29 dicembre 2012

BERLUMONTI-MONTISCONI

... Vendolini-Casinendola, Bersamonti-Montisani, Pannelloni-Berlupann, Dilisani-Bersaberto…

Titolo stupidotto, ma che infantilmente indica la perfetta e incontestabile intercambiabilità dei nostri dirigenti di partito nel segno della pace tra i popoli, della giustizia sociale e della salvaguardia del pianeta.

Cari amici finiti nelle spire ottundenti dei bagordi festaioli ampiamente garantiti da Monti, Fornero e Passera, abbiate pazienza. Questo pezzo è lungo. Ma giuro che osserverò il silenzio stampa almeno fino al 3 gennaio. Si può, con buona disposizione d’animo, leggere in tre o quattro o dieci volte. Ciao. E auguri.

Qui sotto inizio con due paragrafi che si occupano del movimento arancione, testè comparso alla ribalta e fonte di standing ovation e di grandi aspettative da parte del popolo della sinistra, degli indignati, dei disgustati. Riprendo il filo di questo discorso più avanti, dopo alcune pillole informative che si sono perse nella corsa alla verità del nostro sistema mediatico.

Quando a un esponente di ALBA chiesi di inserire nei loro punti programmatici, in vista dell’assemblea romana di “Cambiare si può”, oltre al disarmo e al ritiro delle missioni militari un più esplicito riferimento alla guerra imperialista, all’uscita dalla Nato e alle basi Usa in Italia, questi mi rispose condividendo in pieno i suggerimenti. Assistetti all’assemblea di “Cambiare si può”. Non ci fu il minimo accenno a niente di tutto questo. Magari si sarebbero risentiti i neoarancioni del PRC e del PdCI che, quando al governo, si rimangiarono un secolo di lotte e pronunciamenti contro la guerra e contro la Nato, e votarono – con dignitosa riserva di perplessità sulle stragi di civili - per le missioni di guerra. Né hanno alzato un ciglio mentre Nato e Al Qaida, con il ministro-generale Nato Di  Paola sul ponte di comando, sbranavano Libia e Siria. In compenso la star arancione, De Magistris, ha scritto così, in occasione della festa per la nuova sede a Lago Patria, Giugliano, dell’ Allied Joint Forces Comand di Napoli, cioè del supremo comando Usa-Nato per gli interventi in Africa e Medioriente. Quello che, d’intesa con governo e parlamento, tirava le fila dello squartamento della Libia.

Il sindaco di Napoli Luigi De Magistris (Movimento arancione), dopo aver sottolineato «lo storico legame di Napoli con questa base», ha dichiarato: «Siamo orgogliosi di aver conosciuto tante forze armate diverse” che, trasferendosi nella nuova sede, resteranno a Napoli, una città con «una posizione strategica rilevante nei piani per il mantenimento della pace nel mondo», una città che «con gli occhi guarda verso Bruxelles (sede centrale della Nato), ma con il cuore guarda a Sud, al Medio Oriente dove stati autonomi e indipendenti ci si augura possano vivere in serenità». Parole altamente apprezzate dall'ammiraglio statunitense Bruce Clingan, comandante del Jfc Naples, che ha regalato a Caldoro la chiave simbolica della base e a De Magistris la bandiera del Jfc Naples. I tre comandi di Napoli, hanno un'«area di responsabilità» complessiva che abbraccia l'Europa, l'intera Russia e l'Africa. La guerra alla Libia, l'anno scorso, fu diretta dal Pentagono prima attraverso l'Africa Command, quindi il Jfc Naples, appoggiati dalle forze navali Usa in Europa. Sempre da Napoli vengono condotte le attuali operazioni militari in Nordafrica e in altre parti del continente e quelle di accerchiamento e disgregazione della Siria. Poiché le operazioni belliche si intensificano in base al «nuovo concetto strategico», spiega l'ammiraglio Clingan, occorreva una sede adeguata a «un quartier generale di combattimento della guerra», costantemente operativo. A Napoli, che - assicura De Magistris - ha «una posizione strategica rilevante nei piani per il mantenimento della pace nel mondo».

Pillole indigeste

Marco Pannella, all'anagrafe Giacinto, è quell’ircocefalo che sa definirsi tutto e il contrario di tutto: radicale, liberale, socialista, antimilitarista, ghandiano e sostenitore di tutte le guerre Nato e di tutte le destabilizzazioni, violente ma colorate. E’ uno di quelli per i quali vale la battuta di Altan: “Emozionatemi, sennò mi tocca di pensare”. Che questo si chiami populismo? Infilandosi nella pancia del popolo da lui ritenuto ruminante, vorrebbe metterlo sottosopra facendogli digerire, non il quarto di italiani ridotti in povertà, ma alcune migliaia di carcerati, mafiosi e alcuni colletti bianchi compresi. Servono, come analoghe specificità regolarmente lanciateci addosso dal 1976 in qua, a fare una flebo al comatoso Partito Radicale. Per questo non mangia e non beve. Ma ricatta Saviano e altri: “Se non entrate nella lista La Rosa nel pugno, crepo.  “Non mollo”, risponde al coro straziato delle prefiche d’ogni colore, mentre si fa idratare, beve bicchieri d’acqua e non si sa se ha ripreso l’antica preferenza per il digiuno a cappuccini e brioche. Intanto è sceso di quei chili in straordinario eccesso che gli pesavano su articolazioni e cuore. Un eroe del nostro tempo.


 I due marò, altri eroi del nostro tempo, grazie a una giustizia indiana che pare le dame di San Vincenzo, hanno avuto una licenza natalizia dai magistrati che li processano per omicidio volontario. Hanno ammazzato due pescatori indiani. La loro non èra un barchetta armata di ancora, reti e cestelli, ma una specie di cannoniera nemica, là dove i pirati transatlantici somali, a 3mila miglia da casa loro, allestiscono agguati ai mercantili italiani. Sollecitati dall’impunità per ogni crimine assicurato ai camerati delle forze armate Usa, hanno sparato e ucciso due poveracci inermi. L’ammiraglio  Nato, Di Paola, incidentalmente ministro Nato della Difesa in una colonia, in attesa della massima onorificenza, li ha fattI baciare da tutti gli italiani. Qualcuno, poi, s’è pulito la bocca. Superato dal collega in curva, Ignazio La Russa ha prevalso sul filo di lana candidando i due valorosi al parlamento della Repubblica. Una cicciolinata degna di Pannella.

C’è qualche perplessità a vedere sugli altari due peccatori professionisti del tiro a segno contro pescatori? Niente paura, ci rifacciamo subito con un bel processo militare antifascista (bravo Di Paola!) al supercriminale ultranovantenne che, a 21 anni, da caporale, in ottemperanza al diritto militare applicato da amici e nemici, ha partecipato a Cefalonia al plotone di esecuzione di soldati italiani. Ad Alfred Stork toccherà un breve ergastolo. Siamo umani noi. E dei grandi antifascisti. In piena era di tecno-finanz-fascismo. Sappiamo bene chi sono Alfred Stork e Angela Merkel. Tanto più umani siamo nell’archiviare, macchè archiviare, nel nemmeno prendere in considerazione, qualche processo ai nostri grigioverdi che in Grecia bruciavano villaggi con la gente dentro, o a quegli eroi di quarte e quinte sponde che in Libia e Abissinia hanno sfoltito due popoli. E non meritava Graziani, per i suoi 600mila libici (un terzo della popolazione) tolti di mezzo avvelenando acque, gasando e strangolando nei campi di concentramento, quel marmoreo sacrario nel borgo natale?

Siria verso l’ora zero? Rischia di andare a finire come in Libia, se il governo cadesse e il paese finisse nelle fauci dei suoi nemici. A Bengasi saltano per aria le stazioni di polizia e non c’è un metro quadrato del paese sotto controllo esclusivo della compagnia di saltimbanchi che si definisce governo.Tutti gli altri si azzannano tra di loro e ogni banda, per la sua parte, si accorda con l’un petroliere e l’altro sulle depredazioni da concedere. In Siria la nuova Coalizione di opposizione imbastita nel Qatar (Fratelli Musulmani) deve constatare la perdita di controllo su qualsiasi formazione che opera nel conflitto (Salafiti e Al Qaida). Si fanno figuracce  che imbarazzano i padrini occidentali dell’aggressione. Dei refrattari all’immagine da dare all’opinione pubblica democratica, gli indemoniati del Fronte Al Nusrah riducono in briciole il campo di profughi palestinesi. Altre brigate del Free Syrian Army imperversano nelle zone “liberate”, trasformandosi in “Polizia Religiosa”, imponendo veli integrali, bruciando negozi di musica e alcolici, chiudendo i locali di ritrovo e proclamando la sharìa, tagliando mani e piedi. Tutto questo, tra i sopravvissuti delle loro stragi.

Tre sono i segni prenomitori per un’apocalisse ormai imminente, arrivati proprio mentre scrivo. Provocazioni identiche a quelle sulle quali si è poi costruito l’intervento in Iraq e in Serbia.I TG si strappano le vesti sopra un eccidio di civili nel bombardamento di Helfaya,(Hama).    Dai comunicati da Damasco si apprende invece che sono stati i terroristi, che ora hanno l‘artiglieria, a tirare sul quartiere. Se tanto mi dà tanto, si sa benissimo come è andata. Si tratta di un classico; bombardamento delle donne nella piazza del paese in fila per il pane. 300 morti. Stancamente ripetitivo stereotipo della provocazione: ricordare Sarajevo 1993 e 1995. Per il collateralista Adriano Sofri e la stampa di guerra, proiettili serbi. Per la commissione dell’ONU, un autoattentato partito dalle posizioni bosniache, poi confermato.  


Infine, strepitano i terroristi, il gas usato da Assad contro i civili ad Al Bayyada (Homs). Come Saddam a Halabja, Tutto falso. Come dimostra quella banda di salafiti sprovveduti che, proprio mentre a Washington ci si affanna ad accreditare una minaccia chimica di Assad, fa circolare video in cui un barbuto esibisce sostanze tossiche, avvelena conigli e minaccia sterminio chimico a tutti. Minaccia messa in atto il 22 dicembre quando, sopraffatti dall’esercito nazionale a Daraya, i terroristi ripiegando hanno tirato granate al gas tossico, probabilmente iprite, che hanno ucciso sette soldati.Tra le minacce dei mercenari, ripetute su video, c’è anche quella, agghiacciante, dell’avvelenamento dell’acqua potabile. Crimini di guerra e contro l’umanità su cui HRW e Amnesty sorvolano leggiadre. Si susseguono i piani di pace, russo, cinese, ora iraniano: fine delle violenze, dialogo. Vox clamantis in deserto.

A Dubai un alto dirigente dell’Opposizione Siriana, Haitham al Maleh, ha detto ad Al Jazira che i “militanti attivi in Siria possono legittimamente colpire, oltre a qualsiasi siriano, anche civili iraniani e russi”. I “militanti” non se lo sono fatti dire due volte e, minacciato di tirare sulle ambasciate di Russia e Iran, hanno promesso che “non un russo, non un iraniano usciranno vivi dalla Siria”. Così hanno sequestrato due tecnici russi impiegati a Tartus in un’acciaieria e, un po’ confusi su amici e nemici, si sono presi anche un ingegnere di Catania. Chiedono un riscatto di mezzo milione. L’ingegnere Bellomo di Catania imbarazza la Farnesina. Cosa cazzo stava a fare l’imbecille in Siria? A dimostrare che i ribelli sono terroristi e pur di arraffare bottino fanno strame delle alleanze? Si finirà col credere che anche i palazzi fatti esplodere con le famiglie dentro sono opera dei ribelli…  Infatti del povero catanese si è subito smesso di parlare. Mica è Giuliana Sgrena in mano ai manigoldi saddamisti. E ci si è messo pure Martin Nesirky, portavoce del segretario ONU, a denunciare “la mattanza in Siria della minoranza alauita ad opera di gruppi terroristi” Non c’è più religione, si finirà col pensare che la Siria si difende da un’invasione di bruti e non che il bruto da cui difendersi sia Assad.

In Turchia si moltiplicano i rompiscatole che scrivono e dicono cose Sconvenienti per una rapida soluzione del caso Siria. Il capo del Partito Democratico Turco ha rivelato l’arrivo in Turchia di 10mila combattenti afghani sistemati nella base Nato di Hatay e da infiltrare in Siria, dopo essere stati addestrati al terrorismo dai 2000 specialisti Usa testè spediti da Obama. Sono anche quelli che devono occuparsi di far funzionare i missili Patriot installati sul confine per difendersi da una Siria che, non avendo altri problemi, si prepara ad assaltare la Turchia.Gheddafi non era quel dittatore pazzo che si è poi ridotto a pavido coniglio, nascosto in un tubo di drenaggio per sfuggire alla cattura dei “giovani rivoluzionari” (che parlavano la lingua che parlano i paramilitari colombiani)? Di foto non ce n’erano, ma tante ce n’erano di come Hillary Clinton aveva voluto che Gheddafi fosse ridotto. C’erano, e bastavano a tutti, le ricostruzioni degli universali media, come di Human Rights Watch, l’Ong sorosiana dei diritti umani che, assieme alla sorella nel Dipartimento di Stato, Amnesty International, aveva spianato la strada a quel finale raccontandoci gli orrori dei 10mila ammazzati da Gheddafi in due giorni, delle fosse comuni, del viagra da stupro. Ora, a cose fatte e a risultato conseguito, mentre è impegnata a ripetere il modulo libico in Siria, HRW torna sui suoi passi e, ammettendo senza ripercussione alcuna l’errore, comunica che no, che Gheddafi non stava nel buco (ricordate il buco di Saddam? Falso anche quello), ma che era stato catturato in combattimento, dopo che aerei Usa ne avevano disintegrato la colonna. Bravi, dato che siete così onesti da ammettere una vecchia svista, come non credere a quanto ci riferite degli orrori di Assad?



Gabanelli e pipelines. Se HRW, Saviano, Fazio, Vendola, sono bravi a costruirsi piedistalli lucenti per poi erigerci sopra monumenti della disinformazione, Milena Gabanelli rasenta il sublime. Ha piazzato quattro colpi d’artista sulla tela del minchionamento dei telespettatori. Confermatasi all’occhio di tutti noi indefessa e fin temeraria fustigatrice delle malefatte nazionali, ha esaltato la ragione sociale per la quale lavora con un reportage sulla Libia che avrebbe fatto rabbrividire di piacere Hillary Clinton; con un reportage su e per Monti che ne faceva San Cristoforo traghettatore di Gesù; con un’esaltazione delle grandi possibilità che si aprono agli anziani, ai pensionati, di lavorare ancora, mettendo a frutto dei giovani la propria instancabile professionalità, magari gratis, data la lauta pensione. E qui Fornero si è commossa fino a quelle lacrime che l’accompagnano in ogni lieto evento.

Se tutto questo faceva molto contenti quelli che sappiamo noi, figuratevi la loro ebbrezza nell’assistere allo sbranamento gabanelliano dell’ENI e del suo presidente Paolo Scaroni. L’Ente di Stato che, bene o male, di Stato ancora è e ci rifornisce di energia, tra altre nefandezze, sta commettendo un crimine che tutto il resto riduce a inezia: traffica con i russi! E addirittura fin dai tempi dell’innominabile Berlusconi! Scandalo! Ma come, i nostri alleati e protettori Usa e GB si affannano a darci la luce attraverso oleo- e gasdotti che, dal Caspio, ci raggiungano attraverso paesi amici, non contaminati dall’opposizione al nostro manto protettivo Nato, e quei rinnegati dell’ENI fanno accordi con Mosca per pipeline che aggirino le nostre colonie e ci arrivino meglio e a minor costo? Anatema!

Bel lavoro, Milena, Exxon, BP, Shell, Total, ti aspettano al tè delle cinque. Minzolini, Ferrara e Fede sono già arrivati. Fazio non si compromette. Ci ha mandato la valletta, Filippa Lagerback.

  
Occhio all’Argentina. Rischia di pagare caro l’affronto fatto agli avvoltoi bancari mondiali imponendogli una drastica riduzione del debito, alla quale avevano aderito tutti tranne alcuni speculatori che ora trascinano il governo in giudizio. Ma questo è il minimo e l’Argentina ne uscirà come ne è uscita grazie al duo Kirchner dopo il default del 2001. Quando mandarono al diavolo l’FMI. Cristina Kirchner, pur lasciandosi dietro ancora sacche irrisolte di giustizia sociale e di diritti dei deboli, ha portato molto avanti il discorso del riscatto dalla povertà e dalla subalternità a imperialismo e multinazionali. Le andava impartita una lezione, anche per una politica estera sovrana, di amicizia con il Venezuela, di cui ha favorito l’ingresso nel Mercosur, e di bando ai regimi prodotti dai golpe filo-Usa (Honduras, Uruguay).  Da un paio d’anni l’oligarchia beneficiata dal ladrone ultraliberista Menem, ispirata e telecomandata dalle varie agenzie Usa di destabilizzazione, è passata al contrattacco. Siamo alla quarta ondata reazionaria. Prima ci fu lo scontro, perso dalla Kirchner, con i latifondisti della poderosa agroindustria che si rifiutavano di pagare le tasse sul loro export. Poi, contro una legge, ferma dal 2009 in vari gradi di ricorso, che disintegrava lo scandaloso monopolio del gruppo Clarin sull’informazione (600 radio, decine di televisionI, i maggiori giornali), si riversarono in piazza le classiche dame dei cacerolazos, a schiamazzare contro la “soppressione della libertà di stampa”. Venne una mezza rivolta per il salario dei corpi di polizia e reparti dell’esercito, da sempre insufficientemente bonificati rispetto alle infiltrazioni Usa (come in Venezuela), risolta con una mediazione.

E ora, per tre giorni, c’è stato il fenomeno, esploso contemporaneamente in tutte le città, del saccheggio di massa. Una cosa con ogni evidenza organizzata meticolosamente e che ha visto, accanto ai quei poveracci che sono rimasti dopo la cura Kirchner (riduzione del 50% della povertà) e sono andati a prendersi pane e verdura, bande sincroniche di teppisti che asportavano dai supermercati beni durevoli e di lusso. Il tutto più o meno nelle stesse ore, a distanza anche di migliaia di chilometri. Regia perfetta, destinata a suscitare l’impressione di un paese nel caos. Cristina, che ha trionfato nelle recenti elezioni, farebbe bene a mobilitare la risposta popolare organizzata, oltreché dalla sinistra peronista cui lei appartiene, dai tanti combattivi movimenti sociali sorti dall’insurrezione del 2001-2002. 


 Barack Obama, l’uomo fattosi padrone della vita e della morte, cioè dio, attribuendosi il diritto di compilare liste di persone da assassinare perché sgradevoli, ha nominato Segretario di Stato al posto di Hillary John Kerry. Per 19 anni al Senato, Kerry  si è dimostrato il più accanito dei presidenti sostenitori di Israele (tutti, tranne Eisenhower), il più meticoloso nel far aderire la politica estera Usa alle esigenze di Israele, il più appassionatO tra i gojim nella collaborazione con la lobby ebraica, il più frequente visitatore di Israele, il più severo castigatore dei farabutti che nascondono il proprio antisemitismo nella critiche a Israele, il più convinto assertore dello Stato degli Ebrei e il resto vada a farsi fottere.

Il presidente, dal canto suo, frena un po’. Al Kerry, che lo vorrebbe vedere sottobraccio a Netaniahu disintegrare subito l’Iran, il Premio Nobel per la pace, oppone rassicurante: verrà il tempo, intanto lasciami finire con la Siria, l’Afghanistan, lo Yemen, la Somalia e ora anche il Mali, insomma ovunque abbiamo mandato i nostri ascari Al Qaida a fare sfracelli islamisti in modo da avere i pretesti  per l’intervento di pace, umanitario, democratizzante. Non vedi, gli ha detto, che in Afghanistan, solo quest’anno, la mia escalation  di pace ha prodotto 333 incursioni di droni, più di tutti quelli compiute in Pakistan durante gli ultimi otto anni. L’anno prima erano stati 294 e 270 nel 2010. Secondo ricercatori pachistani, il 90% di questi lanci di missili hanno colpito civili nei loro villaggi. Non se ne abbia a male Emanuele Giordana del “manifesto”, secondo cui la maggioranza delle vittime in Afghanistan sarebbero dovute ai Taliban. E’ il body count  del capitano di una delle due squadre in campo. Visto che l’arbitro non c’è. Ma a Giordana va bene così. Il cosiddetto ritiro Usa annunciato per il 2014, si avarrà dei droni perché nulla sia lasciato indietro. Chissà di quali distorsioni mentali soffriva invece Brandon Myrton, giovane recluta in un bunker del New Messico da cui si operano i droni, cacciato per aver rifiutato di schiacciare ancora il bottone. Dato il via a un missile Hellfire in Afghanistan, prima dell’impatto aveva visto un bambino circolare nel mirino. Rimasero spappolati sul terreno, oltre al ragazzetto, altri cinque, tra genitori e fratelli.

Eppoi, prima dell’Iran, per plasmare il cui destino prossimo Obama ha ora regalato a Israele 500 milioni di dollari in nuovi armamenti,  rimane da sistemare almeno il Mali. Il Consiglio di Sicurezza ha autorizzato l’intervento armato contro Tuareg e islamisti che si sono appropriati del Nord e minacciano il fantoccio golpista insediato a Uagadugu e incapace di farcela da solo. Rafforzati dai combattenti gheddafiani che controllano anche le frontiere sud della Libia, i Tuareg erano quasi riusciti a realizzare la storica e anticolonialista aspirazione al loro Stato, Azawad. A criminalizzarli in modo da giustificare l’intervento, ecco che dall’Algeria Usa e Francia hanno trasferito in Mali i propri ascari dell’AQMI (Al Qaida nel Maghreb Islamico), a far casino e distruggere i monumenti. Partiranno 3000 mercenari Nato dei paesi dell’Africa Occidentale, mentre logistica e forze speciali Usa e francesi sono già sul posto. Ci si riprenderà l’uranio maliano che serve per altri scenari esplosivi e si avrà il benefico effetto collaterale di circondare da tutte le parti Libia, Mali, Niger, Marocco, quegli infidi di Algerini. Gli stessi che al socialdemocratico Hollande, caro ai nostri sinistri, hanno osato intimare di scusarsi, riconoscere e indennizzare i crimini commessi dalla Francia coloniale in Algeria. Hollande, sul posto, ha replicato con dignità: “Non sono venuto a chiedere scusa e a pentirmi”.


Campionato truccato

Il Vicerè col chip Cia in testa e il Gran Ciambellano noleggiato dalla Goldman Sachs il gioco dell’incastro lo praticano alla grande. Per organizzare alla meglio il puzzle nazionale, hanno infilato la tessera PD tra quella del Grande Centro dei Moderati per l’Agenda Monti e quella dell’iniziatore di quell’agenda, ma ora reprobo e consunto, Silvio Berlusconi. Il gioco è delle parti. Uno, acclamato dal consesso di avvoltoi annidati a Bruxelles, nonché dal Grande Condor in persona, si erge a taumaturgo senza macchia e paura che ha ridato credibilità all’Italia presso la City e Wall Street. L’altro, il guitto mannaro risuscitato dal sangue di Alfano, da fuori di matto e, quanto a moderati, così facendo ne ingrossa le armate appresso al taumaturgo.Tanto, ce lo dice l’Europa, che ci si metta lui o ci metta una controfigura, va imperativamente preferito nel voto a  tutti gli altri. Non tanto ai resti del PDL, di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo e che risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza, quanto a colui che, pur devoto, si ostina a farneticare di incarico a chi ha preso più voti. L’incarico lo dà, a suo comandato arbitrio, l’uomo extra partes a cui Cupola, banche, potentati europei, Wall Street, il Vaticano e, giù giù, fino a Confindustria, Marchionne e Bonanni, hanno detto di fare il golpe pro- Terza Repubblica, in effetti pro-Prima Oligarchia nella marca dell’Impero.

L’antipolitico populista Mario Monti, nelle sue intemerate elettorali da vanesio che s’imbrodola di gaffe e di spocchia a ogni frase emessa dal nastro magnetico che gli gira dentro, non ha mai, mai, menzionato il Meridione. Ovvio, la cogestione del Sud, seminata nel 1943 dagli Usa, coltivata prima da Andreotti e, poi, da Berlusconi, è trapassata in monopolio di uno dei partner, quello con la coppola. Puzza di conflitto d’interessi? Visto che quello di Monti e consorteria sta al problemino di Berlusconi come Lucrezia Borgia sta a Nicole Minetti, ci sarebbe da sospettarlo. Quanto ai petulanti che chiedono una risistemazione del territorio e dell’ambiente, anche qui Monti non si è mai lontanamente sognato di dargli sponda. Sono irrilevanti per chi vive in un caveau che per finestre ha cassette di sicurezza. .

Ma non è tanto questo che preoccupa Bersani e le colonne di suoi seguaci diversi, che si sorridono col coltello dietro la schiena, quanto la soluzione del rebus “come cazzo faccio a fare campagna elettorale contro un ben altrimenti unto dei signori, quando questi fa a gara con me nella caccia al primo unto(re) del Signore, quello messo lì a falso scopo e, peggio, mi ha posto al suo servizio fin dal primo colpo Fornero? Come fai, dopo esserti battuto a corpo nudo per l’Agenda Monti e aver giurato di battersivi fino al lancio dell’ultima stampella, a chiedere di votare contro tutto questo. Dicendo con Franceschini che “chi più ha più deve dare, chi meno ha meno deve dare”? Bersani, sei fuori! Nella Unterkommandatur  Europa alla copia preferiscono l’originale.Tanto più che la copia non si è liberata del difetto di attaccare nelle sue feste straccetti della pace e a bere mojitos. E, soprattutto, camminare reggendo in fondo lo strascico a Monti e tentare di fargli contemporaneamente sgambetto è dura. Vedremo chi va a sbattere il grugno, se il cortigiano ambizioso, o l’uomo-elettrodotto da 2000 volt su cui, sopra un deserto di ghiaccio, stanno appollaiati corvi come Goldman Sachs, FMI, Draghi, i Gran Maestri, i grandi boss, il Vaticano e il 59% bischero degli italiani. Comunque vada a finire, mai visto migliore film horror con sodomizzazione finale.

Poi c’è la pantomima del Monti contro Berlusconi e viceversa. Prima il guitto mannaro non aveva di fronte che un formaggio da grattugiare come Bersani. Ora gli si para davanti un robot mannaro dalle pale rotanti. Qui non c’è proprio partita. Nell’era della tecnica le macchine vincono.


 Arancioni o arancini (quelli che si prendono con l’aperitivo)?

Grandi e degne del miglior Bar Calcio sono le discussioni se nella costellazione arancione, esalata dal rosso tramonto, si vada e non si vada a rimorchio del PD, e dunque inevitabilmente dell’Agenda Monti, come Vendola che ora la chiama Agenda Bersani, quasi che mangiar rape fosse il contrario del mangiar rapanelli.Trasaliva questo dubbio anche dalla convention di “Cambiare si può” al teatro delle Vittorie di Roma. Sessanta interventi. Siccome mi fido delle facce che fanno e delle storie che hanno più che delle “narrazioni” che narrano, me ne sono venuto via presto, ma con qualche impressione. Quella del principio di uguaglianza, sancito dal buonsenso, proclamato dalla Costituzione e ribadito qui da una scorta del signor Ginsborg che intimava al pubblico di lasciare libere le prime file dei “posti riservati”. Ai notabili. Alla vista della mia non trendy domanda sull’uguaglianza, la brava mascherina ha poi rettificato: “sono per la stampa”. Peccato che la stampa tutta abbia dovuto operare in piedi o accovacciata sotto il palco.

Seconda impressione: la continuità. Nelle prime file, su colli allungati verso l’inusitata scialuppa di salvataggio, svettavano i capini di coloro – Grassi, Russo Spena, Agnoletto, Alfonso Gianni il guru di Torre Spaccata -   che avevano praticato con Bertinotti il rafting giù per le rapide della controrivoluzione e ora si ritrovavano all’appello per fare, chissà, quel percorso all’inverso. Su o giù, purchè ne esca uno strapuntino al tavolo dei parlamentari. C’era anche l’inesorabile continuità, fondamento di ogni esistenza politica in Italia, del mondo dei nonviolenti, dell’intervento umanitario, del raffinatissimo né-né. Quelli che le bombe sono brutte, ma Milosevic, Gheddafi, Saddam, i Taliban, Ahmadi Nejad, sono bruttissimi e l’unico vero bello è il subcomandante Marcos che, non eletto capo da quasi vent’anni, simboleggia la democrazia nella continuità. Mancava il rinnegato Kautsky, ma c’erano Piero Maestri di “Guerre e pace” e Giulio Marcon di “Sbilanciamoci”, già dell’International Consortium of Solidarity che in Serbia le aveva cantate chiare agli ultranazionalisti di Slobo.

Altra impressione: l’innovazione. E qui era tutto un girotondo. C’erano quelli che girotondavano fin dal 2002, i Pardi, i Ginsborg, i Flores D’Arcais, arzilli vecchietti per l’ennesima volta usciti dalla camera iperbarica, ripuliti dalle contaminazioni disinvoltamente subite da spurii come D’Alema, Pecoraro Scanio, Bassolino, i sionizzanti Colombo, Pirani e  Foa. Logorati, ma pimpanti, categorizzati tra le scorie indifferenziate, ma giovanilisticamente spavaldi, con l’occhio fiso nel futuro. Gente strepitosa ad allestire convegni, far marciare cortei,  ma anche gente di classe che sa evitare radicamenti sociali  che potrebbero sfociare in occasioni d’oro per facinorosi e Black Bloc. Gentiluomini.


L’impressione del pluralismo colpisce con forza. C’è l’animalista e quello del Km Zero, il cultore del Che e la corifea di Aung San Suu Kyi, quello, come Bevilacqua, che dice senza il PD non si fa niente e l’altro che inalbera un cartellone con tutte le malefatte sociali e belliche del centrosinistra negli anni 90, prodromo del saccheggio perfezionato poi da Berlumonti e Prodi 2. C’è chi saluta in noi il Cristo che scende dalla croce e chi vede in Gesù e nei suoi successori il travestimento del demonio. Il Giano bifronte che depreca la guerra, ma collabora ad abbattere “dittatori” (che inevitabilmente porta con sé un esito di sangue), si confronta con uno che si vuole buttare sui binari per stoppare il convoglio di armi e armigeri. Problematico il rapporto eco-alimentare tra colui che sostituisce a un’Italia cementificata uno stivale fotovoltaico, e quello che: “Ma le pesche e i carciofi dove li pianto? E le vacche, anziché sui prati, le devo incarcerare una sull’altra e tenerle su ad antibiotici”? E Grillo? Quelli presenti del “manifesto” rabbrividiscono alle parole dell’oratore che, dei suoi 6 minuti, ben due ne dedica alla necessità di aprire a Grillo, ma gli stessi si rasserenano a udirne da un altro elencare le infinite malefatte. Non sono, i manifestini, i protagonisti mediatici assoluti nel viscerale rancore verso “l’ex-comico ringhiante e populista” (sensi di colpa?).
Come si vede, sono mille fiori che fioriscono. Con un’eccezione, monolitica. Niente neoliberismo, niente Monti. Ragazzi, non è poco.

Impressionato mi ha anche il profumo di certezza. Certezza di un Diliberto che, con il suo vasto seguito nella società civile, appassionatamente desidera fare il ruotino di scorta del PD, tanta è la nostalgia per i tempi dorati di Monti. Certezza di Ingroia e anche di un Di Pietro che dicono sì al dialogo con il centrosinistra, purchè lontano dal caminetto di Monti, ma forse lo fanno strumentalmente, solo per stanare l’ultrà montista Bersani. Difatti il lucido Fassina, pur pestando qualche callo nel partito, istantaneamente li dice “incompatibili” per il PD. Certezza anche quella degli eterni adolescenti della politica, girotondini e popolo viola, rifondaroli e ong svariate, per i quali il dialogo col PD significherebbe mettersi a tavola con il diavolo in seconda e non se ne parla nemmeno.

Nei 60, o giù di lì, interventi da 6 minuti, fatta eccezione per l’intervento imbarazzante di Sandro Medici a celebrazione dei suoi meriti di presidente di municipio romano e della sua candidatura a sindaco, hanno detto tutti più o meno le stesse cose, tutte piuttosto buone. Ecologiche, sociali, pacifiste, culturali, operaie, studentesche, femministe, libertarie, laiciste.  Un po’ fumoso il discorso sull’Europa, mentre dal fondo della sala rumoreggiavano gli ultrà del “fuori da questa Europa, fuori dall’Euro, sovranità”. Quelli del “fuori la Nato dall’Italia, fuori l’Italia dalla Nato”, Dal Molin, Sigonella, Niscemi, internazionalismo in solidarietà con i popoli aggrediti, forse erano rimasti fuori. Infatti un energumeno-armadio, spingendo verso l’esterno chi tentava di esagerare l’affollamento, urlava: “C’è posto in piazza”. Fortunosamente era riuscito a intrufolarsi uno di costoro che, però, intimidito da Piero Maestri, si è limitato a sussurrare: “ritiriamo le truppe”. Quelle Nato possono restare. 

Il punto lo misero uno che raccomandava di “squarciare il velo della realtà”, un altro che ricordava che “bisogna ripartire dalla vita”, un altro ancora che, sotto gli occhi di girotondini e violaciocche  a lunghissima ferma, come Ginsborg e Revelli, dava voce ai rabbiosi anti-partito della società civile sentenziando “basta con i riciclati”. Al che, comprensibilmente, quelli dei partiti – che, comunque, si sa, al magma delle masse devono dare forma organizzata, sennò si finisce come quelli del “tutti giù per terra” – si sono sentiti trattati come i neri in un Circolo della Caccia dell’Alabama. E, per quanto gente di partiti dell’autocombustione, hanno perfettamente ragione. Tant’è vero che, personalmente, conosco giovani del PRC che stanno ai loro dirigenti come la quercia sta al rampicante e se non fossero loro a organizzare banchetti e mobilitazioni per le firme alla lista arancione, col piffero che la società civile, nell’espressione inclusivista degli ingroiani e in quella esclusivista di “Cambiare si può e ALBA”, saprebbe farcela a candidarsi.

Effetto collaterale non da poco è il taglio delle gambe che questo movimento ha inflitto a Vendola, diventato, davanti alla variegata ma corposa realtà arancion-radicale, un’astratta inutilità sdottoreggiante. E questo è un altro punto di forza. Quanto a Grillo, nei cui occhi scoprono una spina quelli delle travi nell’occhio, ci auguriamo che lui e loro si leggano i reciproci programmi. Eppoi, le chiappe del padrone sono due, no?

Tutto questo, in ogni modo, resta appeso a un grande interrogativo: gli Hara Krishna con chi si metteranno?

Resta la domanda: per chi votare? Per me che ci siano gli arancioni o comunque quest’armata Brancaleone di beneintenzionati con le zattere di sopravvissuti aggregate, è un fatto elettoralmente nuovo e positivo. Non è la via che credo tocchi percorrere, ma faut de mieux… Stimavo Ingroia per la sua lotta per la verità sulla collisione-collusione mafia-Stato e per il suo coraggio a resistere – con altri, come Travaglio e Di Pietro - al golpista nella sua demolizione anche del terzo potere dello Stato, l’amerikano protagonista primo del rovesciamento della Costituzione nel suo contrario e motorino d’accensione per il bulldozer della tecno-fascio-dittatura pianificata dalla Cupola. Ora attendo di vedere se il magistrato meriti la stessa stima nella sua collocazione politica. Processi alle intenzioni sono scorretti e arbitrari. Quanto a votare, beh, c’è da decidere se si vuole partecipare a un gioco truccato con il maggioritario alla Porcellum, che non ha nulla da invidiare a elezioni consacrate democratiche nei bassifondi dell' Impero, come quelle in Messico, Honduras, Egitto.
BERLUMONTI-MONTISCONI

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