Gli Stati Uniti sono diventati i primi produttori mondiali di idrocarburi. Già ora sfruttano la posizione dominante esclusivamente per massimizzare i profitti, senza esitare a eliminare i grandi produttori rivali, sia pure a prezzo di precipitare intere popolazioni nella miseria. L’accesso al petrolio fu in passato, con Carter, Reagan e Bush senior, un bisogno vitale dell’economia; con Clinton fu un mercato da manovrare; con Bush junior e Obama una risorsa in via di esaurimento di cui controllare il rubinetto. Con Trump gli idrocarburi sono tornati a essere l’oro nero. Thierry Meyssan ripercorre le evoluzioni di questo sanguinoso mercato.
L’economia dipende innanzitutto dall’energia di cui dispone: un bisogno che da sempre è stato una delle principali cause di guerra. Un tempo si trattava di fare schiavi gli esseri umani per sfruttarli nei campi; nel XIX secolo di appropriarsi del carbone per alimentare le macchine; oggi di impadronirsi degli idrocarburi, ossia di petrolio e gas.
Per nascondere a sé stessi questa logica, gli uomini da sempre s’inventano buonissime ragioni per giustificare le proprie azioni. Così, noi pensiamo che:
l’Iran venga sanzionato per il suo programma militare nucleare, sebbene l’abbia bloccato nel 1988;
gli impianti e i beni della PDVSA [compagnia petrolifera statale vnezuelana, ndt] siano stati sequestrati per trasferirli dal dittatore Maduro a Juan Guaidò e compari, sebbene il primo sia il presidente del Venezuela costituzionalmente eletto e il secondo un usurpatore;
gli Stati Uniti mantengano le loro truppe in Siria per sostenere gli alleati kurdi di fronte al dittatore al-Assad, sebbene questi kurdi siano dei mercenari che non rappresentano il loro popolo, mentre al-Assad è stato democraticamente eletto.
l’Iran venga sanzionato per il suo programma militare nucleare, sebbene l’abbia bloccato nel 1988;
gli impianti e i beni della PDVSA [compagnia petrolifera statale vnezuelana, ndt] siano stati sequestrati per trasferirli dal dittatore Maduro a Juan Guaidò e compari, sebbene il primo sia il presidente del Venezuela costituzionalmente eletto e il secondo un usurpatore;
gli Stati Uniti mantengano le loro truppe in Siria per sostenere gli alleati kurdi di fronte al dittatore al-Assad, sebbene questi kurdi siano dei mercenari che non rappresentano il loro popolo, mentre al-Assad è stato democraticamente eletto.
Sono narrazioni che non corrispondono in alcun modo alla realtà. Vogliamo credervi pensando di trarne profitto.
Il mercato mondiale
Gli idrocarburi sono il primo mercato mondiale. Sopravanza quello alimentare, quello delle armi, quelli dei farmaci e delle droghe. Prima di diventare, negli anni Sessanta, riserva di caccia degli Stati, questo mercato era gestito da società private. Con il progresso economico, sono via via entrati nuovi attori e il mercato è diventato più imprevedibile. Dal crollo dell’URSS fino al ritorno della Russia, è diventato anche molto più speculativo e subisce oscillazioni da 1 a 4 nei prezzi di vendita.
Non si può anche non constatare che numerosi giacimenti, dopo essere stati a lungo sfruttati, si esauriscono. Alla fine degli anni Sessanta, i Rockefeller e il Club di Roma hanno reso popolare la teoria secondo cui gli idrocarburi, essendo energie fossili, sono limitati. Orbene, a smentita di questo assunto, l’origine degli idrocarburi è ignota. L’ipotesi è che probabilmente siano fossili, ma potrebbero anche non esserlo. Del resto, anche se gli idrocarburi fossero rinnovabili, questo non impedirebbe loro di esaurirsi per il super-sfruttamento (teoria del picco di Hubert). In particolare, il Club di Roma ha studiato il problema partendo da un’idea aprioristica malthusiana: doveva dimostrare che la popolazione mondiale deve essere limitata perché la Terra ha risorse limitate. L’assunto secondo cui il petrolio si esaurisce è solo un argomento per giustificare la volontà dei Rockefeller di limitare lo sviluppo demografico delle popolazioni povere. In mezzo secolo e per cinque volte di seguito si è creduto che il petrolio si sarebbe esaurito negli anni immediatamente a venire. Invece oggi è dimostrato che esistono riserve sufficienti per almeno un altro secolo.
I costi molto variabili dello sfruttamento (una gradazione che va da 1 in Arabia Saudita a 15 negli Stati Uniti), i progressi tecnici, le considerevoli oscillazioni dei prezzi, nonché il dibattito ideologico hanno a più riprese reso incerto il rendimento degli investimenti. Ora, tenuto conto dei tempi tecnici, ogni interruzione degli investimenti nella ricerca, nello sfruttamento e nel trasporto causa una penuria di prodotti nei successivi cinque anni. È quindi un mercato particolarmente caotico.
La politica mondiale dell’energia
La creazione nel 1960 dell’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (OPEP), per iniziativa del venezuelano Juan Pablo Pérez Alfonzo, ha progressivamente trasferito il potere di fissare i prezzi dalle compagnie petrolifere agli Stati esportatori. Questo passaggio si è manifestato durante la guerra di Egitto e Siria contro Israele del 1973, chiamata in Occidente “guerra del Kippur”, e la crisi petrolifera mondiale che ne seguì.
Gli Stati Uniti, che erano la prima potenza mondiale, hanno adottato nel tempo differenti politiche riguardo agli idrocarburi.
Il presidente Jimmy Carter ha ritenuto che per il Paese, che aveva assoluto bisogno di questa fonte energetica, l’accesso al petrolio del Medio Oriente fosse una questione di «sicurezza nazionale». Arabi e persiani non potevano rifiutarsi di vendergli l’oro nero e nemmeno alzarne smodatamente il prezzo.
Il presidente Donald Reagan creò il Comando degli Stati Uniti per il Medio Oriente (strutturato secondo la conoscenza dell’epoca dei giacimenti petroliferi), il CentCom. Per applicare la politica del suo predecessore negoziò basi militari permanenti e cominciò a inviare truppe nella regione.
Il presidente George Bush senior prese la testa di una coalizione, pressoché universale, e schiacciò l’Iraq, che aveva pensato di poter scegliersi gli sbocchi delle esportazioni e tentato di recuperare i pozzi del Kuwait, sottrattigli dai britannici.
Il presidente Bill Clinton e il suo vicepresidente Al Gore ereditarono un mondo unipolare, senza l’URSS. Delinearono una carta di corridoi con cui solcare il mondo (gasdotti, autostrade, ferrovie, linee internet) e di operazioni militari per costruirli e renderli sicuri. Un esempio: la guerra contro la Jugoslavia, necessaria per la costruzione dell’8° corridoio.
Il presidente George Bush iunior e il suo vicepresidente Dick Cheney, convinti che gli idrocarburi si sarebbero presto esauriti, lanciarono una serie di guerre non già per impadronirsi dell’oro nero, bensì per controllarne la produzione e il mercato. Ritornando alla teoria malthusiana della fine imminente delle risorse energetiche, volevano scegliere i Paesi che avrebbero avuto diritto di accedervi per far vivere le proprie popolazioni.
Il presidente Barack Obama colse l’opportunità del gas e del petrolio di scisto e decise di favorirne l’estrazione. Sperava così di sottrarre gli Stati Uniti alla maledizione malthusiana.
Il presidente Donald Trump arrivò al potere quando gli USA erano diventati il primo produttore mondiale di idrocarburi. Decise quindi di sconvolgerne la strategia.
Il presidente Jimmy Carter ha ritenuto che per il Paese, che aveva assoluto bisogno di questa fonte energetica, l’accesso al petrolio del Medio Oriente fosse una questione di «sicurezza nazionale». Arabi e persiani non potevano rifiutarsi di vendergli l’oro nero e nemmeno alzarne smodatamente il prezzo.
Il presidente Donald Reagan creò il Comando degli Stati Uniti per il Medio Oriente (strutturato secondo la conoscenza dell’epoca dei giacimenti petroliferi), il CentCom. Per applicare la politica del suo predecessore negoziò basi militari permanenti e cominciò a inviare truppe nella regione.
Il presidente George Bush senior prese la testa di una coalizione, pressoché universale, e schiacciò l’Iraq, che aveva pensato di poter scegliersi gli sbocchi delle esportazioni e tentato di recuperare i pozzi del Kuwait, sottrattigli dai britannici.
Il presidente Bill Clinton e il suo vicepresidente Al Gore ereditarono un mondo unipolare, senza l’URSS. Delinearono una carta di corridoi con cui solcare il mondo (gasdotti, autostrade, ferrovie, linee internet) e di operazioni militari per costruirli e renderli sicuri. Un esempio: la guerra contro la Jugoslavia, necessaria per la costruzione dell’8° corridoio.
Il presidente George Bush iunior e il suo vicepresidente Dick Cheney, convinti che gli idrocarburi si sarebbero presto esauriti, lanciarono una serie di guerre non già per impadronirsi dell’oro nero, bensì per controllarne la produzione e il mercato. Ritornando alla teoria malthusiana della fine imminente delle risorse energetiche, volevano scegliere i Paesi che avrebbero avuto diritto di accedervi per far vivere le proprie popolazioni.
Il presidente Barack Obama colse l’opportunità del gas e del petrolio di scisto e decise di favorirne l’estrazione. Sperava così di sottrarre gli Stati Uniti alla maledizione malthusiana.
Il presidente Donald Trump arrivò al potere quando gli USA erano diventati il primo produttore mondiale di idrocarburi. Decise quindi di sconvolgerne la strategia.
La politica di Donald Trump
Quando il presidente Trump designò alla direzione della CIA il rappresentante del Kansas, Mike Pompeo, interpretammo questa inattesa nomina in ragione della difficoltà del presidente di trovare alleati nel Partito Repubblicano, che aveva appena preso d’assalto. Trascurammo che Pompeo, dal 2006 al 2010, fu a capo della fabbrica di componenti per idrocarburi Sentry International. Sapeva come funziona il mercato e ne conosceva personalmente i principali protagonisti a livello mondiale. Nello stesso momento il presidente Trump nominò segretario di Stato Rex Tillerson, amministratore delegato di una delle principali società di idrocarburi, Exxon-Mobil. Avremmo dovuto capire che la politica energetica sarebbe stata il cuore dell’amministrazione Trump.
È evidentemente impossibile tracciare un bilancio dell’azione di Pompeo a capo della CIA. Tuttavia si può pensare che gli obiettivi di allora non fossero lontani da quelli di oggi. Ebbene, si dà il caso che ora li abbia rivelati.
Una società di consulenza, creata dallo specialista incontestato del mercato degli idrocarburi Daniel Yergin, organizza ogni anno un incontro internazionale sull’evoluzione della situazione. il Congresso 2019 (CERAweek, tenutosi a Houston, Texas, dal 9 al 13 marzo scorsi) è stato la più vasta riunione internazionale sul tema della storia. Vi hanno partecipato i dirigenti esecutivi delle principali società di 78 Paesi. Il clou dello spettacolo è stato l’intervento del segretario di Stato Mike Pompeo. Tutti i partecipanti erano stati avvertiti dell’importanza del discorso di Pompeo, sicché è stato l’unico momento in cui l’immensa sala era stracolma.
Pompeo, dopo aver salutato gli ex colleghi, si è felicitato delle incredibili performance dell’industria petrolifera del Paese che, in sei anni, è diventata la prima produttrice al mondo di idrocarburi, grazie alle nuove tecniche di estrazione dallo scisto. Ha annunciato di aver istituito al dipartimento di Stato un ufficio speciale per la gestione delle risorse energetiche. A lui dovranno d’ora innanzi far capo i dirigenti delle società USA del settore: suo compito è aiutarle a espugnare mercati esteri, esse in cambio dovranno aiutare a portare avanti la politica energetica del Paese.
Politica che consisterà nel produrre il più possibile negli Stati Uniti, nonché a prosciugare parte dell’offerta mondiale per equilibrare il mercato. Solo in questo modo gli USA riusciranno a vendere gas e petrolio di scisto, la cui estrazione è particolarmente onerosa.
La dottrina Pompeo dice che non conviene ricondurre la produzione mondiale a livello della domanda per mezzo delle quote di produzione, come invece fa da due anni l’OPEP+, bensì chiudendo il mercato ad alcuni grandi esportatori: l’Iran, il Venezuela e la Siria (le cui gigantesche riserve sono state scoperte solo recentemente e non sono ancora sfruttate). Il progetto del NOPEC (No Oil Producing and Exporting Cartels Act) dovrebbe essere rispolverato. Questa proposta di legge, di cui in due decenni sono state depositate al Congresso molte varianti, mira a sopprimere l’immunità sovrana che i Paesi dell’OPEP reclamano per costituirsi in cartello, nonostante le leggi antitrust USA. Si potrebbero così perseguire nei tribunali statunitensi tutte le società degli Stati membri dell’OPEP+, benché nazionalizzate, per aver approfittato della posizione dominante e per aver concorso così al rialzo dei prezzi.
Si dà il caso che a fine 2016 la Russia, per far risalire i prezzi, si è associata all’OPEP e ha accettato di abbassare la produzione. Ciò è ancora più indispensabile per Mosca dal momento che la sua economia risente delle sanzioni occidentali e che le esportazioni di idrocarburi rappresentano, insieme alle armi, le principali fonti di entrata dell’export. Di conseguenza, nella situazione attuale gli interessi di Mosca e Washington non si confondono però coincidono: non inondare il mercato. Per questa ragione la Russia non fa niente per aiutare l’Iran a esportare petrolio, così come non sfrutta i giacimenti in Siria, di cui le società russe hanno acquisito il monopolio. È probabile che sotto questo aspetto non aiuterà nemmeno il Venezuela. Così il trasferimento a Mosca della sede europea della PDVSA è stato rinviato.
La Russia, che ha salvato la Siria dai mercenari jihadisti della NATO, non ha mai preso l’impegno di andare oltre. Così non muove un dito di fronte all’affossamento di questo Paese, un tempo prospero. In Siria non c’è ancora carestia, come nello Yemen, ma la strada imboccata è inesorabilmente questa.
Gli Stati Uniti però vogliono non solo stabilizzare l’offerta mondiale, ma anche determinarne i flussi; da qui le pressioni di Washington su Unione Europea e sui singoli Stati membri perché non portino a compimento il gasdotto North Stream 2. Washington vuole che l’UE si svincoli dalla dipendenza dagli idrocarburi russi. Se gli sforzi USA fossero coronati da successo, la Russia sposterebbe il flusso verso la Cina, che però non pagherebbe lo stesso prezzo.
Sin d’ora gli Stati Uniti, per soddisfare i bisogni dell’Unione Europea, vi fanno costruire il più celermente possibile porti metanieri, in grado di ricevere il loro gas di scisto. Da parte sua la Russia accelera invece la costruzione del gasdotto Turkish Stream, ossia un’altra via per raggiungere l’Unione europea.
Inoltre, il dipartimento del Tesoro USA blocca tutti i mezzi di trasporto di petrolio iraniano e venezuelano o verso la Siria. I dati in suo possesso dicono che la CIA ha iniziato a osservare in dettaglio questo commercio dall’elezione di Donald Trump, sin dal periodo di transizione, il che conferma la centralità dell’energia nella politica del presidente. Dal momento che la Siria non è oggi in grado di sfruttare da sé le proprie riserve e che la Russia soprassiede, l’atteggiamento della Casa Bianca verso questo Paese è differente: vuole impedirne la ricostruzione e rendere impossibile la vita al suo popolo. La CIA sta svolgendo un’intensa opera di sabotaggio contro ogni approvvigionamento energetico. Per esempio, la maggior parte della popolazione non ha più gas per riscaldarsi e cucinare. La CIA ha fatto anche di peggio: a febbraio una petroliera turca che trasportava un prodotto iraniano verso la Siria è stata sabotata al largo di Laodicea. È esplosa, l’equipaggio è morto e si è diffusa una marea nera di cui nessun media occidentale ha parlato.
Dato che lo Hezbollah partecipa al governo libanese e tutela al tempo stesso gli interessi iraniani, l’amministrazione USA ha esteso a Beirut il divieto di esportare petrolio. Non solo: Pompeo cerca anche d’imporre una nuova spartizione delle acque territoriali per far passare le riserve petrolifere libanesi sotto la sovranità israeliana.
Lo stesso accade con il Venezuela, che fornisce petrolio a Cuba in cambio dell’assistenza di esperti militari e dell’opera dei medici cubani. Il dipartimento di Stato cerca di sanzionare qualunque scambio fra i due Paesi, tanto più che gli esperti militari cubani sono considerati responsabili del sostegno dell’esercito venezuelano al presidente Maduro.
Gli sviluppi futuri
Per il momento la politica di Trump può avere successo solo diminuendo la domanda interna. Siccome gli idrocarburi sono usati soprattutto per i mezzi di trasporto, ecco allora fiorire progetti di auto elettriche. Consumare petrolio per produrre elettricità costa agli Stati Uniti molto meno che versarlo direttamente nei motori delle autovetture. Senza contare che sul territorio statunitense l’elettricità può essere prodotta da fonti diverse, a basso costo e a prezzo stabile.
Si noti che lo sviluppo di vetture elettriche non è affatto in rapporto con l’ideologia che vuole diminuire la produzione di CO2 per abbassare la temperatura della Terra: la produzione di batterie può essa stessa emettere molto CO2, mentre l’elettricità può essere molto più responsabile dell’inquinamento da CO2 di quanto lo sia il petrolio quando viene prodotta, come in Germania e in Cina, con il carbone.
Del resto, il consumo di petrolio evolve. Su scala mondiale non è più prioritariamente destinato ai trasporti, bensì alla fabbricazione della plastica.
Gli Stati Uniti consentiranno a Iran, Venezuela e Siria di esportare idrocarburi soltanto a partire dal 2023 o 2024, ossia dal momento in cui, secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE), la produzione statunitense da scisto comincerà ad abbassarsi rapidamente. Ancora una volta la situazione geopolitica ne sarà sconvolta.