25 dicembre 2019

Bolivia, laboratorio di una nuova strategia di destabilizzazione, di Thierry Meyssan


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La nuova presidente dello Stato Plurinazionale della Bolivia brandisce i Quattro Vangeli e denuncia i “riti satanici” degli indios. Diversamente dai commenti della stampa internazionale, Jeanine Áñez non se la prende con gli indios – peraltro tutti cristiani – in quanto etnia, ma vuole imporre il fanatismo religioso.


La stampa internazionale è cauta nel riferire quanto accade in Bolivia. Descrive il rovesciamento del presidente Evo Morales, parla di un ennesimo colpo di Stato, ma non riesce a inquadrare quel che sta davvero succedendo. Non si accorge del nascere d’una nuova forza politica, finora sconosciuta in America Latina. Secondo Thierry Meyssan, se le autorità religiose del continente non si assumeranno subito le proprie responsabilità, niente riuscirà a impedire il dilagare del caos.

l 14 ottobre 2019, in un’intervista alla televisione Giga Vision, il presidente Evo Morales dichiarò di possedere registrazioni comprovanti la preparazione di un colpo di Stato da parte di esponenti dell’estrema destra e di ex militari, da mettere in atto qualora avesse vinto le elezioni [1].
Quel che poi è accaduto non è un vero e proprio colpo di Stato: è un rovesciamento del presidente costituzionale. Niente induce a credere che il nuovo regime saprà stabilizzare il Paese. Sono i primordi di un periodo di caos.
Le rivolte che si sono susseguite dal 21 ottobre hanno indotto a fuggire, l’uno dopo l’altro, il presidente, il vicepresidente, il presidente del senato, il presidente dell’Assemblea nazionale, nonché il primo vicepresidente del senato. Le sommosse non sono però cessate con l’intronizzazione alla presidenza ad interim, il 12 novembre scorso, della seconda vicepresidente del senato, Jeanine Áñez. Il partito di Áñez ha solo quattro deputati e senatori su 130. In compenso, la nomina di un nuovo governo senza indigeni ha spinto gli indios a scendere in piazza in sostituzione dei sicari che hanno cacciato il governo Morales.
Ovunque si registrano violenze interetniche. La stampa locale riferisce delle umiliazioni pubbliche e degli stupri. E conta i morti.
Se è evidente che la presidente Áñez ha il sostegno dell’esercito, non si sa invece chi abbia cacciato Morales: potrebbe essere una forza locale o una società transnazionale, oppure entrambe. L’annullamento di un mega-contratto per lo sfruttamento delle miniere di litio potrebbe aver spinto un concorrente a investire nel rovesciamento del presidente.
Una cosa soltanto è certa: gli Stati Uniti d’America, che adesso si rallegrano per il corso preso dagli avvenimenti, non li hanno provocati, sebbene cittadini e funzionari USA vi siano probabilmente implicati, come ha affermato il direttore dell’SVR [Servizio d’intelligence internazionale, ndt] russo, Sergueï Narychkine.
La pubblicazione della registrazione di una conversazione tra la ministra degli Esteri della Colombia, Claudia Blum, e l’ambasciatore colombiano a Washington, Francisco Santos, in un caffè della capitale statunitense, non lascia dubbi [2]: in questo momento il segretario di Stato USA Mike Pompeo è contrario a ogni intervento in America Latina; ha già mollato l’autoproclamatosi presidente del Venezuela, Juan Guaidó, facendo precipitare nello sgomento la Colombia anti-Maduro, e rifiuta ogni contatto con i numerosi apprendisti putschisti latino-americani.
Sembra che la nomina di Elliot Abrams come rappresentante speciale USA per il Venezuela non sia stata soltanto il prezzo della chiusura dell’inchiesta russa del procuratore Robert Mueller [3], ma anche un mezzo per farla finita con i neo-conservatori dell’amministrazione. Questo “diplomatico” si è comportato talmente male che in pochi mesi ha distrutto ogni speranza d’intervento imperialista USA in America Latina.
Del resto, il dipartimento di Stato USA è un cumulo di macerie: alti diplomatici hanno testimoniato contro il presidente Trump davanti alla commissione della Camera dei Rappresentanti incaricata dell’impeachment.
Ma chi conduce il gioco se non è l’amministrazione Trump a farlo? Evidentemente ci sono ancora residui importanti delle reti create dalla CIA negli anni dal 1950 al 1970. Dopo quarant’anni sono ancora presenti in numerosi Paesi dell’America Latina e possono agire autonomamente, con pochi appoggi esterni.

Le ombre del passato

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Ante Pavelić, capo della milizia degli ustascia, e il suo protettore, l’arcivescovo cattolico di Zagabria, monsignor Alojzije Stepinac. Il primo è ritenuto uno dei peggiori criminali della seconda guerra mondiale, il secondo viene considerato santo per aver lottato contro il comunismo.
Quando gli Stati Uniti decisero di arginare l’URSS, il primo direttore della CIA, Allen Dulles, e il fratello, il segretario di Stato John Foster Dulles, esfiltrarono miliziani dell’Asse un po’ ovunque nel mondo per combattere i partiti comunisti. Furono riuniti in un’associazione, la Lega Anticomunista Mondiale (WACL) [4], che organizzò in America Latina il “piano Condor” [5] per una cooperazione fra i regimi filo-USA e per assassinare i leader rivoluzionari, ovunque si rifugiassero.
Il generale-presidente boliviano Alfredo Ovando Candia (1965-1970) affidò al nazista Klaus Barbie (il “macellaio di Lione”) la caccia all’argentino Che Guevara. Barbie riuscì a eleminarlo nel 1967, come nel 1943 aveva fatto con il capo della Resistenza francese, Jean Moulin. Durante le dittature del generale Hugo Banzer Suárez (1971-1978) e di Luis Garcia Meza Tejada (1980-81), Klaus Barbie, assistito da Stefano Delle Chiaie (membro di Gladio, che organizzò in Italia il tentativo del colpo di Stato del principe Borghese), ristrutturò la polizia e i servizi segreti boliviani.
Dopo le dimissioni del presidente statunitense Richard Nixon, gli Stati Uniti si dedicarono alla grande operazione di trasparenza con le commissioni Church, Pike e Rockefeller sulle attività segrete della CIA. Il mondo scoprì soltanto le increspature di superficie, che erano comunque troppo. Nel 1977 il presidente Jimmy Carter nominò l’ammiraglio Stansfield Turner a capo della CIA, con l’incarico di ripulirla dai collaboratori dell’Asse e di trasformare i regimi filo-americani da dittature in democrazie. È perciò legittimo chiedersi come abbiano potuto Klaus Barbie e Stefano delle Chiaie supervisionare fino al 1981 il sistema repressivo della Bolivia.
Evidentemente Barbie e Delle Chiaie erano riusciti a organizzare la società boliviana in modo da prescindere dal sostegno di Casa Bianca e CIA. Gli bastava il sostegno discreto di qualche alto funzionario statunitense e il denaro di qualche multinazionale. Allo stesso modo hanno probabilmente agito i putschisti del 2019.
Durante il periodo anticomunista, Barbie favorì l’installazione in Bolivia di croati ustascia che avevano facilitato la sua fuga dall’Europa. Quest’organizzazione terrorista, creata nel 1929, rivendicava in primo luogo un’identità cattolica e aveva il sostegno della Santa Sede nella lotta contro i sovietici. Nel periodo tra le due guerre compì numerosi assassinii politici, fra gli altri quello, in Francia, del re ortodosso Alessandro I di Jugoslavia. Con la seconda guerra mondiale gli ustascia si allearono con fascisti e nazisti, pur conservando la propria specificità. Massacrarono gli ortodossi e arruolarono i mussulmani. In contraddizione con il cristianesimo cui in origine si riferivano, promossero una visione razzista del mondo e non consideravano gli slavi e gli ebrei come esseri umani a pieno titolo [6]. Alla fine della seconda guerra mondiale gli ustascia e il loro capo Ante Pavelić fuggirono dall’Europa e si rifugiarono in Argentina, dove furono accolti dal generale Juan Perón. Alcuni di loro però rifiutarono la sua politica e si staccarono: il gruppuscolo più intransigente emigrò in Bolivia [7].
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Per il neo-ustascia Luis Fernando Camacho, «la Bolivia appartiene a Cristo!»; una verità lapalissiana in una Paese al 98% cristiano. Ma cosa intende esattamente?

Gli ustascia in Bolivia

Quali che siano le ragioni etiche, è sempre difficile rinunciare a uno strumento offensivo. Così non bisogna meravigliarsi che collaboratori cacciati dal presidente Carter dalla CIA collaborarono con il vicepresidente di Ronald Reagan ed ex direttore della CIA, George Bush senior. Alcuni di loro formarono l’Antibolchevik Bloc of Nations [8]; si trattava soprattutto di ucraini [9], baltici [10] e croati. Tutti criminali oggi al potere.
Concerto di un gruppo ustascia a Zagabria nel 2007.
Gli ustascia boliviani hanno mantenuto legami con i fratelli d’armi in Croazia, in particolare durante la guerra del 1991-1995, in cui sostennero il partito cristiano-democratico di Franjo Tudman. In Bolivia hanno creato l’Unione Giovanile Cruceñista, milizia nota per le violenze antirazziali e le uccisioni d’indios aymara. Uno dei vecchi capi, l’avvocato e uomo d’affari Luis Fernando Camacho, è oggi presidente del Comitato Civico pro-Santa Cruz. È lui che apertamente dirige i sicari che hanno cacciato dal Paese l’aymara Evo Morales.
Sembra che anche il nuovo comandante in capo dell’esercito, Iván Patricio Inchausti Rioja, provenga dagli ustascia di Croazia. È lui che guida la repressione contro gli indios, munito della licenza d’uccidere della presidente Jeanine Áñes.
La forza degli ustascia boliviani non è nel numero. Sono solo un gruppuscolo. Eppure sono riusciti a cacciare il presidente Morales. La loro forza sta nell’ideologia: strumentalizzare la religione per giustificare il crimine. In un Paese cristiano nessuno osa opporsi spontaneamente a persone che si richiamano a Cristo.
Tutti i cristiani che hanno letto o sentito la nuova presidente annunciare il ritorno al governo della Bibbia e dei Quattro Vangeli — lei non sembra fare distinzione tra i due testi — e denunciare i «riti satanici degli indios» ne sono stati scioccati. Tutti hanno pensato fosse adepta di una setta. No, è soltanto una fervente cattolica.
Da molti anni mettiamo in guardia contro i partigiani al Pentagono della strategia Rumsfeld/Cebrowski, che vogliono fare nel Bacino dei Caraibi quanto fatto nel Medio Oriente Allargato. Sotto l’aspetto tecnico, il loro piano si è sempre scontrato con l’assenza di una forza latina, comparabile ai Fratelli Mussulmani e ad Al Qaeda. Tutte le macchinazioni partivano dalla tradizionale opposizione dei “capitalisti liberali” ai “socialisti del XXI secolo”. Non è più così. Ora una corrente interna al cattolicesimo predica la violenza in nome di Dio. Essa rende fattibile il caos. I cattolici latini si trovano nella stessa situazione dei sunniti arabi: devono con urgenza condannare questi individui per non essere travolti dalla loro violenza.

23 dicembre 2019

IL GIALLO ENRICO FORTI / DA 20 ANNI NEGLI STATES IN GALERA SENZA PROVE


In galera da 20 anni nei “democratici” States senza uno straccio di prova, senza un giusto processo, senza un movente per un omicidio che non ha mai commesso.
E’ l’incredibile story di Enrico ‘Chico’ Forti, del quale appunto ricorrono i vent’anni di folle detenzione nelle galere a stelle e strisce e sulla cui vicenda ha appena presentato un’interrogazione parlamentare alla Camera Michela Rostan di Liberi e Uguali.

Michela Rostan. In apertura la spiaggia di Miami e Chico Forti
Chiede al ministro degli Esteri Luigi Di Maio: “Forti dal 2000 si trova in carcere negli Stati Uniti, con una condanna all’ergastolo per omicidio avvenuto in base a un processo lampo, indiziario e senza prove. Il procedimento giudiziario in cui è stato coinvolto in nostro concittadino è, a detta di molti, lacunoso e parziale. A Forti sono stati negati diritti elementari di garanzia per difendersi. Cinque anni fa la Camera ha approvato una mozione per chiedere al Governo un impegno forte a tutela del nostro concittadino. Da allora si è mosso poco. L’esecutivo attivi i suoi buoni rapporti con gli Stati Uniti, sempre molto solerti quando si tratta di difendere i diritti di un connazionale, e avanzi con decisione la richiesta di un giusto processo con le giuste garanzie”.

IL PEGGIOR CASO DI MALAGIUSTIZIA NEGLI STATES
Ricostruiamo per sommi capi l’incredibile vicenda, etichettata dal legale di Forti, Joseph Tacopina (proprietario tra l’altro del Venezia Calcio) come “il peggior caso di malagiustizia che abbia mai visto negli Stati Uniti”. Non poco.
Di Forti si hanno le prime notizie quasi trent’anni fa, nel 1990, quando partecipa con successo ad una puntata di “Telemike”, vincendo la bella somma di 80 milioni. Ed è così che può soddisfare il sogno di una new life, volando negli amati States con la moglie per iniziare la nuova vita. Diventa videomaker e produttore televisivo, un vero dream; realizza soprattutto reportage sugli sport estremi che vende a diverse emittenti a stelle e strisce.

Joseph Tacopina
Le cose vanno ok e riesce a addirittura a trasferirsi in un quartiere esclusivo di Miami, in Florida. Decide di diversificare le sue attività e comincia ad investire nel settore immobiliare. Ed ecco che arriva una buona chance, ossia l’acquisto di un albergo che va per la maggiore – ma in quel periodo si trova in difficoltà – il Pike’s Hotel di Ibiza. Il proprietario, Tony Pike, entra in contatto con Chico Forti, la trattativa pare incanalarsi per il verso giusto. A questo punto Tony Pike decide di far venire a Miami il fratello, Dale, per avere il suo avallo alla vendita.
Chico va a prendere Dale all’aeroporto ma poche ore dopo il cadavere dello stesso Dale viene trovato sulla spiaggia di Miami con due proiettili nella testa, nelle tasche il biglietto aereo comprato da Forte. Il quale viene immediatamente fermato dalla polizia e trascinato senza complimenti in galera.
Seguirà un processo sommario, tipo Far West e alla conclusione manca solo il cappio al collo. Invece, sarà un continuo vagare per le galere statunitensi.

COME TI INCASTRO MEGLIO
Ecco alcune frasi dei parenti o di chi si è occupato del caso.
Sottolinea lo zio Gianni che si è venduto anche la casa per pagare le spese legali e tutto quanto potesse aiutare il nipote: “E’ stato condannato per aver pianificato l’omicidio di una persona che non aveva mai visto né incontrato in vita sua”.
“E’ tutta una costruzione della colpevolezza. Ciò che era a sgravio nel processo è stato eliminato o non si trova più”.
La madre novantunenne: “Devo mantenermi giovane per aspettare che esca”.
L’avvocato Tacopina: “Non ci sono prove né dai magistrati né dalla polizia che Chico sia l’assassino. Sono rimasto scioccato quando ho letto la trascrizione del processo. Ci sono dozzine di motivi che fano dubitare della sua colpevolezza”. E ancora: “anche un novellino dell’investigazione capirebbe che tutto è stato studiato per incastrarlo. Non c’è niente, è tragicamente ridicolo. Sembra una commedia di Benigni”. O una tragedia di Sofocle.
Un amico di vecchia data, Francesco Guidetti, fa notare: “viveva un momento felice e fortunato della sua vita, non aveva il minimo motivo per ipotizzare un omicidio del genere”.

Lorenzo Matassa
Ferdinando Imposimato, il magistrato coraggio che per decenni ha denunciato mafie & terrorismi e si è battuto con vigore per l’innocenza di Chico Forti: “In tutta la storia non esiste un solo indizio concreto. Nelle mie molteplici letture dei fascicoli processuali non ne ho trovato uno, uno solo”.
Ed infatti, a quanto pare, tutto dipende da pochi granelli di sabbia. Quelli trovati nelle tasche di Chico Forti e che proverrebbero dalla spiaggia dove è stato trovato il corpo della vittima.
Osserva Lorenzo Matassa, un altro ex magistrato che ha studiato a lungo il giallo: “Negli Stati Uniti, per condannare qualcuno, devi superare ogni ragionevole dubbio. Qui non esiste alcun movente. Non può esistere un delitto senza movente: a cosa giovava l’assassinio di questo ragazzo?”.
Secondo i giudici a stelle e strisce il movente sarebbe stato di interesse: ritengono, senza peraltro poterlo in alcun modo provare, che Dale fosse contrario alla vendita del Pike e che proprio per questo Forti avrebbe deciso di farlo fuori. Davvero ‘fuori’ dal mondo!

SERVIZI DI POLIZIA
La realtà è invece esattamente un’altra. E fa balzare evidenti tutte le responsabilità della polizia. Chico, infatti, aveva osato produrre un docufilm da novanta sull’omicidio di Gianni Versace facendo risaltare, nella pellicola, il pessimo operato della polizia di Miami in tutta la vicenda.

Gianni Versace
Ecco cosa scrive un sito americano a proposito dell’assassino del famoso stilista, Andrew Cunanan, e non solo: “Dopo una lunga caccia all’uomo, Cunanan venne trovato morto a Miami. Chico Forti realizzò un documentario in cui veniva dato spazio all’ipotesi che Cunanan sarebbe stato ucciso altrove e poi spostato nella casa in cui è stato ritrovato per inscenare un suicidio. Il documentario mise in cattiva luce l’operato della polizia di Miami. E’ da lì che sono cominciati i suoi problemi. Per esempio, la giudice che condannò Chico faceva parte del team che aveva condotto le indagini sulla morte di Cunanan”. Se vi par poco per depistare!
Ma c’è ancora una ciliegina sulla torta. In tutto il corso del processo, l’accusato non ha MAI avuto modo di difendersi né di dire la sua. Infatti non è MAI stato interrogato né MAI ha potuto verbalizzare in aula, al pubblico dibattimento nel corso del quale perfino il più efferato killer ha tutto il diritto di parlare.
Qui un innocente non ha potuto dire neanche una sillaba.
E’ questa la giustizia nei super democratici Usa?

21 dicembre 2019

[Reseau Voltaire] Les principaux titres de la semaine ven 20 dic 2019

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En bref

 
La CIA et les jihadistes ouïghours
 

 
Les visées coloniales de l'Union européenne sur l'Arctique
 
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Déclaration conjointe de la Russie et du Nicaragua
 

 
Jean-Yves Le Drian au Sénat sur le rôle de l'Otan
 

 
Déclaration conjointe de l'Iran, de la Russie et de la Turquie sur la Syrie
 

 
Déclaration finale du Groupe international de soutien au Liban
 

 
Déclaration conjointe de l'Allemagne, de la France, de la Russie et de l'Ukraine
 

 
Huawei : Mythes et réalité
 

 
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Caso Estermann, «Si riaprano le indagini»


Riaprire le indagini sul caso Estermann. È quanto chiedono ai magistrati della Città del Vaticano i familiari di Cedric Tornay, il vicecaporale delle Guardie svizzere accusato del duplice omicidio commesso il 4 maggio 1998 che causò la morte del comandante Alois Estermann e della moglie Gladys Meza Romero.
Tornay si sarebbe suicidato subito dopo. L’istanza per l’accesso al fascicolo integrale è stata depositata dall’avvocato Laura Sgrò al Tribunale vaticano, rilevando numerose «criticità» nella ricostruzione dei fatti.
La magistratura vaticana, nella persona del giudice Gianluigi Marrone, nel 1999 archiviò l’inchiesta sul duplice omicidio e suicidio dopo aver concluso che Tornay aveva ucciso con dei colpi d’arma da fuoco il neo-comandante Estermann e la moglie in preda a un raptus causato dal rifiuto di una promozione, per poi togliersi la vita. La ricostruzione fornita dalle autorità vaticane è stata però sempre contestata dalla madre di Tornay, Muguette Baudat, tanto da far sviluppare nel tempo varie teorie alternative, anche con presunti legami col caso Orlandi.
L’avvocato Sgrò, incaricata dai familiari di richiedere la riapertura delle indagini, rileva varie «criticità», come il fatto che la signora Baudat, nonostante le numerose richieste, non abbia mai potuto leggere gli atti d’inchiesta, né i suoi avvocati ne hanno mai potuto estrarre copia. Le sole informazioni in suo possesso derivano dai pochi decreti che le sono stati notificati e dai comunicati della Sala stampa vaticana, che ha diffuso stralci dell’istruttoria.
Mai viste foto, il luogo del delitto, videoriprese, risultati di esami o verbali di deposizioni. Nulla. Come si ricorderà, poi, qualche ora dopo il fatto di sangue il portavoce vaticano Joaquin Navarro-Valls aveva già ricostruito i fatti, così come verranno riconfermati alla chiusura delle indagini.
La sera che è arrivata a Roma, un sacerdote inviato dalla Segreteria di Stato avrebbe cercato di convincere la signora Baudat a cremare il corpo di Cedric: in prima battuta lei aveva acconsentito, la mattina dopo ha cambiato idea, nonostante le pressioni ancora ricevute. Ciò ha determinato che la donna ha ottenuto la restituzione del corpo del figlio. L’autopsia è stata effettuata in Vaticano. La famiglia non comprende perché non sia avvenuta presso una struttura ospedaliera come il Gemelli, in cui si vociferava sarebbero state portate le salme. Mme Baudat non ha mai avuto modo di nominare un consulente di parte che partecipasse all’autopsia né ha mai letto la perizia data alla magistratura.
Il corpo è stato restituito alla madre in pessime condizioni. Mme Baudat ha disposto un’autopsia privata, effettuata all’Università di Losanna. Le informazioni diramate dalla Sala stampa vaticana non coincidono con le conclusioni redatte dai periti di parte. Non avendo mai letto la perizia d’ufficio, resta comunque difficile fare un’attenta comparazione delle autopsie.
Sono gli stessi medici legali a fornire informazioni balistiche. Non risulta infatti che sia stato incaricato nessun perito balistico per analizzare adeguatamente traiettorie e proiettili. Ciò che rileva la famiglia è che il proiettile restituito alla madre con il quale Cedric si sarebbe ucciso non può avergli attraversato il cranio, essendo intatto e senza alcuna striatura. Il foro sulla testa di Cedric peraltro è più piccolo rispetto alla pallottola. Seri i dubbi che si tratti di una pallottola di un calibro diverso.
Tornay avrebbe lasciato una lettera in cui annunciava il gesto, ma sull’autenticità della lettera sono molteplici i dubbi, soprattutto perché la missiva è indirizzata a Muguette Chamorel. Chamorel è il cognome dell’ex marito di Mme Muguette, che non usava quel cognome da moltissimi anni. Strano che un figlio faccia un errore del genere.
Le indagini furono condotte dal capo della Gendarmeria Camillo Cibin e da Raoul Bonarelli, che finì indagato per la scomparsa di Emanuela Orlandi.
Mme Baudat ha chiesto la restituzione degli effetti personali del figlio, gli sono stati restituiti mancanti. I vestiti che Cedric indossava quel giorno sarebbero stati bruciati. Almeno questo è quanto riferito alla madre quando non se li è visti recapitare.
«Abbiamo fatto richiesta di accedere al fascicolo integrale, è nel pieno diritto di Mme Baudat - spiega all’agenzia italiana ANSA l’avvocato Sgrò -. È evidente che la richiesta di riapertura delle indagini, che si basa sulla presentazione di nuove prove, non può prescindere da un attento studio degli atti e della comparazione di essi con il nuovo materiale raccolto e con lo studio degli atti anche da parte dei nostri consulenti. Non appena avremo contezza del fascicolo integrale completeremo la nomina dei nostri consulenti».

20 dicembre 2019

Rete Voltaire: I principali titoli della settimana ven 20 dic 2019

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In breve

 
La CIA e gli jihadisti uiguri
 

 
Le mire coloniali sull'Artico dell'Unione Europea
 
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La vaccinazione obbligatoria non è la soluzione per il morbillo in Europa


L’ondata di obbligo vaccinale che registriamo in Europa non serve a prevenire i focolai di morbillo e crea un vulnus democratico alla libertà delle persone. La maggior parte dei dubbiosi non sono estremisti, bensì genitori prudenti che hanno bisogno di un confronto professionale e trasparente e di servizi vaccinali facilmente accessibili.


Di Vageesh Jain, 15 novembre 2019


I casi di morbillo globalmente nei primi sei mesi del 2019 hanno raggiunto i livelli più alti dal 2006. Mentre i paesi di tutto il mondo lottano per contenere i focolai, le politiche governative in materia di vaccinazioni sono state messe sotto accusa. La Germania è stata l’ultima  a cedere alla pressione.

Data la libera circolazione dei cittadini tra i paesi dell’UE, una politica coerente in materia di sanità pubblica è particolarmente importante. Ad esempio, nel primo trimestre del 2019 nel Regno Unito si sono verificati oltre 230 casi di morbillo, la maggior parte dei quali collegati a viaggi in Europa.

Anche se i casi di morbillo sono ai massimi storici, nella regione europea dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) i bambini che vengono vaccinati non sono mai stati così tanti. Gli incrementi dei tassi di vaccinazione vengono messi in ombra da piccoli gruppi di persone vulnerabili, che continuano ad agire da serbatoio per la malattia. Nessun paese dell’UE può sperare di controllare adeguatamente il morbillo senza un successo diffuso all’intera regione. Quindi la domanda è: la vaccinazione obbligatoria è la chiave del successo?

Nove paesi europei su 30 hanno la vaccinazione obbligatoria per il morbillo, che prevede due dosi, una nei primi due anni di vita (MCV 1) e una più tardi nell’infanzia (MCV 2). Non vi è alcuna differenza evidente nella copertura vaccinale tra i paesi con vaccinazione obbligatoria rispetto a quelli senza vaccinazione obbligatoria.

Diffusione del vaccino contro il morbillo nei paesi UE/UEA (2018) ECDC, OMS


Anche guardando al numero di casi di morbillo nei bambini per paese, non vi è alcuna differenza consistente: alcuni paesi che hanno la vaccinazione obbligatoria, come Bulgaria e Slovacchia, hanno tassi di morbillo molto elevati.

Numero di casi di morbillo ogni 100.000 bambini nei paesi dell’UE/SEE. ECDC, Banca Mondiale


La vaccinazione obbligatoria è antidemocratica

Il problema più evidente con la vaccinazione obbligatoria è che incide sui diritti delle persone, un aspetto fondamentale nella democrazia liberale. Fu proprio la percezione diffusa che i ricchi avessero imposto la loro volontà a scapito dell’autonomia individuale a portare alla fine della vaccinazione obbligatoria contro il vaiolo in Inghilterra nel 1946.

Tuttavia, c’è chi potrebbe sostenere che è compito del governo adottare misure rigide nell’interesse della salute pubblica. Le differenze negli approcci dei paesi dell’UE riflettono quindi i diversi sistemi politici e la loro volontà di prevalere sull’autonomia individuale per un maggiore beneficio comune percepito.

Un indice democratico dell’Economist Intelligence Unit, basato su 60 indicatori, tra cui le libertà civili e i diritti umani, mostra che i paesi dell’UE in cui la vaccinazione contro il morbillo è obbligatoria sono tutti classificati come “democrazie imperfette”. Tra i paesi in cui la vaccinazione non è obbligatoria, il 62% è stato classificato come “democrazia completa”.

Paesi UE classificati per Indice di democrazia EIU. Economist Intelligence Unit (EIU)


Considerando tutti gli elementi, è chiaro che i sistemi democratici deboli di alcuni paesi dell’UE consentono l’attuazione dell’obbligo vaccinale, con benefici scarsi o inesistenti per la salute pubblica.

Le alternative

Sulle ragioni dell’esitazione vaccinale sappiamo molto. I genitori che rifiutano il vaccino contro morbillo, parotite e rosolia (MMR) spesso credono che i vaccini siano insicuri e inefficaci e che le malattie che prevengono siano lievi e non comuni. Alcuni non hanno fiducia nei professionisti della salute né nella scienza. Esistono soluzioni a questo riguardo: diversi studi con controllo randomizzati (lo standard aureo della ricerca medica) hanno dimostrato che l’atteggiamento dei genitori può essere cambiato con i giusti programmi di formazione.

È anche importante avere abbastanza centri che effettuino le vaccinazioni. La sanità pubblica sembra essere stata un facile obiettivo per i tagli di bilancio in molti paesi europei. In molti paesi, la maggior parte delle persone scettiche sui vaccini non sono veementi “no-vax”, ma persone che hanno una  posizione prudente sulla vaccinazione. Per persone come queste, avere servizi di vaccinazione accessibili e convenienti e una guida professionale di supporto sono fondamentali per una strategia efficace.

Uno studio francese del 2019 ha mostrato che un anno dopo che era stata resa obbligatoria la vaccinazione, la copertura vaccinale per il morbillo è aumentata. Questo dato è però fuorviante. È probabile che rifletta il successo delle diverse azioni derivate da un significativo impegno politico, tra cui il finanziamento dei servizi sanitari pubblici, campagne di sensibilizzazione pubblica e in generale attività di sensibilizzazione, piuttosto che l’effetto della legge sull’obbligo in sé.

Per affrontare il morbillo, la politica dell’UE deve essere coerente, equa ed efficace. Esistono ragioni ben comprese e documentate alla base dei bassi tassi di vaccinazione. È importante che siano affrontate, in particolare nei gruppi sociali difficili da raggiungere, prima di passare a misure drastiche supportate da prove deboli, sotto l’apparenza dell’azione.


Vageesh Jain è medico, attualmente è in formazione per la specializzazione in Salute pubblica a Londra. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni su riviste sottoposte a “peer review” in materia di epidemiologia e politica sanitaria. Nel suo ruolo attuale, lavora sulla prevenzione delle malattie cardiovascolari nel borgo londinese di Hackney e part-time presso l’International Rescue Committee (IRC) sulla gestione delle malattie non trasmissibili in contesti umanitari. Ha una posizione clinica accademica NIHR all’Istituto per la Salute Globale presso l’UCL.