10 gennaio 2020

Il killer: John Kennedy l’ho ucciso io. E nessuno lo interroga

James Files, l'omicida di Kennedy reo confesso «Da domani, quei figli di puttana dei Kennedy non mi umilieranno più». Lo confidò l’allora vicepresidente Lyndon Johnson alla sua amante texana, Madeleine Brown, la sera del 21 novembre 1963. Poche ore dopo, John Fitzegerald Kennedy sarebbe stato ucciso. Da chi? Non da Lee Harvey Oswald, ma dal vero assassino: James Files, reo confesso. Un uomo della mafia di Chicago, ingaggiata dalla Cia per l’operazione. La notizia è la seguente: dopo 28 anni di omertoso silenzio, in seguito al depistaggio ufficiale (che utilizzò il falso colpevole, Oswald), il vero assassino ha accettato di parlare. Merito di un agente dell’Fbi, Zack Shelton, impegnato a indagare su un banale traffico di auto rubate, ormai negli anni ‘80. Shelton scopre che a guidarle da Chicago al Texas è proprio Files, e si informa sul suo conto. Una voce lo avverte: quel ladro d’auto, collegato alle “famiglie” di Chicago, è implicato nell’omicidio di Dallas. Shelton informa il suo capo, Dick Stilling, che però lo ferma: lascia perdere, gli dice. Allora, l’agente Shelton passa il fascicolo a un investigatore privato di Dallas, Joe West, deciso a scovare la verità su Kennedy. Dopo un lungo assedio, West ottiene di parlare con Files, nel frattempo finito in galera. Lo avverte: è stato l’Fbi a fare il tuo nome. Al che, Files vuota il sacco. Finirà per ammettere: a far esplodere la testa di Kennedy sono stato io. Ma nessun magistrato andrà mai a interrogare il killer, tuttora detenuto in Illinois.
Sconcertante? E’ quello che pensa Massimo Mazzucco, e non da oggi: il suo documentario “L’uomo che uccise Kennedy” è stato trasmesso già nel 2009 da “Matrix”, su Canale 5. Non contiene solo la confessione di Files, piena di riscontri ormai verificati, ma tante altre clamorose ammissioni, che confermano in modo incontrovertibile il complotto. Kennedy “doveva” morire, perché dava fastidio a tutto l’establishment: aveva appena licenziato il potente capo della Cia, Allen Dulles, per il fallimento dell’operazione anticastrista alla Baia dei Porci, a Cuba. Un altro super-potente, Edgar Hoover, che fino ad allora aveva ignorato la mafia («che lo ricattava, per la sua omosessualità»), era stato costretto a fare improvvisamente la guerra alle cosche “amiche”, dopo la nomina di Bob Kennedy al ministero della giustizia. «Ce l’aveva con Kennedy anche il complesso militare-industriale, perché il presidente voleva ritirarsi dal Vietnam prima che si arrivasse all’escalation di una guerra vera e propria», dice Mazzucco. A Jfk l’avevano giurata anche i grandi banchieri, perché voleva mettersi a stampare moneta di Stato, «e questo sicuramente non giova alla salute».
Il piano, riassume Mazzucco, fu quindi organizzato dalla Cia, «che utilizzava la mafia come braccio armato». Si sarebbe attivata «una zona grigia, tra le due organizzazioni, nella quale i problemi comuni, forse anche oggi, vengono risolti in modo comune, senza fare troppo rumore». Come è emersa, la verità? In modo semplicissimo: per quel piccolo traffico di auto. «Durante le indagini – racconta l’agente Shelton – entrai in contatto con una persona che conosceva Files, e mi disse che una volta, a Dallas, passarono insieme per Dealey Plaza. Files divenne molto strano e disse qualcosa come: “Se gli americani sapessero quello che è successo davvero, nessuno sarebbe in grado di accettarlo”». Da qui l’interesse dell’investigatore, stoppato dall’Fbi ma deciso a passare il caso al detective Joe West. All’inizio, James Files era diffidente: non voleva parlargli. Joe WestCambiò idea quando West gli fece capire che la soffiata che lo tirava in ballo proveniva dall’Fbi. «Allora gli raccontai tutto – dice il killer – tranne il mio ruolo. Joe West morì senza sapere che ero stato io, a far saltare il cervello a Kennedy».
Come lo sappiamo, noi? Grazie a un documentario prodotto negli Usa, dopo la strana morte dello stesso West. Già, perché l’investigatore perse la vita in seguito a un’operazione chirurgica. Files sostiene che lo abbiano ucciso: «Ho sentito dire che gli hanno dato le medicine sbagliate». Faceva paura, West? Certo: grazie alle rivelazioni di Files, aveva presentato un fascicolo alla magistratura per far riaprire le indagini. Dalla sua, aveva un indizio decisivo: «Se fate riesumare il corpo di Kennedy – gli aveva detto Files – troverete tracce di mercurio: era imbottita di mercurio la pallottola esplosiva che uccise Kennedy, e le tracce di mercurio non spariscono». Com’è noto, non c’è mai stata nessuna riesumazione: morto West, la sua denuncia è finita in soffitta. Lo stesso killer si era quasi affezionato, a quel detective: «Accetto di collaborare al documentario – disse al produttore, di Hollywood – solo a patto che i proventi finiscano alla vedova di West». Il produttore sperava che uno scoop come quello (la confessione dell’assassino di Kennedy) facesse il giro delle televisioni. Invece, i grandi network l’hanno completamente ignorato. E nessun inquirente, tuttora, ha mai trovato opportuno andare a consultare Files, sempre recluso nel suo penitenziario.
A indignare Mazzucco, che ha appena realizzato un video sul tema – è anche la clamorosa reticenza di Massimo Polidoro, del Cicap, autore di un filmato incredibilmente “nebbiogeno” girato nel 2018. Polidoro, una creatura di Piero Angela (che lo fece “formare” dall’illusionista James Randi sulle tecniche di debunking), ignora deliberatamente la confessione di Files: come se non fosse mai avvenuta. Non solo: Polidoro – che accredita ancora la versione ufficiale (Lee Oswald unico colpevole) – ignora fatti gravissimi, accertati dal 1963. Per esempio: dice che a Dallas, sotto la finestra della stanza al sesto piano del deposito di libri dove in teoria era appostato Oswald, accanto a tre bossoli sarebbe stato subito rinvenuto un fucile Mannlicher-Carcano di fabbricazione italiana. Falso: i primissimi notiziari della Cnn parlano di un fucile tedesco Mauser 7,65, per giunta scovato solo mezz’ora dopo. Lo conferma il vice-sceriffo di Dallas, Roger Dean Craig, presente nel corso della perquisizione: «Ero lì, e il fucile trovato – ben Roger Dean Craignascosto, sotto una pila di libri – era un Mauser». Nei giorni successivi, i media cambiarono l’identità del fucile: il Mauser non avrebbe potuto sparare i proiettili del Carcano, che sono incompatibili.
Polidoro, poi, sorvola sul primo dei proiettili esplosi quel giorno a Dallas: un colpo a vuoto, finito lontanissimo dal corteo presidenziale, e comunque fuori dalla traiettoria dell’ipotetica finestra di Oswald. «Il proiettile ferì un passante», dice Polidoro. Non è esatto, lo corregge Mazzucco: a ferire il passante fu una scheggia di cemento, schizzata via dopo l’impatto con la pallottola. Attenzione: sul marciapiede trovarono tracce di piombo e antimonio, ma non di rame (materiale con cui sono “camiciati” i proiettili del Carcano). Secondo Polidoro quel colpo sarebbe stato sparato proprio dal Carcano di Oswald: avrebbe colpito un albero e sarebbe stato deviato lontanissimo. Improbabile, secondo gli esperti: in quel caso, o si spezza il ramo o la pallottola resta conficcata nel tronco. Ma non ha comunque l’energia inerziale per cambiare direzione, percorrere centinaia di metri e arrivare a bersaglio con la stessa forza d’urto. Mazzucco ha consultato Francesco Zanardi, istruttore di tiro della polizia italiana: «Anche se ammettiamo che ci sia stata una deviazione della traiettoria, sicuramente è impossibile che un proiettile perda la camiciatura o una parte di essa», dice Zanardi. «Ecco la prova del complotto: quel proiettile era “scamiciato”, quindi non può essere partito dal fucile di Oswald», conclude Mazzucco. «Si trattava di un proiettile diverso, partito da un fucile diverso».
E questo non è che uno dei dettagli – clamorosi – su cui Polidoro non fa chiarezza. Pur di non parlare di James Files (l’assassino reo confesso), il debunker di Piero Angela prende per buona la vecchia “storia del melone”, per spiegare lo strano movimento della testa di Kennedy, una volta colpito. E cioè: se si spara a un melone, ricadrà verso lo sparatore, perché a spingerlo all’indietro sarà la polpa, “esplosa” in avanti. «Già, ma la faccia di Kennedy non è mai esplosa». Nessun mistero, chiarisce lo stesso Files: Kennedy è stato colpito da dietro e, un istante dopo, alla tempia. Racconta: alla nuca lo colpì il suo “collega” Chuck Nicoletti, Charles "Chuck" Nicolettiappostato nell’edificio accanto a quello di Oswald (da cui il primo movimento in avanti della testa di Kennedy). A farlo rimbalzare quasi simultaneamente indietro, invece, fu il colpo laterale (tra occhio e orecchio) esploso da Files, appostato sulla collinetta erbosa accanto al corteo presidenziale.
Ricapitolando: Oswald, quel giorno, non sparò mai. Infatti, gli trovarono tracce di polvere da sparo sulle mani, ma non sul volto (nonostante la camera di scoppio di un fucile sia a pochi centimetri dalla guancia del tiratore). A Kennedy spararono altre due persone: Nicoletti, dal sesto piano del Dal-Tex Building, e Files dalla collinetta. Oswald? Era coinvolto nel piano, ma non come killer. Fece da assistente, a Files, prima del momento decisivo. «Dovevo regolare il cannocchiale della mia arma – racconta il killer – e Lee mi portò a sparare in un luogo sicuro, una discarica. Io sparavo, lui raccoglieva i bossoli». Ecco spiegata la presenza di polvere da sparo solo sulle mani. Poi il seguito è una barzelletta. Colpito Kennedy, secondo la versione ufficiale, Oswald avrebbe lasciato la palazzina dei libri e sarebbe andato a casa. In una Dallas gremita di poliziotti alle prese con la caccia all’uomo, avrebbe avuto l’idea geniale di tornare per strada, per giunta armato di pistola. Una volta fermato per un controllo da un poliziotto, l’agente Tippit, anziché mostrargli i documenti gli avrebbe sparato, freddandolo: ma senza accorgersi del fatto che gli era caduto il portafogli, poi trovato a terra (insieme ai documenti) accanto alla vittima.
A Oswald, capro espiatorio predestinato, in realtà fu ordinato di infilarsi in un cinema senza pagare, allarmando così la cassiera. «E in quelle ore, naturalmente, la polizia di Dallas non aveva di meglio da fare che precipitarsi in un cinema, sulle tracce di uno spettatore che era entrato senza biglietto», sottolinea Mazzucco. Barzelletta tragica, quella su Oswald, a cui Polidoro mostra di credere, visto che poi il finto assassino sarà ucciso da Jack Ruby: un uomo che, si saprà in seguito, lavorava dal 1947 per Richard Nixon, come suo informatore. Fine di Oswald, e fine della verità: per la Commissione Warren, ma anche per Polidoro (nonostante mezzo secolo di smentite e rivelazioni). Attenzione: Nixon non ha che fare con il caso solo per via di Ruby. Il giorno precedente l’omicidio Kennedy era presente a Dallas insieme a Lyndon Johnson, allora vicepresidente. «Ai Kennedy, Johnson era stato imposto come vicepresidente da Hoover, il quale sapeva benissimo che i Kennedy non lo avrebbero confermato alla guida dell’Fbi. E lo stesso Johnson detestava i Kennedy, che lo trattavano come una cameriera». Si ritrovarono tutti proprio a Dallas, la seraLyndon Johnson e Jfk prima del delitto, nella villa del petroliere Clint Murchinson: c’erano Johnson, Nixon e Hoover, e per la Cia era presente Howard Hunt, il braccio destro di Allen Dulles (il capo silurato da Kennedy). E oltre a Johnson e Nixon c’era un altro futuro presidente: George Bush, di lì a poco direttore della Cia.
Al party c’era anche Madeleine Brown, che da Johnson avrebbe avuto un figlio: è lei a confermare che, all’arrivo di Hoover, i potenti si appartarono per un’ora. Dal summit, Johnson uscì visibilmente sollevato: «Mi prese per un braccio – ricorda la donna – e mi spiegò che, dall’indomani, i Kennedy non sarebbero più stati un problema, per lui». In pubblico, più volte, li aveva definiti «i rampolli della mafia irlandese». Ma quella della Brown non è l’unica testimonianza. A rivelare dettagli imbarazzanti sono ormai moltissimi protagonisti. Uno è lo stesso Howard Hunt, poi implicato nel Watergate: in punto di morte (gennaio 2007), l’ex dirigente Cia consegnò al figlio una confessione registrata in cui elencò i principali autori del complotto. Raccontò tutto anche Chauncey Holt, tipografo ed esperto d’armi al servizio del mafioso Mayer Lansky, anch’esso legato alla Cia. Holt è uno dei tre famosi “vagabondi” arrestati a Dallas dopo l’omicidio e poi rilasciati. Rivelò, nella sua confessione (morirà nel 1997), di aver preparato per la Cia i falsi documenti di identità destinati a Oswald. Secondo Holt, Oswald è stato tradito dalla stessa agenzia di intelligence, per cui lavorava: «Ho sempre avuto simpatia per Oswald», dice. «E non mi sembra giusto che lui, o i suoi figli, debbano portarsi addosso per sempre quelle stigmate».
Anni dopo, la vedova – Marina Oswald – si espresse in modo esplicito: «Vorrei che le persone che ne hanno il potere, e che accusano Lee, dimostrassero finalmente la sua colpevolezza. Mettano sul tavolo le prove». Nel documentario che gli americani non hanno potuto vedere, e che Mazzucco utilizza largamente per la sua ricostruzione del 2009 trasmessa da Canale 5, abbondano invece le prove a carico dei personaggi che ruotarono attorno a Oswald. Indizi convergenti, conferme. Anello di congiunzione: il vero killer, James Files, ora detenuto a Stateville (30 anni, per tentato omicidio di due poliziotti). Nel 1963, Files è autista e guardia del corpo di Chuck Nicoletti, killer mafioso della “famiglia” di Chicago comandata da Tony Accardo e Sam Giancana. Ha solo 21 Il Remington Xp-100 Fireballanni ma è stato per oltre un anno nelle forze speciali Usa in Laos. Racconta: nel novembre ‘63 lo mandano a Dallas a ispezionare la Dealey Plaza, dove Chuck Nicoletti e il “collega” Johnny Rosselli sono stati incaricati di uccidere Kennedy. «Dovevo controllare tutto, passaggi di tram e treni», dice Files. «Loro conoscevano già gli orari del corteo presidenziale».
La mattina del 22, Nicoletti chiede a Files di fargli da tiratore di riserva. Al che, Files sceglie il luogo dove appostarsi: la sommità della collinetta erbosa, dietro una staccionata, con alle spalle i binari. «Sembrerò un ferroviere, nessuno farà caso a me». Accompagnato da Rosselli, Nicoletti avrebbe sparato dal Dal-Tex Building, palazzo rosso di sei piani, accanto al famoso Book Depository di Oswald (un palazzo giallo, sempre di sei piani). Il compito di Files: sparare solo all’ultimo momento, e solo se Nicoletti (dal Dal-Tex Building) non fosse riuscito a colpire Kennedy alla testa. Arma: un fucile a canna corta Remington Xp-100, soprannominato Fireball. Piccolo, munito di cannocchiale, comodo da riporre in una valigetta. Munizioni: proiettili calibro 22 modificati al mercurio, preparati da uno specialista di Chicago. «La punta limata e forata col trapano, il mercurio inserito col contagocce». Pallottole poi «richiuse con della cera, in modo che esplodessero all’impatto». Nicoletti non è convinto: «Perché usi il Fireball, che ha un solo colpo?». Risponde Files: «Be’, se devo aspettare che tu abbia finito, quando toccherà a me avrò solo il tempo di sparare giusto un colpo. Non potrei mai spararne un secondo».
All’arrivo del corteo presidenziale da Elm Street, racconta Files, hanno cominciato a esplodere colpi da dietro. «Ho pensato che fosse Nicoletti, perché c’era lui nell’edificio, e sapevo che Johnny Rosselli era con lui. Sentivo partire i colpi, ma nonostante il presidente venisse colpito io lo consideravo mancato, perché sapevo che dovevamo colpirlo alla testa». Files ha Kennedy nel mirino del cannocchiale: «Capivo che era stato colpito nel corpo, ma non sapevo in che punto. Ho visto il corpo piegarsi, poi piegarsi ancora. Ho sentito un altro colpo andato a vuoto. Non dovevamo colpire nessuno eccetto Kennedy». Invece, il governatore John Connally era stato appena ferito, per errore, da Nicoletti: Files lo intuì, pur inquadrando quasi solo la testa di Kennedy. «Quando sono arrivato al limite del mio campo di tiro ho puntato sul lato sinistro della testa, perché se avessi aspettato ancora Jacqueline Kennedy sarebbe entrata nella traiettoria, e mi avevano detto che a lei non doveva succedere niente», racconta il tiratore. «In quel momento ho pensato: questa è l’ultima possibilità che ho di sparare». Poi spiega: «Io e Zack Shelton, l'agente Fbi grazie a cui emerse la pista FilesNicoletti abbiamo sparato quasi nello stesso istante: e la testa di Kennedy è andata prima avanti e poi indietro. Il proiettile di Nicoletti deve aver colpito un millesimo di secondo prima del mio, e questo ha spinto la testa di Kennedy in avanti. Così ho mancato l’occhio sinistro e ho colpito la tempia sinistra».
Perché il mondo continua a non sapere quasi niente, della confessione dell’assassino di Kennedy? Perché il caso non è mai stato riaperto, risponde Mazzucco: il detective Joe West non è sopravvissuto a lungo, dopo aver presentato la denuncia sulla base della confessione di Files. Che peraltro non era stato facile ottenere: si erano scritti, e Files negava di essere implicato nel caso. Un giorno, West riesce a telefonargli. «Ha tre minuti per convincermi del motivo per cui dovrei parlare con lei», lo avverte il killer. West inizia a parlare, ma Files lo ferma subito: «Stop, stai toccando molti argomenti delicati, e la telefonata è registrata». Di qui la concessione del colloquio in carcere. Il primo giorno, i due non toccano l’argomento. L’indomani però Files vuota il sacco. Spiega: «Joe mi sembrava una persona per bene, mi piaceva, aveva un certo magnetismo. Così, il secondo giorno ci siamo messi a parlare seriamente». Files ricostruisce la dinamica dell’omicidio, ma non rivela a West di essere stato lui a sparareChauncey Holt, uno dei pentiti dalla collinetta. «Joe voleva sapere dove mi trovassi io. Gli dissi: metto una X sul foglio, che indica me. “I was about here”. Ma questa X non è al posto giusto. Al momento giusto, gli dissi, metterò la X dove deve stare».
Il punto di svolta? L’indizio di Files per la riesumazione del corpo di Kennedy: «Spiegai a West che il presidente era stato colpito alla testa con un proiettile speciale, al mercurio. E gli dissi che poteva usare questa informazione in tribunale, per far riesumare il corpo, perché avrebbero trovato le tracce del mercurio – che non scompaiono: rimangono per sempre». Presentata la causa, viene accettata dal tribunale. Ma West cesserà di vivere poco dopo, per i postumi di quell’intervento clinico andato storto. «Morì senza sapere che io fossi uno dei due tiratori presenti quel giorno a Dealey Plaza», si rammarica West. «Non seppe mai che io ero sulla collinetta erbosa». Morto West, parte l’operazione-documentario: è agli autori del film che, finalmente, Files confessa il suo ruolo. Lo fa in memoria di West, a sua volta attivato dall’agente Zack Shelton. Ma il documentario viene letteralmente insabbiato. «Se diffuso dai grandi network – ribadisce Mazzucco – un documentario come quello avrebbe imposto la riapertura del processo. E questo rischiava di portare alla luce le vere responsabilità dell’attentato e le trame oscure alle sue spalle». Così, si preferisce liquidare James Files come una specie di mitomane. Uno strano mitomane: muto per 28 anni. Se fosse stato in Howard Hunt, dirigente Cia "pentito" in punto di mortecerca di fama, avrebbe almeno accettato di parlare col regista Oliver Stone, autore del film “Jfk”, che lo andò a trovare per ben tre volte in carcere. Niente da fare: «Quell’uomo non mi piaceva», dice Files.
In realtà, gli elementi a conferma della versione del “mitomane” sono schiaccianti. Tanto per cominciare: l’altro killer, Nicoletti, era a Dallas dalla mattina del 22 novembre insieme al suo compare Rosselli. Li aveva portati in auto – da Chicago – lo stesso Chauncey Holt, il falsario che lavorava per la Cia, e che poi a Dealey Plaza avrebbe assunto il ruolo di “vagabondo”. Holt aveva con sé anche i falsi distintivi del servizio segreto, poi utilizzati dai due misteriosi personaggi che respinsero i curiosi dalla collinetta erbosa, permettendo a Files di allontanarsi con calma. Ricorda il killer: «Un poliziotto gettò a terra la sua moto e corse verso la collinetta con la pistola in pugno, ma due uomini in giacca e cravatta gli andarono incontro, gli mostrarono il distintivo e lo fermarono». Files spiega anche come il gangster Rosselli arrivò a Dallas: «Rosselli mi disse: sono stato fortunato, mi ha dato un passaggio un aereo della Cia». Lo conferma il pilota di quel volo, Tosh Plumlee: «La nostra squadra è partita da West Palm Beach, da un posto chiamato Lantana. Eravamo diretti a Tampa. Rosselli e altre due persone salirono a bordo, a Tampa. Andammo a New Orleans, dove due persone scesero e altre tre rimasero a Il pilota della Cia, Tosh Plumleebordo. Rosselli rimase a bordo. Andammo a Houston e, la mattina dopo (c’era brutto tempo) partimmo per Dallas. Charles Nicoletti non era su quel volo, ma era a Dallas».
Il filmato di Mazzucco si sofferma su dettagli feroci: Jackie Kennedy consegnò un pezzo di cervello (raccolto dal cofano della limousine) a uno dei medici che tentarono di salvare John al pronto soccorso. «Attraverso il cannocchiale del Fireball – racconta Files – ho visto la testa di Kennedy esplodere e la parte posteriore staccarsi: ho visto cervello, tessuti e capelli andare in tutte le direzioni, come uno spruzzo». L’agente Billy Hargis, il poliziotto che affiancava la coda della limousine, conferma: «Fui attraversato dalla “nuvola” del cervello esploso di Kennedy: sangue, ossa, roba. Più tardi un collega mi indicò un pezzetto di osso che mi era rimasto appiccicato in faccia, sopra il labbro superiore». William Harper, allora studente, trovò un frammento di osso cranico lungo 6-7 centimetri nel prato, nel punto in cui Kennedy era stato colpito da Files. Moltissimi testimoni oculari confermarono di aver visto una grande apertura nella parte posteriore del cranio di Kennedy. Poi però quello David Attlee Phillipsscempio scomparve miracolosamente, nella foto ufficiale dell’autopsia. Files se la rigira tra le mani: «Non è la foto giusta», dice, perché la parte posteriore del cranio di Kennedy, semplicemente, non esisteva più.
E Oswald? «Lo conoscevo da prima», ammette sempre Files. «Fu David Attlee Phillips a presentarmelo. Nella Cia, Phillips era il “controllore” di Oswald, nonché il mio». Fu Phillips a spedire Oswald da Files appena dopo il suo arrivo a Dallas. «Apro la porta e mi trovo Oswald davanti. Mi stupii che lui sapesse che mi trovavo lì. Gli ho chiesto: e tu che ci fai, qui? Lui: mi hanno detto di passare di qui e stare un po’ con te, nel caso avessi bisogno di aiuto. Mi disse: qualcuno vuole che ti mostri la zona». E’ Oswald a scattargli una celebre foto (a torso nudo) nella stanza del suo motel di Dallas. Oswald accompagna Files a testare il Fireball e il cannocchiale. «Lee raccoglieva i bossoli e li teneva in mano: non volevo lasciarne in giro». Files non ha mai cercato la notorietà: tutt’altro. «Per 28 anni e mezzo – dice – nessuno sapeva che io esistessi. Tutto era tranquillo, nessuno aveva mai parlato. Poi un giorno si presenta Joe West. E da quel che ho capito, è stato l’Fbi a mettere in giro il mio nome. Quindi – aggiunge – bisognerebbe chiedere a loro perché hanno messo in giro il mio nome, perché mi hanno messo in vetrina: non l’ho certo voluto io».
Rimorsi, per aver ucciso Kennedy? «Per molti anni non ne ho provati», ammette Files. «Però, più il tempo passa… il rimorso è forse per come ne ha risentito il paese, per le conseguenze». Riflette: «Forse Kennedy aveva fatto qualcosa di buono, per il paese». Si domanda: «Era onesto?». Aggiunge: «Be’, un po’ di rimorso ce l’ho: magari non per lui, ma per la famiglia, i figli. Ma al tempo in cui agimmo, pensavamo che stessimo facendo la cosa giusta». Uomo della mafia italoamericana abituato a collaborare con settori della Cia, James Files ha l’aria di un detenuto modello. Parla con pacatezza: le sue parole sono precise. La tomba di Jfk ad ArlingtonUna ricostruzione lucida. Non traspaiono turbolenze d’animo: del resto, a vent’anni Files era già un cecchino dei corpi speciali, una macchina da guerra. Un ragazzo progettato per uccidere. Gli unici sentimenti che lascia emergere sono per il detective West: un brav’uomo, messo a tacere da chi non voleva la verità.
Se fosse venuta fuori – dice Marina Oswald – il paese non l’avrebbe sopportata. Non avrebbe retto allo choc: il presidente assassinato dai suoi principali collaboratori, ormai in rotta con lui e decisi a usare killer della mafia protetti dagli 007. Un caso più che imbarazzante, e ultra-discusso: 500 libri, dozzine di film e documentari. Oggi, dice Mazzucco, la verità è finalmente affiorata: l’omicidio Kennedy resta “un mistero” solo per il pubblico di Massimo Polidoro e dei patetici debunker del Cicap. Come si fa, oggi, a sostenere ancora l’unica tesi palesemente insostenibile, cioè quella di Lee Oswald unico colpevole, assassino solitario? Non solo: dal penitenziario di Stateville, James Files – l’assassino dichiarato – aspetta ancora che qualche inquirente si decida a bussare alla sua cella. L’America ha altro a cui pensare. Solo pochi mesi fa, i media hanno letteralmente silenziato la clamorosa denuncia dei pompieri di New York, sulla “demolizione controllata” delle Torri Gemelle l’11 Settembre. Nel frattempo, John Fitzgerald Kennedy “riposa” nel cimitero di Arlington, in Virginia, da ormai 54 anni. Secondo il suo killer reo confesso, il cranio del presidente ucciso a Dallas presenterebbe ancora tracce evidenti di mercurio. Ma nessuno si prende la briga di andare a controllare.
(Massimo Mazzucco, reporter e video-maker, gestisce il blog “Luogo Comune” e, insieme a Giulietto Chiesa, la web-Tv “Contro Tv“, con programmi gratuitamente in onda ogni lunedì, mercoledì e venerdì sera. Ha firmato documentari esplosivi: “Inganno globale”, sull’11 Settembre, fu trasmesso da Mentana in prima serata su Canale 5, a “Matrix”, nel 2006. MazzuccoMazzucco si è occupato di marijuana, cure alternative per il cancro, missioni spaziali Apollo: l’ultimo lavoro, “American Moon“, dimostra che le immagini sull’”allunaggio” del 1969 furono girate in studio. Fotografo di moda e già assistente di Oliviero Toscani, Mazzucco è regista e sceneggiatore, impegnato anche a Hollywood per 15 anni. Ha diretto film con Walter Chiari, Luca Barbareschi, Florinda Bolkan, Sam Jenkins, Michael York e Scott Caan. Blogger attivo nel monitoraggio costante dei casi più controversi dell’attualità, dal 5G ai danni da vaccino, anima ogni sabato mattina la trasmissione YouTube “Mazzucco Live“, con Fabio Frabetti di “Border Nights”. «Non so con quale coraggio – dice oggi Mazzucco – Polidoro riesca a negare l’evidenza». Nel suo filmato del 2018, riguardo alle versioni alternative a quella ufficiale (falsa), il debunker afferma, testualmente: «Il fatto è che non sono mai emersi elementi concreti, prove o documenti a loro carico». Protesta Mazzucco: «Non sono mai emersi elementi concreti, prove o documenti? Certo, se facciamo eccezione per tutte le persone che hanno già confessato di aver partecipato all’omicidio Kennedy. Lo sanno anche i paracarri, ormai, che gli assassini di Kennedy hanno un nome e un cognome, e soprattutto hanno dei mandanti molto precisi, cioè il connubio criminale tra mafia e Cia, con la partecipazione silente di Johnson e la complicità di Hoover, capo dell’Fbi»).
«Da domani, quei figli di puttana dei Kennedy non mi umilieranno più». Lo confidò l’allora vicepresidente Lyndon Johnson alla sua amante texana, Madeleine Brown, la sera del 21 novembre 1963. Poche ore dopo, John Fitzegerald Kennedy sarebbe stato ucciso. Da chi? Non da Lee Harvey Oswald, ma dal vero assassino: James Files, reo confesso. Un uomo della mafia di Chicago, reclutata dalla Cia. La notizia è la seguente: dopo 28 anni di omertoso silenzio, in seguito al depistaggio ufficiale (che utilizzò il falso colpevole, Oswald), il vero assassino ha accettato di parlare. Merito di un agente dell’Fbi, Zack Shelton, impegnato a indagare su un banale traffico di auto rubate, ormai negli anni ‘80. Shelton scopre che a guidarle da Chicago al Texas è proprio Files, e si informa sul suo conto. Una voce lo avverte: quel ladro d’auto, collegato alle “famiglie” di Chicago, è implicato nell’omicidio di Dallas. Shelton informa il suo capo, Dick Stilling, che però lo ferma: lascia perdere, gli dice. Allora, l’agente Shelton passa il fascicolo a un investigatore privato di Dallas, Joe West, deciso a scovare la verità su Kennedy. Dopo un lungo assedio, West ottiene di parlare con Files, nel frattempo finito in galera. Lo avverte: è stato l’Fbi a fare il tuo nome. Al che, Files vuota il sacco. Finirà per ammettere: a far esplodere la testa di Kennedy sono stato io. Ma nessun magistrato andrà a interrogare il killer, tuttora detenuto in Illinois.
Sconcertante? E’ quello che pensa Massimo Mazzucco, e non da oggi: il suo documentario “L’uomo che uccise Kennedy” è stato trasmesso già nel 2009 da “Matrix”, su Canale 5. Non contiene solo la confessione di Files, piena di riscontri ormai verificati, ma tante altre clamorose ammissioni, che confermano in modo incontrovertibile il complotto. Kennedy “doveva” morire, perché dava fastidio a tutto l’establishment: aveva appena licenziato il potente capo della Cia, Allen Dulles, per il fallimento dell’operazione anticastrista alla Baia dei Porci, a Cuba. Un altro potente, Edgar Hoover, che fino ad allora aveva ignorato la mafia («che lo ricattava, per la sua omosessualità»), era stato costretto a fare improvvisamente la guerra alle cosche “amiche”, dopo la nomina di Bob Kennedy al ministero della giustizia. «Ce l’aveva con Kennedy anche il complesso militare-industriale, perché il presidente voleva rititarsi dal Vietnam prima che si arrivasse all’escalation di una guerra vera e propria», dice Mazzucco. A Jfk l’avevano giurata anche i grandi banchieri, perché voleva mettersi a stampare moneta di Stato, «e questo sicuramente non giova alla salute».
L’operazione, riassume Mazzucco, fu quindi organizzata dalla Cia, «che utilizzava la mafia come braccio armato». Si sarebbe attivata «una zona grigia, tra le due organizzazioni, nella quale i problemi comuni, forse anche oggi, vengono risolti in modo comune, senza fare troppo rumore». Come è emersa, la verità? In modo semplicissimo: per quel piccolo traffico di auto. «Durante le indagini – racconta l’agente Shelton – entrai in contatto con una persona che conosceva Files, e mi disse che una volta, a Dallas, passarono insieme per Dealey Plaza. Files divenne molto strano e disse qualcosa come: “Se gli americani sapessero quello che è successo davvero, nessuno sarebbe in grado di accettarlo”». Da qui l’interesse dell’investigatore, stoppato dall’Fbi ma deciso a passare il caso al detective Joe West. All’inizio, James Files era diffidente: non voleva parlargli. Cambiò idea quando West gli fece capire che la soffiata che lo tirava in ballo proveniva dall’Fbi. «Allora gli raccontai tutto – dice il killer – tranne il mio ruolo. Joe West morì senza sapere che ero stato io, a far saltare il cervello a Kennedy».
Come lo sappiamo, noi? Grazie a un documentario prodotto negli Usa, dopo la strana morte dello stesso West. Già, perché l’investigatore perse la vita in seguito a un’operazione chirurgica. File sostiene che lo abbiano ucciso: «Ho sentito dire che gli hanno dato le medicine sbagliate». Faceva paura, West? Certo: grazie alla confessione di Files, aveva presentato un fascicolo alla magistratura per far riaprire le indagini. Dalla sua, aveva due elementi formidabili: la confessione del killer, e un indizio decisivo. «Se fate riesumare il corpo di Kennedy – gli aveva detto Files – troverete tracce di mercurio: era imbottita di mercurio la pallottola esplosiva che gli sparai, e le tracce di mercurio non spariscono». Com’è noto, non c’è mai stata nessuna riesumazione: morto West, la sua denuncia è finita in soffitta. Lo stesso killer si era quasi affezionato, a quel detective: «Accetto di collaborare al documentario – disse al produttore, di Hollywood – solo a patto che i proventi finiscano alla vedova di West». Il produttore sperava che uno scoop come quello (la confessione dell’assassino di Kennedy) facesse il giro delle televisioni. Invece, i grandi network l’hanno completamente ignorato. E nessun inquirente, tuttora, ha mai trovato opportuno andare a consultare Files, sempre recluso nel suo penitenziario.
A indignare Mazzucco, che ha appena realizzato un video sul tema – è anche la clamorosa reticenza di Massimo Polidoro, del Cicap, autore di un filmato incredibilmente “nebbiogeno” girato nel 2018. Polidoro, una creatura di Piero Angela (che lo fece “formare” dall’illusionista James Randi sulle tecniche di debunking) ignora deliberamente la confessione di Files: come se non fosse mai avvenuta. Non solo: Polidoro – che accredita ancora la versione ufficiale (Lee Oswald unico colpevole) – ignora fatti gravissimi, accertati dal 1963. Per esempio: dice che a Dallas, nella stanza al sesto piano del deposito di libri dove in teoria era appostato Oswald, accanto a tre bossoli sarebbe stato subito rinvenuto un fucile Mannlicher-Carcano di fabbricazione italiana. Falso: i primissimi notiziari della Cnn parlano di un fucile tedesco Mauser 7,65, per giunta scovato solo mezz’ora dopo. Lo conferma il vice-sceriffo di Dallas, Roger Dean Craig, presente nel corso della perquisizione: «Ero lì, e il fucile trovato – ben nascosto, sotto una pila di libri – era un Mauser». Nei giorni successivi, i media cambiarono l’identità del fucile: il Mauser non avrebbe potuto sparare i proiettili del Carcano, che sono incompatibili.
Polidoro, poi, sorvola sul primo dei proiettili esplosi quel giorno a Dallas: un colpo a vuoto, finito lontanissimo dal corteo presidenziale, e comunque fuori dalla traiettoria dell’ipotetica finestra di Oswald. «Il proiettile ferì un passante», dice Polidoro. Non è esatto, lo smentisce Mazzucco: a ferire il passante fu una scheggia di cemento, schizzata via dopo l’impatto con la pallottola. Attenzione: sul marciapiede trovarono tracce di piombo e antimonio, ma non di rame (materiale con cui sono “camiciati” i proiettili del Carcano). Secondo Polidoro, quel colpo sarebbe stato sparato dal Carcano di Oswald: avrebbe colpito un albero e sarebbe stato deviato lontanissimo. Improbabile, secondo gli esperti: in quel caso, o si spezza il ramo o la pallottola resta conficcata nel tronco. Ma non ha comunque la forza di cambiare direzione, percorrere centinaia di metri e arrivare a bersaglio con la stessa forza d’urto. Mazzucco ha consultato Francesco Zanardi, istruttore di tiro della polizia italiana: «Anche se ammettiamo che ci sia stata una deviazione della traiettoria, sicuramente è impossibile che un proiettile perda la camiciatura o una parte di essa», dice Zanardi. «Ecco la prova del complotto: quel proiettile era “scamiciato”, quindi non può essere partito dal fucile di Oswald», conclude Mazzucco. «Si trattava di un proiettile diverso, partito da un fucile diverso».
Ma non è che uno dei dettagli – clamorosi – su cui Polidoro non fa chiarezza. Pur di non parlare di James Files (l’assassino reo confesso), il debunker di Piero Angela prende per buona la vecchia “storia del melone”, per spiegare lo strano movimento della testa di Kennedy, una volta colpito. E cioè: se si spara a un melone, ricadrà verso lo sparatore, perché a spingerlo all’indietro sarà la polpa, “esplosa” in avanti. «Già, ma la faccia di Kennedy non è mai esplosa». Nessun mistero, chiarisce lo stesso Files: Kennedy è stato colpito da dietro e, un istante dopo, alla tempia. Racconta: alla nuca lo colpì il suo “collega” Chuck Nicoletti, appostato nell’edificio accanto a quello di Oswald (da cui il primo movimento in avanti della testa di Kennedy). A farlo rimbalzare quasi simultaneamente indietro, invece, fu il colpo laterale esploso da Files, appostato sulla collinetta erbosa accanto al corteo presidenziale.
Ricapitolando: Oswald, quel giorno, non sparò mai. Infatti, gli trovarono tracce di polvere da sparo sulle mani, ma non sul volto (nonostante la camera di scoppio di un fucile sia a pochi centimetri dalle guance dello sparatore). A Kennedy spararono altre due persone: Nicoletti, dal sesto piano del Dal-Tex Building, e Files dalla collinetta. Oswald? Era coinvolto nel piano, ma non come killer. Fece da assistente, a Files, prima del momento decisivo. «Dovevo regolare il cannocchiale della mia arma – racconta il killer – e Lee mi portò a sparare in un luogo sicuro, una discarica. Io sparavo, lui raccoglieva i bossoli». Ecco spiegata la presenza di polvere da sparo solo sulle mani. Poi il seguito è una barzelletta. Colpito Kennedy, secondo la versione ufficiale, Oswald avrebbe lasciato la palazzina dei libri e sarebbe andato a casa. In una Dallas gremita di poliziotti alle prese con la caccia all’uomo, avrebbe avuto l’idea geniale di tornare per strada, per giunta armato di pistola. Una volta fermato per un controllo da un poliziotto, l’agente Tippit, anziché mostrargli i documenti gli avrebbe sparato, freddandolo: ma senza accorgersi del fatto che gli era caduto il portafogli, poi trovato a terra (coi documenti) accanto alla vittima.
A Oswald, capro espiatorio predestinato, in realtà fu ordinato di infilarsi in un cinema senza pagare, allarmando così la cassiera. «E in quelle ore, naturalmente, la polizia di Dallas non aveva di meglio da fare che precipitarsi in un cinema, sulle tracce di uno spettatore che era entrato senza biglietto», sottolinea Mazzucco. Barzelletta tragica, quella su Oswald, a cui Polidoro mostra di credere, visto che poi il finto assassino sarà ucciso da Jack Ruby: un uomo che, si saprà in seguito, lavorava dal 1947 per Richard Nixon, come suo informatore. Fine di Oswald, e fine della verità: per la Commissione Warren, ma anche per Polidoro (nonostante mezzo secolo di smentite e rivelazioni). Attenzione: Nixon non ha che fare con il caso solo per via di Ruby. Il giorno precedente l’omicidio Kennedy era presente a Dallas insieme a Lyndon Johnson, allora vicepresidente. «Ai Kennedy, Johnson era stato imposto da Hoover, il quale sapeva benissimo che i Kennedy non lo avrebbero confermato alla guida dell’Fbi. E lo stesso Johnson detestava i Kennedy, che lo trattavano come una cameriera». Si ritrovarono tutti, la sera prima del delitto, nella villa del petroliere Clint Murchinson: c’erano Johnson, Nixon e Hoover, e per la Cia era presente Howard Hunt, il braccio destro di Allen Dulles (il capo silurato da Kennedy). E oltre a Johnson e Nixon c’era un altro futuro presidente: George Bush, di lì a poco direttore della Cia.
Al party c’era anche Madeleine Brown, che da Johnson avrebbe avuto un figlio: è lei a confermare che, all’arrivo di Hoover, i potenti si appartarono per un’ora. Dal summit, Johnson uscì visibilmente sollevato: «Mi prese per un braccio – ricorda la donna – e mi spiegò che, dall’indomani, i Kennedy non sarebbero più stati un problema, per lui». In pubblico, più volte, li aveva definiti «i rampolli della mafia irlandese». Ma quella della Brown non è l’unica testimonianza. A rivelare dettagli imbarazzanti sono ormai moltissimi protagonisti. Uno è lo stesso Howard Hunt, poi implicato nel Watergate: in punto di morte (gennaio 2007), l’ex dirigente Cia consegna al figlio una confessione registrata in cui elenca i principali autori del complotto. Racconta tutto anche Chauncey Holt, tipografo ed esperto d’armi al servizio del mafioso Mayer Lansky, anch’esso legato alla Cia. Holt è uno dei tre famosi “vagabondi” arrestati a Dallas dopo l’omicidio e poi rilasciati. Racconta, nella sua confessione (muore nel 1997), di aver preparato per la Cia i falsi documenti di identità destinati a Oswald. Secondo Holt, Oswald è stato tradito dalla stessa agenzia di intelligence, per cui lavorava: «Ho sempre avuto simpatia per Oswald», dice. «E non mi sembra giusto che lui, o i suoi figli, debbano portarsi addosso per sempre quelle stigmate».
Anni dopo, la vedova – Marina Oswald – si espresse in modo esplicito: «Vorrei che le persone che ne hanno il potere, e che accusano Lee, dimostrassero finalmente la sua colpevolezza. Mettano sul tavolo le prove». Nel documentario che gli americani non hanno potuto vedere, e che Mazzucco utilizza largamente per la sua ricostruzione del 2009, abbondano invece le prove a carico dei personaggi che ruotarono attorno a Oswald. Indizi convergenti, conferme. Anello di congiunzione: il vero killer, James Files, ora detenuto a Stateville (30 anni, per tentato omicidio di due poliziotti). Nel 1963, Files è autista e guardia del corpo di Chuck Nicoletti, killer mafioso della “famiglia” di Chicago comandata da Tony Accardo e Sam Giancana. Ha solo 21 anni ma è stato oltre un anno nelle forze speciali Usa in Laos. Racconta: nel novembre ‘63 lo mandano a Dallas a ispezionare Dealey Plaza, dove Chuck Nicoletti e il “collega” Johnny Rosselli sono stati incaricati di uccidere Kennedy. «Dovevo controllare tutto, passaggi di tram e treni», dice Files. «Loro conoscevano già gli orari del corteo presidenziale».
La mattina del 22, Nicoletti chiede a Files di fargli da tiratore di riserva. Al che, Files sceglie il luogo dove appostarsi: la sommità della collinetta erbosa, dietro una staccionata. Sembrerà un ferroviere, nessuno gli farà caso. Accompagnato da Rosselli, Nicoletti avrebbe sparato dal Dal-Tex Building, palazzo rosso di sei piani, accanto al famoso Book Depository di Oswald (un palazzo giallo, sempre di sei piani). Il compito di Files: sparare solo all’ultimo momento, e solo se Nicoletti (dal Dal-Tex Building) non fosse riuscito a colpire Kennedy alla testa. Arma: un fucile a canna corta Remington Xp-100, soprannominato Fireball. Piccolo, munito di cannocchiale, comodo da riporre in una valigetta. Munizioni: pallottole calibro 22 modificate al mercurio, preparate da uno specialista di Chicago. «La punta limata e forata col trapano, il mercurio inserito col contagocce». Pallottole poi «richiuse con della cera, in modo che esplodessero all’impatto». Nicoletti non è convinto: «Perché usi il Fireball, che ha un solo colpo?». Risponde Files: «Be’, se devo aspettare che tu abbia finito, quando toccherà a me avrò solo il tempo di sparare giusto un colpo. Non potrei mai spararne un secondo».
All’arrivo del corteo presidenziale da Elm Street, racconta Files, hanno cominciato a esplodere colpi da dietro. «Ho pensato che fosse Nicoletti, perché c’era lui nell’edificio, e sapevo che Johnny Rosselli era con lui. Sentivo partire i colpi, ma nonostante il presidente venisse colpito io lo consideravo mancato, perché sapevo che dovevamo colpirlo alla testa». Files ha Kennedy nel mirino del cannocchiale: «Capivo che era stato colpito nel corpo, ma non sapevo in che punto. Ho visto il corpo piegarsi, poi piegarsi ancora. Ho sentito un altro colpo andato a vuoto. Non dovevamo colpire nessuno eccetto Kennedy». Invece, il governatore John Connally era stato appena colpito, a sua volta, da Nicoletti: Files lo intuì, pur inquadrando quasi solo la testa di Kennedy. «Quando sono arrivato al limite del mio campo di tiro ho puntato sul lato sinistro della testa, perché se avessi aspettato ancora Jacqueline Kennedy sarebbe entrata nella traiettoria, e mi avevano detto che a lei non doveva succedere niente», racconta il tiratore. «In quel momento ho pensato: questa è l’ultima possibilità che ho di sparare». Poi spiega: «Io e Nicoletti abbiamo sparato quasi nello stesso istante: e la testa di Kennedy è andata prima avanti e poi indietro. Il proiettile di Nicoletti deve aver colpito un millesimo di secondo prima del mio, e questo ha spinto la testa di Kennedy in avanti. Così ho mancato l’occhio sinistro e ho colpito la tempia sinistra».
Perché il mondo continua a non sapere quasi niente, della confessione dell’assassino di Kennedy? Perché il caso non è mai stato riaperto, risponde Mazzucco: il detective Joe West non è sopravvissuto a lungo, dopo aver presentato la denuncia sulla base della confessione di Files. Che peraltro non era stato facile ottenere: si erano scritti, e Files negava di essere implicato nel caso. Un giorno, West riesce a telefonargli. «Ha tre minuti per convincermi del motivo per cui dovrei parlare con lei», lo avverte il killer. West inizia a parlare, ma Files lo ferma subito: «Stop, stai toccando molti argomenti delicati, e tutte le telefonate sono registrate». Di qui la concessione del colloquio in carcere. Il primo giorno, i due non toccano l’argomento. L’indomani però Files vuota il sacco. Spiega: «Joe mi sembrava una persona per bene, mi piaceva, aveva un certo magnetismo. Così, il secondo giorno ci siamo messi a parlare seriamente». Files ricostruisce la dinamica dell’omicidio, ma non rivela a West di essere stato lui a sparare dalla collinetta. «Joe voleva sapere dove mi trovassi io. Gli dissi: metto una X sul foglio, che indica me. “I was about here”. Ma questa X non è al posto giusto. Al momento giusto, gli dissi, metterò la X dove deve stare».
Il punto di svolta? L’indizio di Files per la riesumazione del corpo di Kennedy: «Spiegai a West che il presidente era stato colpito alla testa con un proiettile speciale, al mercurio. E gli dissi che poteva usare questa informazione in tribunale, per far riesumare il corpo, perché avrebbero trovato le tracce del mercurio – perché non scompaiono, rimangono per sempre». Presentata la causa, viene accettata dal tribunale. Ma West morirà poco dopo, per i postumi di quell’intervento clinico andato storto. «Morì senza sapere che io fossi uno dei due tiratori presenti quel giorno a Dealey Plaza», si rammarica West. «Non seppe mai che io ero sulla collinetta erbosa». Morto West, parte l’operazione-documentario: è agli autori del film che, finalmente, Files confessa il suo ruolo. Lo fa in memoria di West, a sua volta attivato dall’agente Zack Shelton. Ma il documentario viene letteralmente insabbiato. «Se diffuso dai grandi network – dice Mazzucco – un documentario come quello avrebbe imposto la riapertura del processo. E questo rischiava di portare alla luce le vere responsabilità dell’attentato e le trame oscure alle sue spalle». Così, si preferisce liquidare James Files come una specie di mitomane. Uno strano mitomane: muto per 28 anni. Se fosse stato in cerca di fama, avrebbe accettato di parlare col regista Oliver Stone, autore del film “Jfk”, che lo andò a trovare per ben tre volte in carcere. Niente da fare: «Quell’uomo non mi piaceva», dice Files.
In realtà, gli elementi a conferma della versione del “mitomane” sono schiaccianti. Tanto per cominciare: l’altro killer, Nicoletti, era a Dallas dalla mattina del 22 novembre insieme al suo compare Rosselli. Li aveva portati in auto – da Chicago – lo stesso Chaunsey Holt, il falsario che lavorava per la Cia, e che poi a Dealey Plaza avrebbe assunto il ruolo di “vagabondo”. Holt aveva ha con sé anche i falsi distintivi del servizio segreto, utilizzati dai due misteriosi personaggi che respinsero i curiosi dalla collinetta erbosa, permettendo a Files di allontanarsi con calma. Ricorda il killer: «Un poliziotto gettò a terra la sua moto e corse verso la collinetta con la pistola in pugno, ma due uomini in giacca e cravatta gli andarono incontro, gli mostrarono il distintivo e lo fermarono». Files spiega anche come il gangster Rosselli arrivò a Dallas: «Rosselli mi disse: sono stato fortunato, mi ha dato un passaggio un aereo della Cia». Lo conferma il pilota di quel volo, Tosh Plumlee: «La nostra squadra è partita da West Palm Beach, da un posto chiamato Lantana. Eravamo diretti a Tampa. Rosselli e altre due persone salirono a bordo, a Tampa. Andammo a New Orleans, dove due persone scesero e altre tre rimasero a bordo. Rosselli rimase a bordo. Andammo a Houston e, la mattina dopo (c’era brutto tempo) partimmo per Dallas. Charles Nicoletti non era su quel volo, ma era a Dallas».
Il filmato di Mazzucco si sofferma su dettagli feroci: Jackie Kennedy consegnò un pezzo di cervello (raccolto sul cofano della limousine) a uno dei medici che tentarono di salvare John al pronto soccorso. «Attraverso il cannocchiale del Fireball – racconta Files – ho visto la testa di Kennedy esplodere e la parte posteriore staccarsi: ho visto cervello, tessuti e capelli andare in tutte le direzioni, come uno spruzzo». L’agente Billy Hargis, il poliziotto che affiancava la coda della limousine, conferma: «Fui attraversato dalla “nuvola” del cervello esploso di Kennedy: sangue, ossa, roba. Più tardi un collega mi indicò un pezzetto di osso che mi era rimasto appiccicato in faccia, sopra il labbro superiore». William Harper, allora studente, trovò un frammento di osso cranico lungo 6-7 centimetri nel prato, nel punto in cui Kennedy era stato colpito da Files. Moltissimi testimoni oculari confermarono di aver visto una grande apertura nella parte posteriore del cranio di Kennedy. Poi però quello scempio scomparve miracolosamente, nella foto ufficiale dell’autopsia. Files se la rigira tra le mani: «Non è la foto giusta», dice, perché la parte posteriore del cranio di Kennedy, semplicemente, non esisteva più.
E Oswald? «Lo conoscevo da prima», ammette sempre Files. «Fu David Attlee Phillips a presentarmelo. Nella Cia, Phillips era il “controllore” di Oswald, nonché il mio». Fu Phillips a spedire Oswald da Files appena dopo il suo arrivo a Dallas. «Apro la porta e mi trovo Oswald davanti. Mi stupii che lui sapesse che mi trovavo lì. Gli ho chiesto: e tu che ci fai, qui? Lui: mi hanno detto di passare di qui e stare un po’ con te, nel caso avessi bisogno di aiuto. Mi disse: qualcuno vuole che ti mostri la zona». E’ Oswald a scattargli una foto (a torso nudo) nella stanza del suo motel di Dallas. Oswald accompagna Files a testare il Fireball e il cannocchiale. «Lee raccoglieva i bossoli e li teneva in mano: non volevo lasciarne in giro». Files non ha mai cercato la notorietà: tutt’altro. «Per 28 anni e mezzo – dice – nessuno sapeva che io esistessi. Tutto era tranquillo, nessuno aveva mai parlato. Poi un giorno si presenta Joe West. E da quel che ho capito, è stato l’Fbi a mettere in giro il mio nome. Quindi – aggiunge – bisognerebbe chiedere a loro perché hanno messo in giro il mio nome, perché mi hanno messo in vetrina: non l’ho certo voluto io».
Rimorsi, per aver ucciso Kennedy? «Per molti anni non ne ho provati», ammette Files. «Però, più il tempo passa… il rimorso è forse per come ne ha risentito il paese, per le conseguenze». Riflette: «Forse Kennedy aveva fatto qualcosa di buono, per il paese». Si domanda: «Era onesto?». Aggiunge: «Be’, un po’ di rimorso ce l’ho: magari non per lui, ma per la famiglia, i figli. Ma al tempo in cui agimmo, pensavamo che stessimo facendo la cosa giusta». Uomo della mafia italoamericana abituato a collaborare con settori della Cia, James Files ha l’aria di un detenuto modello. Parla con pacatezza: le sue parole sono precise. Una ricostruzione lucida. Non traspaiono turbolenze d’animo: del resto, a vent’anni Files era già un cecchino dei corpi speciali, una macchina da guerra. Un ragazzo progettato per uccidere. Gli unici sentimenti sono per il detective West: un brav’uomo, messo a tacere da chi non voleva la verità.
Se fosse emersa – dice Marina Oswald – il paese non l’avrebbe sopportata. Non avrebbe retto allo choc: il presidente assassinato dai suoi principali collaboratori, ormai in rotta con lui e decisi a usare killer della mafia protetti dagli 007. Un caso più che imbarazzante, e ultra-discusso: 500 libri, dozzine di film e documentari. Oggi, dice Mazzucco, la verità è finalmente emersa: l’omicidio Kennedy resta “un mistero” solo per Massimo Polidoro e i patetici debunker del Cicap. Non solo: dal penitenziario di Stateville, James Files – l’assassino – aspetta ancora che qualche inquirente si decida a bussare alla sua cella. L’America ha altro a cui pensare: e pochi mesi fa i media hanno letteralmente silenziato la clamorosa denuncia dei pompieri di New York, sulla “demolizione controllata” delle Torri Gemelle l’11 Settembre. Nel frattempo, John Fitzgerald Kennedy “riposa” nel cimitero di Arlington, in Virginia, da ormai 54 anni. Secondo il suo assassino, il cranio del presidente ucciso a Dallas presenterebbe ancora tracce evidenti di mercurio. Ma nessuno si prende la briga di andare a controllare.

08 gennaio 2020

Bettino Craxi: quando la storia è davvero maestra di vita


Suo padre era una gran brava persona. Piccolo avvocato di San Fratello, dove nascono i migliori cavalli siciliani della omonima razza, emigrò in Lombardia per sfuggire alle persecuzioni del prefetto Cesare Mori nei confronti degli antifascisti dichiarati.
Iscritto da sempre al PSI, fu il primo prefetto di Como dopo la Liberazione.
In un clima di mangia-mangia, che passa anche per la privatizzazione del tesoro di Dongo che consentì al PCI di costruire la storica sede di via Delle Botteghe Oscure, lui rimase povero.
Preciso ai più giovani dei miei 25 lettori che non sono chiacchiere: Togliatti era solito prendere in giro la memoria di Mussolini affermando che il Papa lo aveva truffato quando gli aveva regalato un piatto d’oro massiccio, per i servigi resi alla Chiesa con la sottoscrizione del Concordato.
Spiegava che si trattava di argento rivestito d’oro, comunemente detto vermeille.
Il resto dell’oro, comprese alcune decine di chili di fedi donate alla patria, era stato tutto trasformato in piccoli lingotti in una fonderia di proprietà della famiglia Falk, ubicata a Domaso.
L’avvocato Craxi’ (è la pronuncia originaria di questo cognome siciliano) rimase povero e quando suo figlio Benedetto, detto Bettino, che aveva il vizio del gioco d’azzardo ed era pieno di debiti, decise di concorrere alla carica di segretario amministrativo del PSI per la provincia di Milano, perché notoriamente era l’ incarico più lucroso d’Italia per un socialista, il suo biscazziere di fiducia, Francis Turatello, pensò che non fosse un cattivo affare finanziarlo perché, corrompendo gli alti vertici del partito, l’incarico fosse assegnato proprio a lui.
Costo’ 50 milioni di lire e Turatello, nel supercarcere di Nuoro, dove scontava l’ergastolo, dopo il primo bicchiere di vino lo raccontava sempre ad alta voce a tutti gli altri detenuti.
Bettino non poté più tollerarlo, era diventata una questione di sicurezza nazionale. E fu così che durante l’ora d’aria Pasquale Barra , Vincenzo Andraous ed Antonino Faro, con i coltelli forniti loro da Salvatore Maltese, sbudellarono Turatello, e la leggenda vuole che avessero giocato a calcio col suo cuore.
Erano tutti e quattro appartenenti alla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo e sembra che Cutolo abbia voluto fare un favore ad Angelo Epaminonda, il catanese che voleva sostituire Turatello nella gestione delle bische clandestine.
La leggenda vuole che quando Turatello nascondeva Graziano Mesina a Milano, quest’ultimo abbia rapinato la bisca clandestina Brera Bridge Club e sia saltato su un tavolo gridando :”Visto cosa capita a chi viene a giocare in un posto dove si fanno le rapine? Forse vi conviene andare a giocare in Corso Sempione. Lì di rapine non se ne fanno”.
La Milano da bere sostiene che Bettino e suo cognato Pillitteri, oltre che dei soldi che si stavano giocando, siano stati derubati anche dei loro due primi Rolex, che entrambi portavano al polso.
Non voglio seguire passo per passo tutto il cursus honorum di Bettino, e mi sposto rapidamente all’uscita del PSI dal governo di centro-sinistra, con l’affermazione:”Mai più al governo se non con il PCI”.
In quel momento era stato nominato segretario del partito proprio il giovane Bettino, perché le litigiose correnti, compresa la famosa “sinistra ferroviaria” dell’onorevole Signorile, non avevano trovato un accordo, ed il giovanotto, che rappresentava solo se stesso o poco più, era considerato un uomo che avrebbe gestito l’ordinaria amministrazione senza fare ombra ai big del partito.
Credo che nella fama di valutazioni clamorosamente sbagliate che contraddistingue la lunghissima storia del PSI, sia l’errore più clamoroso, insieme con la carriera fatta fare a Mussolini.
Con singolare tempestività fu sequestrato il figlio dell’onorevole Di Martino per la cui liberazione venne chiesto un miliardo di lire.
Bettino aprì subito una pubblica sottoscrizione fra gli imprenditori amici del partito, ed in particolare un piemontese, proprietario della Venchi Unica, raggiunse subito quella cifra in contanti, e con un aereo privato mando’ la sua segretaria a Ciampino, dove la ragazza consegnò la valigetta che conteneva la somma al dottor Guy Vaudagna, segretario del presidente della Banca Nazionale del Lavoro, Nerio Nesi.
Quest’ultimo non volle neanche aprire la valigetta e disse al segretario di portarla, così com’era, all’ onorevole democristiano Attilio Ruffini, perché, a suo dire, era lui che aveva trovato il canale di negoziazione con i rapitori di Guido De Martino.
Sono così preciso, perché Guy Vaudagna e Neri Nesi li ho interrogati personalmente io dieci anni dopo a Milano.
La famosa segretaria non era rintracciabile perché, emigrata in Sud America, era scomparsa come se inghiottita da un buco nero.
Ruffini invece negò tutto, dichiarando che si trattava di calunnie del PSI contro la Democrazia Cristiana.
L’onorevole De Martino, invece, disse che della colletta organizzata da Craxi lui non aveva visto una lira e che il miliardo pagato ai sequestratori era stato raccolto fra imprenditori napoletani amici suoi.
Tutte le banconote erano state fotografate ed accadde una cosa singolare: tre giorni dopo la liberazione, due di esse erano state spese a Rimini da un emigrante italiano in Germania, che si trovava nella località balneare per le sue vacanze estive.
L’uomo, interrogato, spiegò che a Francoforte, dove viveva, era andato presso la propria banca per cambiare un po’ di marchi il lire. Se ne deduce che, poche ore dopo il pagamento del riscatto, esso già si trovava, in tutto o in parte, in una banca della Germania Federale.
Cosa vuol dire? Spiegatemelo voi, io sono solo uno sbirro di campagna.
Anche gli esecutori materiali del sequestro furono arrestati.
Si trattava di due giovani scippatori del rione Sanità e di un vecchio pregiudicato di Spaccanapoli.
I tre avevano tenuto il sequestrato nella villa campana di un architetto napoletano iscritto al PSI. Era un immobile abbandonato di pregio e l’ architetto dichiarò di aver fornito loro le chiavi d’ingresso e dei cancelli, perché si erano impegnati a cercare un eventuale acquirente.
Anche l’architetto, comunque, è emigrato in Venezuela ed è scomparso nello stesso buco nero della segretaria.
Il primo degli scippatori, quando fu arrestato e venne portato davanti al sostituto procuratore dottor Marmo, aveva l’aria di chi volesse pentirsi anche di essere nato.
Erano presenti il carabiniere che batteva a macchina ed anche un uditore giudiziario.
Dopo pochi minuti, a richiesta di Marmo, l’uditore giudiziario ed il militare dell’Arma furono invitati ad uscire ed il magistrato rimase solo col giovanotto per circa mezz’ora.
Quando fu ripresa la verbalizzazione, la sua sostanza era questa: De Martino possedeva un tesoro in Svizzera e questo era il motivo del sequestro di suo figlio. E la notizia apparve subito sui giornali. De Martino, dopo la liberazione di suo figlio, si ritirò a vita privata, e Bettino, giovane segretario di transizione nominato solo per il disbrigo degli affari correnti, fu riconfermato segretario con pieni poteri, che usò sempre per tenere il PCI lontano dal potere. Sereno Freato, il segretario di Aldo Moro, racconta che tornando a Roma da Napoli, dove aveva avuto un colloquio privato con De Martino, gli disse che l’indomani avrebbe chiesto misure di tutela per i propri figli. Ed invece fu proprio lui ad essere sequestrato. Il sequestro De Martino come prova generale del sequestro Moro, visto in chiave anti PCI.
In ogni caso i tre responsabili materiali, grazie al loro pentimento, furono condannati al minimo della pena.
Tra le dichiarazioni che avevano reso, c’era quella che, prima ancora dell’attuazione del sequestro, si erano messi d’accordo con tre delinquenti milanesi, Bossi Ugo, Corniglia Federico e Naviglia Umberto, cui erano destinate le banconote del riscatto, per essere riciclate.
Un accordo raggiunto prima del sequestro comporta per tutti l’accusa di concorso in sequestro di persona.
I magistrati napoletani, misteriosamente, la pensavano diversamente. Stralciarono la posizione di Bossi, Corniglia e Naviglia e la mandarono alla Procura di Milano, a loro modo di vedere territorialmente competente.
Lì langui’ per dieci anni, nel cassetto più riposto del procuratore Mauro Gresti, che all’epoca mi disse di essere grande amico personale di Nerio Nesi.
Quando finalmente si impadronì del fascicolo il giudice istruttore Giorgio Della Lucia, questi , seguendo le indicazioni del marsalese colonnello Cucchetti, che aveva in mente da sempre l’arresto di Bettino, mi fece mettere sotto controllo il telefono di Marcello Dell’Utri, e mi mandò a Roma a convocare Guy Vaudagna e Nerio Nesi, notificando loro il decreto di sequestro del conto corrente del PSI mantenuto presso la BNL.
L’ordine era firmato un giorno prima dallo scoccare de decimo anno dalla consumazione del sequestro e fu da me notificato esattamente il giorno dopo.
Quel marpione di Nesi se ne accorse e mi disse :” Capitano, spero che non abbiamo già mandato tutto al macero”.
Evidentemente non c’era niente di compromettente in quel conto, perché, una settimana dopo, Nesi e Vaudagna si presentarono davanti all’ufficio di Della Lucia con un trolley pieno di carte, trascinato dal segretario. Fecero due ore di anticamera, perché il giudice era andato a mangiare con il finanziere che svolgeva le mansioni di dattilgrafo e la sua segretaria giudiziaria.
Dopo un’ora Vaudagna voleva andarsene, incaricando me di fare presente al giudice che loro erano arrivati puntuali, ma Nesi gli dette l’ordine perentorio: ” Non deve mancare per noi!”.
Ed infine, alle 14.15, Della Lucia li ricevette.
Ora sono molto stanco, questa influenza che non se ne vuole andare mi tortura e cerco di trovare una via d’uscita che non vi lasci troppo insoddisfatti.
Il sette o l’otto gennaio del 1987 Dell’Utri ricevette una telefonata da Silvio Berlusconi che verso le 18.30 gli comunicava, da Arese, che Bettino “profumato come un caprone” se ne era appena andato, incazzatissimo, perché le due ragazze di Drive In che gli avevano dato appuntamento la notte di Capodanno per consumare con lui un pomeriggio d’amore, non si erano fatte vive.
Potrei raccontarvi del parrucchiere di Corso Buenos Aires cui Dell’Utri faceva al telefono continue scenate di gelosia. Potrei raccontarvi della misteriosa influenza che aveva su Dell’Utri l’onorevole Staiti di Cuddia.
Potrei ancora narrarvi della misteriosa potente influenza del campione motonautico Renato Della Valle e dell’ansia di Dell’Utri per trovare un elicottero che portasse Della Valle al traguardo della Viareggio-Bastia-Viareggio, perché premiasse personalmente il vincitore.
Tante altre cose potrei raccontarvi ancora. compreso il fatto che il giudice Della Lucia fu corrotto da Filippo Alberto Rapisarda e dall’avvocatessa sua moglie. La prima se lo portò a letto e gli fece perdere letteralmente la testa, mentre suo marito lo tempestava di Rolex d’oro massiccio da collezione, che il giudice millantava con me essere l’eredità di suo padre. Condannato e rimosso non so che fine abbia fatto.
Concludo con una considerazione.
Quando morì il vecchio avvocato Craxi’, dopo una lunga agonia, al suo capezzale c’era solo il nipote Bobo, che vegliò il moribondo per ore e si sciolse in un pianto disperato subito dopo la dipartita.
Vi sottaccio delle proprietà immobiliari di Bobo nel centro storico di Milano per non alienarvene la simpatia.
Su Wikipedia, l’enciclopedia dei fanfaroni, leggerete che Bettino era alto 192 cm. Vi assicuro che ce ne sono dieci di troppo.
Quello che non ci troverete me lo ha raccontato Elio Licari di Marsala, e me lo ha confermato l’Ammiraglio Martini.
Durante la sua lunga estate ad Hammamet, Bettino riceveva quelli che sarebbe stato imbarazzante accogliere a Palazzo Chigi .
Da Marsala soprattutto Pietro Pizzo e lo stesso Elio Licari.
Credo che il restauro del seicentesco Teatro Comunale sia nato sotto le palme della residenza tunisina di Bettino.
Ed anche la presidenza dell’Ente Teatro a Licari, che chiamava Maestro Giorgio Streilher, sia frutto di una negoziazione non estranea a cospicui rimborsi spese.
Io sono uno sbirro di campagna e già all’epoca avevo capito che gli intrallazzi dei socialisti erano al di sopra delle mie possibilità.
Quindi mi limitavo a perseguire i mafiosi all’antica, con discreto successo.
Il mio successore, capitano Fraccalvieri, che aveva un passato di grande guerriero nel nostro Battaglione Paracadutisti, ed era geloso di me, quando due giovani brigadieri senza macchia e senza paura gli dissero di essere certi che Licari fosse un corrotto, elaborò insieme con loro un piano molto ardito.
Scrissero una lettera anonima in cui chiedevano al presidente dell’Ente Teatro una tangente di 50 milioni di lire.
Licari andò all’appuntamento senza i 50 milioni ma non trovò il capitano, che era rimasto in ufficio a coordinare.
I due sottufficiali, invece, ritennero che i loro miniregistratori avessero raccolto delle dichiarazioni che erano sicure ammissioni di colpa.
Dichiararono quindi Licari in stato di fermo di polizia giudiziaria e lo portarono dal Procuratore Borsellino.
A lui, Licari, nel dichiararsi vergine come una novizia, disse che sul tavolo della cucina di casa sua aveva lasciato una memoria in cui dichiarava di essere oggetto di una tentata estorsione e che era andato all’appuntamento solo per vedere fino a che punto si sarebbero spinti gli estorsori.
Borsellino non poté far altro che scusarsi con il Licari e rimandarlo a casa.
Il PSI marsalese si strinse intorno al Licari e la montagna del fango contro i due sottoufficiali li ha immersi nel gorgo che ha rovinato per sempre la loro vita professionale.
Tutti, magistrati e superiori, sapevano che avevano ragione da vendere, e tutti attribuivano al Fraccalvieri la responsabilità di averli spinti su una china così perigliosa, restandosene a guardare alla finestra.
Succedeva nell’87 e solo oggi, trent’anni dopo, essi sono usciti completamente puliti da tutti i procedimenti intrapresi contro di loro.
Licari venne a Milano per incontrarsi con Streilher e volle che mangiassimo insieme.
Sperava di ottenere da me informazioni utili per screditare i miei ex sottoposti.
Io gli dissi che erano due gran bravi giovani, e non potendo dirgli che lo ritenevo comunque corrotto, parlai di commedia degli equivoci, in cui ognuno aveva pensato il peggio dell’altro, fino al punto da farsi un un’irreparabile danno reciproco.
Attribuii comunque ogni colpa a Fraccalvieri, che non aveva avuto la sagagia di comprendere che il buon ufficiale combatte solo le guerre che è certo di potere vincere.
Nella circostanza Licari mi rivelò che Bettino, ogni estate, si allontanava da Hammamet ed andava ad Hamman, a bordo del jet personale di Re Hussein di Giordania, che gli metteva a disposizione una villetta alla periferia della città, dove egli intratteneva rapporti personali con i capi della resistenza palestinese.
L’Ammiraglio Martini, molti anni dopo, me lo confermò, aggiungendo che il jet Executive del re, durante la sua lunga crociera, era scortato da aerei da caccia israeliani, che erano perfettamente al corrente di quanto stava accadendo sotto il loro naso.
Resto convinto che Bettino è sopravvissuto a Mani Pulite, pur in esilio, per tutti i loschi segreti statunitensi che custodiva.
Via Bettino Craxi? Perché no? Una traversa che congiunga via Giulio Andreotti con via Benito Mussolini.