presidenziali in USA, abbiamo mostrato come la rivalità tra Hillary Clinton e Donald Trump non risiedesse tanto nella differenza di stile quanto nella diversa cultura [1]. L’outsider metteva in discussione il dominio dei puritani e reclamava il ritorno al compromesso originario del 1789 — quello del Bill of Rights — tra i rivoluzionari che si battevano contro re Giorgio e i grandi proprietari terrieri delle 13 colonie.
Non proprio così inesperto di politica, Trump già aveva palesato la propria opposizione al sistema il giorno stesso degli attentati dell’11 settembre [2] e, in seguito, nella polemica sul luogo di nascita del presidente Obama.
Analogamente, non abbiamo interpretato la ricchezza di Trump come un chiaro indizio del suo schieramento a servizio dei più ricchi, bensì come segno dell’intenzione di difendere il capitalismo produttivo contro il capitalismo speculativo.
Abbiamo rimarcato che, sul fronte esterno, i presidenti George W. Bush e Barack Obama hanno intrapreso le guerre di Afghanistan, Iraq, Libia e Siria mettendo in atto la strategia dell’ammiraglio Cebrowski: la distruzione delle strutture statali in tutti i Paesi del «Medio Oriente Allargato» [3]. Abbiamo altresì rilevato come questi stessi presidenti abbiano, sul piano interno, sospeso il Bill of Rights. La combinazione di queste due politiche ha portato allo svilimento e all’impoverimento del ceto medio [«petits blancs»].
Trump invece non si è mai stancato di denunciare l’Impero Americano e di annunciare il ritorno ai principi repubblicani, richiamandosi ad Andrew Jackson (1829-37) [4] e ricevendo l’investitura dagli ex collaboratori di Richard Nixon (1969-1974) [5].
La sintesi del suo pensiero in politica interna era lo slogan «Make America Great Again!» [Letteralmente: Facciamo l’America di nuovo grande! ndt]: smettiamo di inseguire la chimera imperiale e facciamo ritorno al «sogno americano» dell’arricchimento personale. E il compendio della sua concezione della politica estera era lo slogan «America First!», che noi abbiamo interpretato, non nel senso attribuitogli durante la seconda guerra mondiale, bensì nel senso originario. Dunque, non abbiamo visto in lui un neo-nazista, ma un politico che rifiuta di mettere il proprio Paese al servizio delle élite transnazionali.
Fatto ancora più sconcertante: ritenevamo impossibile che Trump potesse giungere a un accordo culturale con la minoranza messicana e abbiamo preconizzato che, alla fine, avrebbe favorito una separazione in via amichevole: l’indipendenza della California (CalExit) [6].
La nostra lettura degli obiettivi e del metodo Trump lasciava tuttavia aperta la questione della capacità di un presidente statunitense di modificare la strategia militare del Paese [7].
Scrivendo per due anni in contrasto con la totalità dei commentatori, siamo stati a torto etichettati partigiani di Trump. Il senso del nostro lavoro è stato travisato. Non siamo elettori statunitensi, quindi non sosteniamo alcun candidato alla Casa Bianca. Siamo analisti politici e ci sforziamo unicamente di comprendere i fatti e di anticiparne le conseguenze.
A che punto siamo oggi?
• Dobbiamo concentrarci sui fatti ed eliminare dal nostro modo di ragionare le distorsioni mediatiche della comunicazione del presidente Trump. • Dobbiamo distinguere ciò che è proprio di Trump da ciò che è la continuità con i suoi predecessori e da ciò che appartiene alle tendenze del momento.

Sul piano interno

A Charlottesville Trump ha sostenuto una manifestazione di suprematisti bianchi e il diritto, anche dopo il massacro di Parkland, di portare armi. Posizioni interpretate come un appoggio alle idee di estrema destra e alla violenza. Al contrario, si è trattato per Trump di promuovere i «Diritti dell’uomo» versione USA, quali sono enunciati nei due primi emendamenti del Bill of Rights.
Indubbiamente si può dire tutto il male possibile della definizione statunitense dei «Diritti dell’uomo» — e noi non cessiamo di criticarla nella tradizione di Thomas Paine [8] — ma si tratta di tutt’altra questione.
Per mancanza di mezzi, il completamento del Muro alla frontiera messicana, costruito dai predecessori di Trump, è lungi dall’essere terminato. È ancora troppo presto per trarne conclusioni. Lo scontro con quegli immigrati ispanici che si rifiutano di parlare inglese e di adeguarsi al compromesso del 1789 non è ancora avvenuto. Donald Trump si è per il momento limitato a sopprimere il servizio in spagnolo dei comunicati della Casa Bianca.
Sulla questione delle modificazioni del clima, Trump ha respinto l’Accordo di Parigi non per indifferenza all’ecologia, ma perché quest’accordo impone un regolamento finanziario che avvantaggia unicamente i responsabili delle Borse dei diritti di emissione del CO2 [9].
In materia economica Trump non è riuscito a imporre la propria rivoluzione: esentare le esportazioni e tassare le importazioni. Ha tuttavia ritirato gli Stati Uniti dai trattati di libero scambio non ancora ratificati, come l’Accordo di Partenariato Transpacifico. Poiché la Border Tax è stata respinta dal Congresso, Trump sta tentando di aggirare i parlamentari e istituire tasse proibitive sull’importazione di alcuni prodotti, provocando lo stupore degli alleati e la collera della Cina [10].
Anche il lancio del programma rooseveltiano di costruzione di infrastrutture langue: Trump ha reperito solo il 15% dei finanziamenti. E non ha ancora lanciato il programma per arruolare cervelli stranieri e rilanciare l’industria americana, benché l’abbia annunciato nella Strategia Nazionale per la Sicurezza [11].
In conclusione, il poco che Trump ha già portato a termine è stato sufficiente a rilanciare produzione e lavoro negli Stati Uniti.

Sul piano esterno

Per liquidare l’Impero americano, Trump aveva annunciato l’intenzione di cessare il sostegno agli jihadisti, di sciogliere la NATO, di abbandonare la strategia di Cebrowski e di rimpatriare le truppe di occupazione. È evidentemente molto più difficile riformare la prima amministrazione federale, cioè le forze armate, che cambiare per decreto le regole economiche e finanziarie.
Il presidente Trump ha prioritariamente piazzato a capo del dipartimento della Difesa e della CIA personaggi fidati, in modo da scongiurare tentativi di ribellione. Ha riformato il Consiglio Nazionale per la Sicurezza, riducendo il ruolo del Pentagono e della CIA [12]. Ha immediatamente messo fine alle “rivoluzioni colorate” e agli altri colpi di Stato che avevano contraddistinto le amministrazioni precedenti.
Trump ha poi convinto i Paesi arabi, tra i quali l’Arabia Saudita, a cessare il sostegno agli jihadisti [13]. Le conseguenze non hanno tardato a manifestarsi: la caduta di Daesh in Iraq e in Siria. Contemporaneamente, Trump ha rinviato lo scioglimento della NATO, accontentandosi di annettervi un compito anti-terrorismo [14]. Nel contempo, nello scenario della campagna britannica contro Mosca, l’Alleanza sviluppa alacremente il proprio dispositivo anti-Russia [15].
Trump ha conservato la NATO solo per controllare i vassalli degli Stati Uniti. Ha deliberatamente screditato il G7, costringendo gli smarriti alleati a prendere atto delle proprie responsabilità.
Per interrompere la strategia Cebrowski nel Medio Oriente Allargato, Trump sta preparando la riorganizzazione della zona, incentrandola sul ritiro americano dagli accordi con l’Iran (JCPoA e accordo bilaterale segreto) nonché sul suo piano per regolare la questione palestinese. Il progetto, che Francia e Regno Unito stanno tentando di sabotare, ha poche possibilità di riuscire a ristabilire la pace nella regione, tuttavia permetterà di paralizzare le iniziative del Pentagono, i cui ufficiali superiori si preparano peraltro a mettere in atto la strategia Cebrowski nel “bacino dei Caraibi”.
L’iniziativa di risoluzione del conflitto coreano, ultimo vestigio della Guerra Fredda, dovrebbe permettere a Trump di mettere in discussione la ragion d’essere della NATO. Gli alleati si sono impegnati in quest’organizzazione solo per prevenire in Europa una situazione analoga a quella della guerra di Corea.
Alla fine, le Forze armate USA non dovrebbero più essere utilizzate per schiacciare piccoli Paesi, bensì esclusivamente per isolare la Russia e per impedire alla Cina di sviluppare le “Vie della seta”.


27 giugno 2018

L’ITALIA SI RIBELLA: NON TOCCATE INTERNET! – Controrassegna Blu #19



Copyright: il Governo scende in campo. Avevamo ragione!

Dopo la denuncia di Byoblu giovedì scorso, a cui sono seguiti gli articoli di Marcello Foa domenica e di Paolo Becchi e Giuseppe Palma oggi, a prendere la parola contro la nuova direttiva del Copyright, che il Parlamento Europeo voterà il 4 di luglio, è stato finalmente anche il Governo. Quel Governo che aveva esordito parlando di Internet come diritto fondamentale e che dunque non poteva che appoggiare una battaglia fondamentale, come vi ho spiegato giovedì scorso. Ma sentiamo le parole di Luigi Di Maio, nel suo intervento di apertura per l’Internet Day, oggi alla Camera dei Deputati.
“Il pericolo arriva direttamente dall’Unione Europea, e si chiama Riforma del Copyright. Due articoli che potrebbero mettere il bavaglio alla Rete, così come noi oggi la conosciamo. In poche parole, quando noi condividiamo un articolo ed escono quelle tre o quattro righe al di sotto del link, ecco che quelle tre o quattro righe potrebbero essere tassate. Dicono pure che sia un modo per migliorare la qualità dell’informazione. Per me l’Europa dovrebbe puntare sulla cultura e sull’istruzione, per fare in modo che i suoi concittadini capiscano cos’è una fake news. Invece si preferisce inondare di nuove tasse perfino le tre righe che escono quando condividiamo un articolo o un’informazione in generale. Il secondo articolo è perfino più pericoloso del primo, perché impone alle società che danno accesso a grandi quantità di dati di adottare misure per controllare ex ante tutti i contenuti caricati dagli utenti. Praticamente, qulunque cosa venga caricata che abbia ancora una parvenza di ledere il diritto d’autore – e con questo mi riferisco a qualsiasi immagine per esempio – potrebbe essere bloccata da una piattaforma privata. Il potere di decidere cosa debba essere o meno pubblicato non può essere messo nelle loro mani. Cosa è giusto e cosa è sbagliato.. Cosa i cittadini debbano sapere e cosa non debbano sapere: se non è un bavaglio questo, ditemi cosa lo è. L’Unione Europea ha preparato un bavaglio per limitare la libertà di espressione dei cittadini. Questo per noi è inaccettabile e come Governo ci opporremo. Faremo tutto quello che è in nostro potere per contrastare la direttiva al Parlamento Europeo, con i nostri rappresentanti, e qualora dovesse passare così com’è dovremmo fare una seria riflessione a livello nazionale sulla possibilità o meno di recepire questa direttiva, perché Internet deve essere mantenuta libera e indipendente, al servizio dei cittadini, e nessuno può permettersi di fare azioni di censura preventiva, nemmeno se quel qualcuno si chiama Commissione Europea. Il Governo italiano non può accettare passivamente questo genere di atti europei. Non è bastato lo scandalo di Cambridge Analytica per far capire che il potere non deve essere accentrato nella mani di pochi, ma deve essere condiviso con i cittadini”.
Avete sentito, il Governo annuncia che se il 4 di luglio il Parlamento Europeo dovesse votare per questa direttiva liberticida, ebbene prenderà in considerazione l’idea di non recepirla. Recepire una direttiva europea è un atto dovuto per ogni Stato membro: significa darvi attuazione predisponendo le opportune leggi, dunque minacciare di non recepire una direttiva non può che aprire un ennesimo scontro, dopo quelli sull’immigrazione di questi giorni. Ma questo è un Governo che va giù a muso duro, in segno di forte discontinuità con quelli precedenti.
Tuttavia potrebbe non bastare. La direttiva è rivolta infatti alle piattaforme: sono loro che devono dotarsi di licenze e che devono porre in essere i filtri preventivi sui contenuti. Ebbene, quando la direttiva verrà votata, il 4 luglio, e verrà recepita da altri grandi Paesi dell’Unione Europea, questi colossi della rete modificheranno comunque il loro impianto per adeguarsi, ed è quindi plausibile ritenere che applicheranno queste nuove regole per tutti, trattandosi di servizi transnazionali, anche per i cittadini italiani.
E’ importante quindi partecipare alla raccolta firme, che al momento ha toccato le 18 mila sottoscrizioni, su Byoblu. Praticamente, stampate tutte in fila, l’equivalente di un palazzo una trentina di piani. Fatelo. Poi le manderemo a Bruxelles.
FIRMA ANCHE TU PER CHIEDERE AI PARLAMENTARI EUROPEI DI NON RATIFICARE LA DIRETTIVA SUL COPYRIGHT CHE DISTRUGGERÀ LA RETE: https://it.surveymonkey.com/r/SalvaInternet

Fonte: www.byoblu.com

Così l’Ue prepara il bavaglio al web: fine dei social

Axel VossVietato postare contenuti altrui, vietato far circolare link e idee. In altre parole: sarà svuotato e sterilizzato il web, stando ai "muggiti" che salgono dall'Unione Europea, cioè dalla roccaforte burocratica dove i governi – ridotti a passacarte delle grandi lobby – assistono con terrore all'insorgenza democratica che, in tutta Europa, i media mainstream chiamano "populismo". «Addio meme, addio upload libero di foto e filmini sul web», scrive Emanuele Bonini sulla "Stampa". «Il Parlamento Europeo è pronto alla stretta su Internet in nome dei diritti d'autore». La commissione giuridica, infatti, ha appena approvato le proposte di modifica della legislazione comunitaria sui copyright, «dando il proprio benestare a norme che aprono la strada a possibili future tasse per la pubblicazione di link di articoli di giornale e a filtri che blocchino, sulle grandi piattaforme, contenuti audio-visivi in tutto o in parte protetti da diritti». Sarebbe, tecnicamente, la fine del web come lo consciamo oggi, fondato sulla circolazione illimitata di notizie, analisi e idee. La questione è controversa, scrive la "Stampa": per il legislatore europeo c'è «l'esigenza di tutelare i diritti intellettuali», mentre per l'internauta «una mossa di questo tipo rappresenta un restringimento delle maglie della rete». Un vero e proprio bavaglio.
Le nuove norme, di fatto, «impongono a tutti di pagare per ogni contenuto protetto», aggiunge Bonini. «Con la riscrittura delle regole così come proposta – spiega – tutti i grandi operatori dovranno sviluppare un sistema per controllare cosa si intende caricare». Attenzione dunque a YouTube, Instagram, eBay, Facebook. «Un video con immagini o brani tutelati da licenze non potrà essere condiviso, così come una foto, anche quella da usare eventualmente per i meme». Non ci saranno grandi alternative, avverte la "Stampa": o si impedirà la pubblicazione del contenuto, o si dovrà far pagare per consultarlo. E non è tutto: sempre in nome della tutela dei diritti intellettuali e del loro rispetto, «ci saranno limitazioni alle notizie e agli articoli che gli aggregatori di notizie possono mostrare». La Commissione Europea chiedeva una "link tax", cioè una vera e propria tassa sui collegamenti ipertestuali, in base al principio per cui "chi clicca, paga", se vuole tenersi informato. L'esecutivo comunitario «prevedeva nello specifico che chiunque usi "snippet" di contenuti giornalistici on-line debba prima ottenere una licenza dall'editore, diritto valido per vent'anni a partire dalla pubblicazione».
La commissione giuridica del Parlamento Europeo ha trovato una sorta di compromesso, secondo Bonini, nella limitazione degli elementi di un articolo che gli aggregatori possono mostrare e condividere senza far scattare il pagamento automatico del copyright. Cioè: se un indirizzo web incorpora un estratto breve (o solo il titolo di un articolo), non scatta la tassa. Secondo il tedesco Axel Voss, esponente del partito della Merkel, si tratta di innovazioni doverose. «Creatori e editori di notizie devono adattarsi al nuovo mondo di Internet come funziona oggi», dice Voss, relatore del provvedimento in commissione giuridica. L'europarlamentare ricorda che artisti ed editori di notizie, «specialmente quelli più piccoli», non vengono pagati «a causa delle pratiche di potenti piattaforme di condivisione dei contenuti online e aggregatori di notizie». Un modo di fare «sbagliato, che intendiamo correggere», dice, perché il principio di un'equa retribuzione il lavoro svolto «dovrebbe applicarsi a tutti, ovunque, sia nel mondo fisico che on-line». Agendo sul copyright, Strasburgo sostiene di proporre un equilibrio tra le esigenze dei proprietari dei diritti d'autore e quelle dei consumatori: se da una parte si introducono limiti all'uso di prodotti sotto licenza, dall'altra si abbassa da 20 a 5 anni il periodo di protezione sulla Rete. Se la riforma passa, addio web: il successo della Rete si basa infatti sulla circolazione, libera e istantanea, di contenuti gratuti.

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La persecuzione di Julian Assange deve finire. O finirà in tragedia


Il governo australiano e il primo ministro Malcolm Turnbull hanno una storica opportunità per decidere quale sarà.
Possono rimanere in silenzio, ma con loro la storia sarà implacabile. Oppure possono agire nell’interesse della giustizia e dell’umanità e portare a casa questo straordinario cittadino australiano.
Assange non chiede un trattamento di favore. Il governo ha chiari obblighi diplomatici e morali di proteggere i cittadini australiani all’estero da gravi ingiustizie: nel caso di Julian, da un pacchiano errore giudiziario e dall’estremo pericolo che lo attende dovesse uscire dall’ambasciata ecuadoriana di Londra senza protezione.
Sappiamo dal caso di Chelsea Manning cosa può aspettarsi se un mandato di estradizione degli Stati Uniti avesse successo – uno speciale relatore delle Nazioni Unite lo ha detto, la tortura.
Conosco bene Julian Assange; lo considero un caro amico, una persona di straordinaria forza d’animo e coraggio. Ho visto rovesciarsi su di lui uno tsunami di menzogne e fango, senza fine, con vendetta, perfidia; e so il perché.
Nel 2008, un piano per distruggere sia WikiLeaks che Assange fu messo a punto in un documento segreto datato 8 marzo 2008. Ne era fautore un ramo del cyber contro-spionaggio del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti. Vi si descriveva nei dettagli quanto fosse importante distruggere il “sentimento di fiducia” che è il “centro di gravità” di WikiLeaks.
Ciò si sarebbe ottenuto, era scritto, con minacce di “denunce [e] procedimenti penali” e con un assalto implacabile al loro buon nome. Lo scopo era di mettere a tacere e criminalizzare WikiLeaks e il suo direttore responsabile ed editore. Era come se pianificassero una guerra contro un singolo essere umano e contro il principio stesso della libertà di parola.
La loro arma principale sarebbe stata la macchina del fango. Le loro truppe d’assalto sarebbero state arruolate tra i media – quelli che dovrebbero dirci la verità su come realmente stanno le cose.
La cosa ironica è che nessuno disse a questi giornalisti cosa fare. Io li chiamo giornalisti di Vichy – come quel governo di Vichy che servì e permise l’occupazione tedesca della Francia in tempo di guerra.
Lo scorso ottobre, la giornalista australiana della Broadcasting Corporation, Sarah Ferguson, ha intervistato Hillary Clinton, che definì “l’icona della sua generazione”.
Questa era la stessa Clinton che minacciò di “annientare totalmente” l’Iran e che, come segretario di Stato USA nel 2011, fu uno degli istigatori dell’invasione e della distruzione dello stato moderno della Libia, con la perdita di 40.000 vite. Come l’invasione dell’Iraq, anche questa era basata su menzogne.
Quando il presidente libico fu assassinato pubblicamente e in modo raccapricciante con un coltello [inserito nell’ano, n.d.t.], la Clinton fu filmata mentre esultava con gridolii da stadio. Grazie soprattutto a lei, la Libia divenne terreno fertile per l’ISIS e altri jihadisti. E grazie in gran parte a lei, decine di migliaia di profughi hanno dovuto fuggire attraverso il Mediterraneo e molti sono annegati.
Le e-mail trapelate e pubblicate da WikiLeaks rivelarono che la fondazione di Hillary Clinton – che condivide con suo marito – ricevette milioni di dollari dall’Arabia Saudita e dal Qatar, i principali sostenitori dell’ISIS e del terrorismo in tutto il Medio Oriente.
Come Segretario di Stato, la Clinton ha approvato la più grande vendita di armi in assoluto – per un valore di 80 miliardi di dollari – all’Arabia Saudita, uno dei principali benefattori della sua fondazione. Oggi l’Arabia Saudita utilizza queste armi per annientare persone affamate e oppresse in un attacco genocida contro lo Yemen.
Sarah Ferguson, una giornalista molto ben pagata, non ha fatto parola di questo con Hillary Clinton seduta davanti a lei.
Invece, esortò la Clinton a descrivere il “danno” che Julian Assange ha fatto “a lei personalmente”. In risposta, Clinton diffamò Assange, un cittadino australiano, che descrisse come “evidente strumento dell’intelligence russa” e “un opportunista nichilista che fa gli interessi di un dittatore”. Non presentò alcuna prova – né alcuna le fu richiesta – a sostegno delle sue gravi accuse.
Ad Assange non è mai stato dato diritto di risposta a questa sconvolgente intervista, che l’emittente statale australiana, finanziata con fondi pubblici, aveva il dovere di dargli.
Anzi, come se ciò non bastasse, la produttrice esecutiva di Ferguson, Sally Neighbour, commentò l’intervista con un tweet velenoso: “Assange è la puttana di Putin. Lo sappiamo tutti!”
Ci sono molti altri esempi di giornalismo alla Vichy. Il Guardian, che un tempo aveva la reputazione di essere un grande giornale liberale, ha condotto una vendetta personale contro Julian Assange. Come un’amante respinta, il Guardian ha puntato i suoi attacchi personali, meschini, disumani e feroci contro un uomo il cui lavoro ha pubblicato e di cui ha beneficiato.
L’ex direttore del Guardian, Alan Rusbridger, definì le rivelazioni di WikiLeaks, pubblicate dal suo giornale nel 2010, “uno dei più grandi scoop giornalistici degli ultimi 30 anni”. Piovvero premi ed elogi come se Julian Assange non esistesse.
Le rivelazioni di WikiLeaks divennero parte del piano di marketing del Guardian per aumentare il prezzo di copertina del giornale. Fecero soldi, spesso un sacco di soldi, mentre WikiLeaks e Assange lottavano per sopravvivere.
Senza dare un centesimo a Wikileaks, un libro promosso dal Guardian ha portato a un redditizio contratto cinematografico con Hollywood. Gli autori del libro, Luke Harding e David Leigh, hanno arbitrariamente descritto Assange come “persona insensibile e disturbata”.
Rivelarono pure la password segreta che Julian aveva confidenzialmente dato al Guardian e che doveva proteggere un file digitale contenente i cablogrammi dell’ambasciata americana.
Con Assange intrappolato nell’ambasciata ecuadorena, Harding, che si era arricchito alle spalle sia di Julian Assange che di Edward Snowden, fuori tra i poliziotti, gongolava sul suo blog che “sarà Scotland Yard a ridere per ultima”.
La domanda è perché. Julian Assange non ha commesso alcun crimine. Non è mai stato accusato di un crimine. L’episodio svedese è stato fasullo e farsesco e lui è stato scagionato.
Katrin Axelsson e Lisa Longstaff di Donne Contro gli Stupri lo hanno riassunto quando scrissero: “Le accuse contro Assange sono una cortina di fumo dietro la quale diversi governi stanno cercando di reprimere WikiLeaks per aver avuto l’audacia di rivelare al pubblico la loro pianificazione segreta di guerre e occupazioni con i loro conseguenti stupri, omicidi e distruzione … Le autorità si preoccupano così poco della violenza contro le donne che manipolano le accuse di stupro a loro piacimento”.
Questa verità è andata persa o sepolta in una caccia alle streghe dei media che ha vergognosamente associato Assange allo stupro e alla misoginia. La caccia alle streghe includeva voci che si dichiaravano di sinistra e femministe. Hanno deliberatamente ignorato le prove di un estremo pericolo per Assange se fosse stato estradato negli Stati Uniti.
Secondo alcuni documenti svelati da Edward Snowden, Assange sarebbe su di un “elenco da caccia all’uomo”. Una nota ufficiale trapelata dice: “Assange sarà una bella sposa in prigione. Fotti il terrorista. Mangerà cibo per gatti per sempre.”
Ad Alexandra, in Virginia – la periferia dell’élite guerrafondaia americana – un gran giurì segreto, da medioevo – ha cercato per circa sette anni di escogitare un crimine per il quale Assange possa essere perseguito, ma non è facile perché la Costituzione degli Stati Uniti protegge editori, giornalisti e informatori. Il crimine di Assange è di aver rotto un silenzio.
In vita mia, nessun giornalismo investigativo può eguagliare l’importanza di ciò che WikiLeaks ha fatto nel chiamare alla resa dei conti il potere rapace. È come se uno schermo morale a senso unico fosse stato aperto per denunciare l’imperialismo delle democrazie liberali: il loro impegno per la guerra infinita e la divisione e il degrado di vite “indegne”: dalla Torre di Grenfell a Gaza.
Nel 2005, quando Harold Pinter accettò il premio Nobel per la letteratura, fece riferimento a “un vasto arazzo di menzogne su cui ci nutriamo”. Ha chiesto perché “la brutalità sistematica, le atrocità diffuse, la spietata repressione del pensiero indipendente” dell’Unione Sovietica erano ben noti in Occidente mentre i crimini imperiali americani “non sono mai accaduti… anche mentre stavano accadendo, non sono mai accaduti”.
Nelle sue rivelazioni di guerre fraudolente (Afghanistan, Iraq) e le menzogne delle facce di bronzo dei governi (le isole Chagos), WikiLeaks ci ha permesso di intravedere come si gioca il gioco imperiale nel XXI secolo. Ecco perché Assange è in pericolo mortale.
Sette anni fa, a Sydney, ho incontrato un eminente membro liberale del Parlamento federale, Malcolm Turnbull.
Volevo chiedergli di consegnare al governo una lettera di Gareth Peirce, l’avvocato di Assange. Abbiamo parlato della sua famosa vittoria – negli anni ’80 quando, da giovane avvocato, aveva combattuto i tentativi del governo britannico di sopprimere la libertà di parola e impedire la pubblicazione del libro Spycatcher – a modo suo, un WikiLeaks di allora, perché rivelava i crimini del potere statale.
Allora il primo ministro australiano era Julia Gillard, un politico del Partito Laburista che aveva dichiarato WikiLeaks “illegale” e voleva annullare il passaporto di Assange – finché non le fu detto che non poteva farlo: che Assange non aveva commesso alcun crimine: che WikiLeaks era un editore il cui lavoro era protetto dall’articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, di cui l’Australia era uno dei primi firmatari.
Abbandonando Assange, cittadino australiano, e colludendo nella sua persecuzione, il comportamento oltraggioso del primo ministro Gillard costrinse la questione del suo riconoscimento, ai sensi del diritto internazionale, come rifugiato politico la cui vita era a rischio. L’Ecuador invocò la Convenzione del 1951 e concesse il rifugio ad Assange nella sua ambasciata a Londra.
Recentemente Gillard è apparsa in una serata con Hillary Clinton; le due sono osannate come femministe pioniere.
Se c’è una cosa per cui ricordare Gillard, è un discorso guerrafondaio, servile, imbarazzante che ha fatto al Congresso degli Stati Uniti subito dopo aver chiesto l’annullamento illegale del passaporto di Julian.
Malcolm Turnbull è ora il primo ministro dell’Australia. Il padre di Julian Assange ha scritto a Turnbull. È una lettera commovente, in cui chiede al primo ministro di riportare a casa il figlio perché pensa che ci sia la reale possibilità di una tragedia.
Ho visto la salute di Assange deteriorarsi nei suoi anni di reclusione senza luce solare. Ha avuto una tosse implacabile, ma non gli è neanche permesso il passaggio sicuro da e per un ospedale per una radiografia.
Malcolm Turnbull può rimanere in silenzio. Oppure può cogliere questa opportunità e usare l’influenza diplomatica del suo governo per difendere la vita di un cittadino australiano, il cui coraggioso servizio pubblico è riconosciuto da innumerevoli persone in tutto il mondo. Lui può portare a casa Julian Assange. 
John PIlger
18.06.2018
Traduzione di Gianni Ellena per www.comedonchisciotte.org
Questo è il riassunto di un discorso di John Pilger ad una manifestazione a Sydney, in Australia, per evidenziare il confinamento di sei anni di Julian Assange nell’ambasciata ecuadoriana a Londra.

26 giugno 2018

Golpe europeo contro la libertà del web, l’Italia si opponga

Günther Oettinger Il diavolo non è poi brutto come lo si dipinge? In compenso, l'Unione Europea è peggio: come un monarca dispotico, ordina che sia imbavagliato il bambino che si è permesso di gridare che "il re è nudo". Così, esercitando un arbitrio che ha la forza grottesca di un sopruso arcaico, Bruxelles prova a spegnere le antenne del popolo, quelle che i cittadini-elettori hanno ascoltato per poi decidere da chi farsi governare. E' pensabile, una Brexit senza il web? E' immaginabile una vittoria di Trump senza i social media? E una sconfitta di Renzi senza Facebook? Un governo "gialloverde" senza la Rete? No, appunto. Ed è per questo che il potere centrale del nuovo Sacro Romano Impero – con i suoi complici principali, i grandi media – sta preparando la spallata finale alla libertà di Internet: il divieto di far circolare idee, parole e immagini – tramite link, come finora si è fatto – sotto minaccia di violazione del copyright. Un bavaglio medievale, universale, bloccando alla fonte ogni notizia tramite filtri sulle piattaforme di distribuzione, cominciando da Google e Facebook. In pratica: la fine del web come l'abbiamo conosciuto, fondato sulla libera circolazione (immediata) di segnalazioni, opinioni, fatti e analisi, contenuti normalmente oscurati da giornali e televisioni.

Un gesto orwelliano, da tirannide asiatica d'altri tempi: è il 2018, eppure l'Unione Europea è questa. Non riconosce cittadini, vuole soltanto sudditi. E ha una paura maledetta che i sudditi si ribellino, ridiventando cittadini. Il killer prescelto per l'operazione è ovviamente tedesco e risponde al nome di Günther Oettinger, il simpaticone che – all'indomani del voto italiano del 4 marzo – spiegò che sarebbero stati "i mercati", o meglio i signori occulti dello spread, a insegnare agli italiani come votare nel modo giusto, evitando cioè di rinnovare la loro fiducia a gentaglia come Salvini e Di Maio. Come sempre, Bruxelles cerca di ammantarsi di una parvenza di legalità: la Commissione Europea, organismo non-eletto e forte di poteri paragonabili a quelli delle "giunte militari" di sudamericana memoria, stavolta utilizza la foglia di fico del Parlamento Europeo (eletto, ma senza potere) per ricevere l'ipotetica legittimità politica dell'abuso, che verrebbe incoraggiato con il voto di Strasburgo il 4 luglio. Da qui il conto alla rovescia della petizione lanciata da Claudio Messora su "ByoBlu" e ripresa da "Change.org", che in pochi giorni ha raccolto quasi mezzo milione di firme, in Italia, per tentare di convincere gli europarlamentari a non votare il piano Oettinger, in base al quale non sarebbe più possibile far circolare, su blog e social, i testi, le idee e le immagini che in questi anni hanno fatto informazione.

L'intento è evidente: "spegnere" le fonti che hanno sopperito al colpevole silenzio dei grandi media, sostituendo in modo prezioso la non-informazione di giornali e televisioni, canali mainstream reticenti e omertosi, largamente difettosi quando non direttamente mafiosi, docili strumenti nelle mani di editori collusi con il potere centrale che trama contro le democrazie per svuotarle e depredarle. Senza informazione non c'è democrazia, ed è normale quindi che l'oligarchia si premuri innanzitutto di imbavagliare la libertà di espressione. Prima hanno ridotto i giornali a carta straccia, e le televisioni a salotti tragicomicamente impermeabili a qualsiasi verità. E ora, dato che il pubblico ha aggirato i grandi media rivolgendosi al web – in Italia il 50% dei cittadini dichiara di informarsi ormai solo sulla Rete – ecco il supremo bavaglio a Internet, con l'espediente della tutela del copyright. Con l'alibi della (giusta) sanzione contro gli abusi, si mette il bavaglio alla prima fonte di notizie per 30 milioni di Claudio Messorapersone, nel nostro paese. Difficile credere che un simile attentato alla libertà possa essere accettato come costituzionale, in Italia.

Beninteso: è più che legittima la tutela del copyright, ove si impedisca di eseguire dei pedestri copia-e-incolla non autorizzati. Ma il legislatore Ue va ben oltre: impedirà addirittura che, su blog e social, vengano caricate segnalazioni ipertestuali: in pratica, sarebbe la fine dei link, cioè dell'anima stessa di Internet. Vietato riportare frasi, estratti, dichiarazioni. Vietato certificare le fonti di provenienza. Vietato veicolare – mediante collegamento diretto – i contenuti più interessanti. In altre parole: la fine del web, la morte della libertà d'opinione. Il sovrano europeo pensa di fermare, letteralmente, l'orologio della storia: vuol far diventare lento e disfunzionale ciò che oggi è veloce, immediato. Una pazzia anacronistica, come quella di chi schierasse i carri armati nelle strade. L'essenza stessa del web è la rapidità, la circolazione di notizie in tempo reale. E il web è diventato anche il più potente vettore economico del nostro tempo: ostacolarlo No al bavagliosignifica arrecare un danno di portata incalcolabile alla dinamica economica del terzo millennio, riportando l'Europa al medioevo anche sul piano civile, oltre che politico.

Non è strano che a organizzare il golpe sia l'Unione Europea, che i suoi carri armati (finanziari) li ha già spediti ovunque, a fare strage di democrazia. Resta da vedere come reagiranno le anime morte del Parlamento Europeo il 4 luglio, sotto la pressione dell'opinione pubblica. E soprattutto: c'è da capire come risponderà, al golpe, il governo italiano. Salvini "esiste" soprattutto su Twitter, i 5 Stelle sono nati dalla Rete. Il cielo stellato è stato inquadrato dal cannocchiale di Galileo, che adesso l'ultima reincarnazione del cardinale Bellarmino – il fantoccio Oettinger e i suoi mandanti – sta per fare a pezzi. Questa Ue si comporta come una dittatura di colonnelli: nasce morta e condannata dalla storia. E' destinata alla sconfitta, ma a che prezzo? Quanto durerebbe, il blackout, prima del ripristrino della democrazia? Quanti altri danni produrrebbero, nel frattempo, i golpisti del web? Nessun aiuto, intanto, da giornali e televisioni: gli operatori ufficiali dell'informazione, ancora una volta, tacciono. Non una parola, da loro, sulla più importante notizia – la peggiore – che abbia investito il pubblico italiano. Tacciono, giornali e televisioni, sul golpe in atto. Sperano, probabilmente, che il colpo di Stato riesca. Si comportano come fossero complici dei golpisti. Se c'è un'occasione per dimostrare che il "governo del cambiamento" non è solo un modo di dire, è questa: se c'è un "no" che l'Italia deve pronunciare, forte e chiaro, è proprio questo, contro il golpe che vorrebbe spegnere il web.

(Su Change.org la petizione contro il bavaglio al web che l'Ue vorrebbe imporre).

Fonte: www.libreidee.org