11 settembre, nuove rivelazioni: l’America mentì su tutto
«Sono trascorsi 8 anni da quel tragico 2001 e ancora non conosciamo la verità su quello che accadde l’11 settembre». Lo afferma Giulietto Chiesa, autore del bestseller “La guerra infinita” (Feltrinelli) e del documentario “Zero”, accolto con interesse in tutta Europa. «Chi come noi dubitò fin dall’inizio delle versioni ufficiali – scrive, in un lungo reportage per “Megachip” – fu bollato come antiamericano e complottista: cioè furono definiti complottisti quelli che cercavano di smascherare il complotto, non quelli che lo costruirono. Malgrado tutto, comunque, la verità avanza». Clamorose rivelazioni, confessioni, libri: si disegna lentamente il più colossale depistaggio della storia.
«I nostri dubbi, miei e del 53% degli americani, stando ai sondaggi – scrive Chiesa - non solo non sono stati dissipati, ma sono col tempo diventati una serie di certezze, mentre altri dubbi e interrogativi sono emersi in gran numero su cose che prima non sapevamo, non avevamo visto, non sospettavamo neppure». Tutto questo, grazie a «punti di rilevazione, di analisi e raccolta dati», che «continuano incessantemente a funzionare e a comunicare ciò che scoprono».
Giulietto Chiesa si riferisce in particolare ai nuovi dati emersi dopo il lavoro della commissione istituita con legge speciale nel 2002 (vincendo l’aspra resistenza di Bush, Cheney, Rumsfeld e Rice) e che emise «il suo ridicolo e al tempo stesso gravissimo verdetto – adesso lo sappiamo con assoluta certezza – alla fine dell’estate del 2004». “The commission”, il libro del reporter investigativo Philip Shenon (del New York Times) ora tradotto in Italia da Piemme, col titolo “Omissis. Tutto quello che non hanno voluto farci sapere sull’11 settembre”, per Chiesa è un «tardivo riconoscimento» delle tesi formulate dai “complottisti” all’indomani della strage.
Altri due libri in cima alle classifiche, non ancora usciti in edizione italiana, sono “Against all Enemies” di Richard Clarke, che guidò la caccia a Bin Laden dai tempi di Clinton e fu poi liquidato da Condoleezza Rice, e “Without Precedent”, di Lee Hamilton, ossia uno dei due presidenti dell’organismo d’inchiesta che produsse il definitivo «e sbalorditivo» rapporto finale della commissione. Afferma Giulietto Chiesa: «Proprio Hamilton, democratico, denuncia ora, a misfatto compiuto, come la commissione sia stata fuorviata da “informazioni non attendibili”, e sia stata impedita nell’accesso a documenti essenziali all’indagine», come i verbali degli interrogatori di Khaled Sheikh Mohammed.
Come potevamo essere certi, scrive Hamilton, che Mohammed stesse dicendo la verità? «Adesso, nel 2009, sappiamo che quella confessione fu estorta con la tortura e dunque che essa non ha alcuna validità, di fronte a nessun tribunale, nemmeno di fronte a un tribunale militare americano». Ma anche nella sua palese invalidità di principio, aggiunge Chiesa, quella confessione contiene una presunta “verità” alla quale gli inquirenti della Cia hanno detto di credere, probabilmente dopo averla inventata.
«Questa “verità” contraddice platealmente l’attribuzione della paternità degli attentati dell’11 settembre a Osama Bin Laden», visto che Mohammed confessa la paternità di questa e di una trentina di altre operazioni terroristiche in ogni parte del mondo. «Nello stesso tempo – continua Giulietto Chiesa – Osama, il “most wanted terrorist”, non è accusato dall’Fbi per gli attentati dell’11 settembre, ma solo di quelli delle due ambasciate americane in Africa, del 1998. E, in ogni caso, nessun procedimento penale è mai stato aperto nei suoi confronti. E sono passati undici anni!».
Eppure, nonostante questa massa di incongruenze, il rapporto della commissione lo indica come il responsabile dell’11 settembre. «Hamilton, nel suo libro, tace completamente sull’intera questione». Sulla quale, racconta Chiesa, il deputato democratico giapponese Yukihisa Fujita gli ha inviato una lettera con esplicite domande, su questa e altre faccende concernenti incongruenze e omissioni, senza però ottenere alcuna risposta.
Tra i quesiti di Fujita, il ruolo giocato dal direttore esecutivo della commissione, Philip Zelikow. Shenon, l’autore di “The commission”, ha intervistato quasi due terzi degli 80 commissari, ma imbattendosi sempre in fonti anonime, coperte: funzionari della Cia e del Pentagono che avrebbero rischiato il posto, se si fosse scoperto che avevano parlato con il giornalista. Domanda ricorrente: come mai nessuno ha “parlato”? «Poiché l’operazione di insabbiamento e falsificazione è sempre parte integrante dell’insieme , come in tutte le operazioni di terrorismo di Stato – risponde Chiesa – possiamo affermare che la risposta corretta nega la domanda. Infatti c’è un sacco di gente che “ha parlato”, eccome ha parlato!».
«Decine di testimoni hanno parlato, ma sono stati cancellati», continua Chiesa. «E altre decine di testimoni a conoscenza dei fatti non hanno potuto parlare perché qualcuno ha deciso di non ascoltarli. Così il grande pubblico non ha saputo nulla: perché molto è stato eliminato dal pubblico discorso prima ancora di venire pronunciato, ma anche perché attorno alle dichiarazioni di coloro che, accidentalmente, hanno potuto parlare, è stato innalzato un muro di silenzio, che il “mainstream” informativo ha rispettato scrupolosamente».
Nella clamorosa ricostruzione di Shanon, l’ingegnere esecutivo delle manovre di depistaggio è Philip Zelikow, nominato alla guida della commissione violando la legge che la istituiva, la quale escludeva categoricamente tutti coloro che avessero avuto conflitti d’interesse, cioè che potessero essere collegati con la Casa Bianca. «La commissione avrebbe dovuto indagare in quella direzione, ma non indagò». Al contrario, protesse «coloro che avrebbero dovuto essere obbligati a dare le informazioni essenziali e non le diedero».
Zelikow aveva «un mare di conflitti d’interesse». Da Shenon, veniamo a sapere che non rivelò, o nascose, i suoi stretti rapporti con Condoleezza Rice: scrisse un libro insieme a lei, fu suo consigliere nella transizione al nuovo Consiglio per la Sicurezza Nazionale, e per lei scrisse nel 2002 il documento che tracciò le linee della nuova strategia della sicurezza nazionale Usa, includendovi l’idea dell’attacco preventivo usato da Bush per giustificare la guerra contro l’Iraq.
Malgrado le promesse, Zelikow non interruppe mai i rapporti con la Rice, Karl Rove e Dick Cheney. Prima ancora che la commissione sull’11 settembre cominciasse i lavori, Zelikow aveva già scritto un proprio schema per il rapporto finale, anticipando le conclusioni dell’inchiesta e tenendo i commissari all’oscuro di tutto. Secondo il libro di Hamilton, «era Zelikow a decidere su cosa si doveva e su cosa non si doveva investigare», mentre da Shenon sappiamo che lo stesso Zelikow riscrisse personalmente tutti i capitoli del documento, «dall’inizio alla fine».
Sulla base di tutto questo, Shenon esprime un giudizio personale: Zelikow «era una talpa della Casa Bianca, che passava informazioni all’Amministrazione sulle scoperte della commissione», di cui si servì «per promuovere la guerra contro l’Iraq». Sempre da Shenon, continua Giulietto Chiesa, veniamo a sapere che «lo staff della commissione sapeva che la Rice aveva mentito, per quasi un anno», sul contenuto del briefing presidenziale del 6 agosto 2001 nel quale la Cia – un mese prima dell’11 settembre – annunciava «a breve» un devastante attacco terroristico.
Resta il mistero di come sia possibile che qualcuno, ancora, creda alla sincerità del rapporto emesso dalla commissione. «Basti pensare – annota Chiesa – che nessun mandato formale di comparizione fu spiccato fino al 14 ottobre 2003», e che «nessuno dei più alti responsabili dell’Amministrazione fu sentito sotto giuramento». Tutti accettarono i limiti imposti da Bush e Cheney, tramite Zelikow, sul rilascio dei documenti essenziali. «Nessuno stupore», dunque, se il Comitato dei familiari delle vittime conclude che «la commissione ha seriamente compromesso la possibilità di condurre un’indagine indipendente, completa e libera».
Ma ancora non è tutto. Hamilton scrive che ufficiali del Norad (sicurezza militare) in pubbliche udienze della commissione «diedero una descrizione falsa dell’11 settembre», che «confinava con l’intenzione di voler ingannare». Si noti la delicatezza di quel “confinava”. «In realtà risulta che il Norad mentì platealmente alla commissione dopo averle nascosto, per mesi, le registrazioni di cui disponeva e che erano assolutamente essenziali per capire la dinamica degli avvenimenti». Oltre alle evidenti operazioni di depistaggio, Zelikow era inoltre amico di Steven Cambone, a sua volta «l’aiutante più vicino a Donald Rumsfeld». Malgrado ciò, la commissione prese per buoni – senza sospettare che fossero stati falsificati – i nastri forniti del Norad per scagionare il Pentagono, dai quali si evinceva che la Difesa non sarebbe stata informata per tempo dalla Federal Aviation Administration.
«La lista delle menzogne dimostrate dai documenti ma accettate come fatti dalla commissione e finite direttamente nel rapporto scritto da Zelikow e firmato dai presidenti Kean e Hamilton è lunga e dettagliata», continua Chiesa. «Una di queste riguarda i movimenti di Donald Rumsfeld quella mattina». Secondo Richard Clarke, il ministro della difesa stava partecipando ad una video-conferenza alla Casa Bianca, cominciata alle 9.15. Il rapporto sostiene invece che, in quei minuti, Rumsfeld era nel suo ufficio e andò alla Casa Bianca solo dopo le 10. Il rapporto ignora la versione di Clarke, ovvero: Zelikow non crede a Richard Clarke, ma rifiuta di esaminare le registrazioni di quella video-conferenza, che avrebbero dimostrato qual era la verità. Tutto inspiegabile, se non con la volontà di coprire Rumsfeld.
Stessa manovra per i movimenti del generale Richard Myers, a capo della difesa aerea. Clarke racconta che Myers partecipò alla video-conferenza e cita addirittura le sue parole: «Otis ha lanciato due uccelli verso New York. Langley sta cercando ora di mandarne in volo altri due». Di tutto questo non c’è traccia nel rapporto, che afferma invece che Myers era in quel momento in Campidoglio, a colloquio con uno dei futuri membri della commissione, il democratico Max Cleland. «Il mondo di Washington è piccolo. Sarebbe bastato chiedere conferma al commissario Cleland per sbugiardare Richard Clarke. Ma Zelikow non ha perso tempo. Clarke è stato cancellato senza fare alcuna verifica: né interrogando Cleland, né esaminando la registrazione della video-conferenza».
Identica operazione per quanto concerne i movimenti del vice presidente Dick Cheney. «Il Rapporto contraddice qui non solo Clarke ma anche il segretario ai Trasporti Norman Mineta, e perfino quanto Cheney in persona raccontò a “Meet the Press” cinque giorni dopo l’11 settembre». Yukihisa Fujita, nella citata lettera a Hamilton, espone con precisione tutte le incongruenze temporali contenute nel rapporto. E domanda: come mai Hamilton e Kean, data la comprovata disonestà di Zelikow (che essi, come emerge dal libro di Shenon, già perfettamente conoscevano), non solo non hanno rivisto il rapporto ma, dopo la sua pubblicazione, non hanno reso pubblico il loro eventuale dissenso?
«A queste domande non è venuta, per ora, alcuna risposta», conclude Giulietto Chiesa, riassumendo tuttavia ciò che emerge dalle rivelazioni. «Zelikow ha intenzionalmente oscurato le posizioni e i movimenti delle tre figure chiave dell’Amministrazione e della Difesa degli Stati Uniti in quel momento a Washington: Cheney, Rumsfeld e Myers».
Infine, resta il giallo delle telefonate via cellulari partite dagli aerei dirottati: due chiamate in tutto o molte di più? Il rapporto della commissione sull’11 settembre crede alla seconda versione (molte telefonate), ignorando «un documento dell’Fbi che afferma che furono “soltanto due” le telefonate da cellulari dai quattro aerei dirottati». Entrambe dal volo UA-93, quello che “cadde in Pennsylvania”: una effettuata da una hostess e l’altra da un passeggero che chiamò il numero 911.
Il rapporto dell’Fbi, reso pubblico nel 2006, è ora su Internet. Nel 2004 la commissione ne era al corrente? Secondo il giapponese Fuijta, la commissione aveva ricevuto quel documento già nel 2004, come si evince da un report dello staff, datato 26 agosto. Se il report è arrivato all’indomani della chiusura della commissione, scrive Fuijta ai presidenti Kean e Hamilton, «perché non rendeste nota una vostra pubblica dichiarazione in merito a questa rilevante nuova circostanza?». L’ennesimo episodio di autocensura, «o si tratta di un altro pezzo di informazione che vi fu sottratto da Philip Zelikow?».
«La faccenda delle telefonate – osserva Chiesa – è più clamorosa e rivelatrice di quanto possa sembrare a prima vista, perché moltiplica il numero dei bugiardi e dei falsi testimoni: che dovrebbero essere nuovamente interrogati, questa volta sotto giuramento e, se del caso, incriminati. Uno di questi è, con ogni evidenza, Ted Olson, marito di Barbara Olson, il quale raccontò a stampa e televisioni di avere ricevuto ben due telefonate dal cellulare della moglie, a bordo del volo AA-77». Il rapporto ufficiale prende tutto per buono, ma l’Fbi è categorico: non ci fu alcuna telefonata da cellulare dal volo AA-77 (quello del Pentagono). Barbara Olson tentò una sola chiamata che, in base ai tabulati, risultò disconnessa. La sua durata fu infatti di zero secondi.
«Tutto quanto fin qui scritto – commenta Giulietto Chiesa – non è farina del sacco dei “complottisti”, a meno di non considerare tali Richard Clarke, o lo stesso Hamilton, per non parlare di Philip Shenon», di cui Chiesa apprezza la meticolosità d’indagine, malgrado «l’ingenuità» e la «prudenza» con cui descrive «i calcoli cinici dei protagonisti», da Zelikow a Hamilton. Forse è autocensura, «per non dover poi affrontare le domande più gravi che sgorgano dalla sua stessa documentazione». E’ chiaro, aggiunge Chiesa, che il reporter del New York Times «sostiene la tesi della tremenda incompetenza delle diverse amministrazioni che ebbero a che fare con l’11 settembre, e non intende andare oltre. Ma quello che scrive è comunque sufficiente per gettare nel cestino l’intero rapporto di Philip Zelikow. E sarebbe sufficiente anche per l’apertura di una serie di procedimenti penali».
Se il libro di Shenon costituisce un contributo prezioso alla verità, per contro denuncia «i limiti del giornalismo americano d’inchiesta», come si evince dalla storia dei due “piloti presunti” del volo AA-77, Nawaf al-Hazmi e Khalid al-Mindhar. Risultavano schedati come “potenziali terroristi”, sulla lista in possesso delle compagnie aeree americane. Eppure erano entrati negli Usa con i loro nomi e vi avevano vissuto per quasi un anno. «Come possa essere accaduto, Shenon non se lo chiede. Forse sarebbe stato utile chiederlo alla Cia, segnatamente agli addetti dell’agenzia che facevano entrare terroristi negli Usa a partire dal Consolato americano di Jedda, in Arabia Saudita».
Ma anche qui si arriva all’assurdo, alla farsa: i due avevano vissuto a San Diego, California, nell’appartamento di uno “storico informatore” dell’Fbi. Già sospettati di terrorismo, non solo entrano con i loro nomi negli Stati Uniti, ma vanno a finire in casa di Abdusattar Sheikh, che Shenon, in un altro passaggio del suo libro, definisce «informatore di lungo corso dell’Fbi». E’ ancora possibile parlare, come fa Shenon, di “incompetenza”? E’ sufficiente questa “incompetenza” per spiegare il silenzio dell’Fbi prima e dopo l’11 settembre? Ce n’è abbastanza per aprire un procedimento penale contro Shaikh? Ma non fu nemmeno convocato: l’Fbi si oppose al suo interrogatorio.
Su altri versanti risulta che il senatore Bob Graham, del Comitato del Senato per l’intelligence, aveva svolto indagini (passate sotto silenzio) dalle quali emergeva che «alcuni funzionari del governo saudita avevano avuto un ruolo nell’11 settembre». Erano 28 pagine di un rapporto assai dettagliato che però «rimasero secretate per motivi di sicurezza nazionale». La commissione non chiese neppure di vederle.
Michael Jacobson, ex legale dell’Fbi e funzionario dello staff agli ordini di Philip Zelikow, aveva scopero che i due “dirottatori” non si nascondevano neppure: «Il nome, l’indirizzo e il numero di Hazmi si trovavano nell’elenco telefonico di San Diego». Dagli archivi locali dell’Fbi è emerso che i due erano sotto controllo, furono ricevuti e ricevettero denaro da un “misterioso” espatriato saudita, Omar al-Bayoumi. Neppure costui fu mai sentito dalla commissione. «Sempre Jacobson – conclude Chiesa – scoprì che l’Fbi sapeva che i soldi per i due terroristi arrivavano direttamente dalla principessa Haifa al-Faysal, moglie dell’ambasciatore saudita a Washington. Ma nel rapporto della commissione non c’è traccia di tutto questo» (info: www.megachip.info).