27 dicembre 2019

A Belfast avevo visto i primi scontri e i primi morti. Mi avevano preparato per il Medio Oriente


Rispetto al Medio Oriente, l’Irlanda del Nord era una destinazione tranquilla. Tragica, settaria, brutale, ipocrita; la piccola guerra civile, per quello che era, era ciò che quelli dell’intelligence militare britannica definivano un conflitto a “bassa intensità.” Noi giornalisti scrivevamo le nostre storie. Poi tornavamo nei nostri alloggi in affitto di Belfast. E vivevamo (o almeno così pensavamo) nel Regno Unito.
Ho assistito alle mie prime, vere battaglie in Falls Road e a Derry e ho corso per tutta Belfast nel Venerdì di Sangue, nel luglio 1972, e ho visto i resti di esseri umani, dopo che 20 bombe dell’IRA erano esplose in tutta la città, in un’ora e mezza. C’erano stati nove morti, cinque civili, la maggior parte di loro alla stazione degli autobus. L’IRA aveva affermato di aver avvisato. La polizia aveva detto di essere oberata di lavoro. Ero furioso quando avevo visto il risultato. Era stato quando avevo capito che la guerra non è una questione di vittoria o di sconfitta, ma di fallimento totale dello spirito umano, da entrambe le parti.
Sì, è a Belfast che ho visto i miei primi cadaveri: un soldato britannico che cadeva dal retro del suo veicolo blindato ad Andersonstown, il suo fucile che rimbalzava sull’asfalto, ucciso da un Provisional dell’IRA con i capelli molto lunghi che si nascondeva dietro una pattumiera; e un paramilitare protestante che giaceva nella bara, circondato da persone in lutto con la camicia bruna, che erano, come si sarebbe poi scoperto, i suoi assassini. Il padre aveva sollevato la mano del figlio morto per farmi vedere che gli avevano spezzato le dita.
Ma nell’Irlanda del Nord (in preparazione per quello che sarebbe poi successo in Medio Oriente, cosa che allora non avrei neanche potuto immaginare) c’era stata soprattutto l’esperienza di confrontarsi con i funzionari governativi e i colonnelli dell’esercito britannico, quando mentivano mentre cercavo di farli parlare. Se riportavo la notizia di soldati britannici che brutalizzavano i Cattolici, mi dicevano che ero “pro-IRA” o “filo-terrorista” (un’accusa quest’ultima a cui mi sarei tristemente abituato in Medio Oriente), mentre quando viaggiavo con le pattuglie dell’esercito britannico o della polizia mi stavo alleando con le “forze della Corona,” o ero malignamente accusato di essere un funzionario dell’intelligence.
E quando avevo scritto un articolo che aveva offeso l’ufficiale in capo delle truppe britanniche nell’Irlanda del Nord, ero stato bandito dai briefing dell’esercito, un boicottaggio che, in seguito, avevo a mia volta imposto all’esercito, quando avevano deciso di perdonare le mie trasgressioni. Rifiutarsi di parlare con i colonnelli era stata la decisione giusta, perché, dopo averla presa,  capitani e maggiori freschi di nomina mi affiancavano nelle strade di Belfast e mi consegnavano buste con istruzioni militari riservate che ritenevano moralmente discutibili.
Quando avevo ricevuto i documenti che indicavano che gli Inglesi intendevano ricattare i politici protestanti che non avevano intenzione di sostenere la loro politica nell’Irlanda del Nord, avevo pubblicato la storia. Due giorni dopo, tre detective si erano presentati a casa mia prima dell’alba per interrogarmi sulle mie fonti. Ero fuggito nella Repubblica Irlandese, mi ero registrato in un hotel di Dublino ed ero stato subito affrontato dal funzionario del MI6 dell’ambasciata britannica. Avevo minacciato di chiamare la polizia irlandese se non avesse smesso di molestarmi. Se n’era andato. All’epoca non era stato così divertente come sembra adesso. Ma era stata una lezione. Avevo poi pubblicato la storia dell’intrusione da parte del funzionario dell’ambasciata.
Mai, mai, non arrendersi mai, come aveva detto una volta Churchill (che non è mai stato un mio eroe, dovrei aggiungere, anche se il suo ritratto era appeso sopra il camino nella biblioteca di mio padre), ma, in questa sfida, l’uomo del 1940 aveva ragione. Non cedere mai all’autorità. Quando hai una grande storia e chi ha veramente il potere vorrebbe calpestarti (qualche volta con l’aiuto dei tuoi stessi colleghi), non scusarti mai. Rimani fedele alla storia. Avrei imparato anni dopo (quando ero a Beirut, in guerre in cui solo la mia esperienza di Belfast mi avrebbe aiutato a sopravvivere) che i documenti ricattatori che erano venuti in mio possesso e che avevo pubblicato erano solo una piccola parte di quello che sarebbe poi diventato lo scandalo di Kincora, una sordida storia in cui era coinvolta l’intelligence britannica, che avrebbe fornito bambini orfani a noti pedofili, per poi ricattarli a livello politico. Una feroce disputa su ciò che è accaduto a Kincora continua ancora oggi, con un’inchiesta governativa già respinta dalle vittime.
Molti di quelli che avevo intervistato a Belfast e a Derry (o Londonderry, come la chiamavamo allora), crudeli rappresentanti dell’UDA, spietati Provisional, uomini delle pubbliche relazioni governative, vecchi soldati, sono già morti. Ma è stato (pensandoci a mente fredda) un importante campo di allenamento per i tradimenti, i massacri e il cinismo del Medio Oriente. Noi giornalisti dobbiamo combattere i Trump così come i dittatori arabi, i lobbisti filo-israeliani e le fazioni mussulmane e, talvolta, certo, tollerare anche la rabbia dei nostri stessi colleghi.
Il passaggio da Belfast [al Medio Oriente] non è stato dalla padella alla brace. E’ stato da una violenza immaginabile ad una crudeltà inimmaginabile su larga scala. Sono grato per quegli anni nell’Irlanda del Nord. Penso che mi abbiano aiutato a sopravvivere in quelli successivi.
Torno ancora a Belfast, per tenere conferenze sul Medio Oriente o per stare con il mio vecchio amico David McKittrick, che era poi diventato il corrispondente dell’Independent a Belfast, e vorrei anche che ci fosse un Buon Venerdì per il Medio Oriente. Ahimè, non ci sarà. Gli accordi di pace non vanno molto lontano. Ma ora a Belfast, quando sono lì, vedo le vecchie inimicizie scongelate e riscaldate dal folle desiderio del Regno Unito di suicidarsi sulla Brexit. E temo che la creatura di Downing Street e i suoi nani di governo faranno a pezzi l’Irlanda del Nord. Io prego di no. Ma, se così fosse, lo vedrò standomene al sicuro in Medio Oriente.
Robert Fisk

26 dicembre 2019

Wall Street Journal: i soldi per i poveri restano in Vaticano

Obolo di San PietroMentre Papa Francesco predica contro i mali della disuguaglianza economica e i peccati del capitalismo, la Chiesa cattolica sottrae all’Obolo di San Pietro oltre 50 milioni di dollari l’anno per tappare i buchi del proprio bilancio ormai fuori controllo. E tutto questo, scrove Tyler Durden su “Zero Hedge”, dopo aver pagato, in diversi decenni, oltre 3 miliardi di dollari di risarcimenti nei processi contro i preti pedofili in tutto il mondo. Secondo il “Wall Street Journal”, la maggior parte dei circa 55 milioni di dollari che la Chiesa riceve ogni anno va a «colmare il buco nel bilancio amministrativo del Vaticano, mentre solo il 10% viene speso per opere di beneficenza». Questa assai poco pubblicizzata indiscrezione su come la Santa Sede spenda l’Obolo di San Pietro, «conosciuta solo da alcuni alti funzionari vaticani», secondo il quotidiano statunitense «sta suscitando tra alcuni leader della Chiesa cattolica il timore che i fedeli si sentano ingannati sull’utilizzo delle loro donazioni, cosa che potrebbe danneggiare ulteriormente la credibilità della gestione finanziaria vaticana di Papa Francesco». Eppure, l’Obolo di San Pietro – che raccoglie fondi ogni anno, a fine giugno – viene definito come una iniziativa per i bisognosi: un «gesto di carità, un modo per sostenere l’attività del Papa e della Chiesa Universale per favorire soprattutto i più poveri e le Chiese in difficoltà». È anche «un invito a conoscere e ad essere vicini alla nuove forme di povertà e fragilità».
Una sezione del sito web, dedicata alle “opere realizzate” descrive l’utilizzo delle sovvenzioni individuali. Esempio: 100.000 euro in aiuti di prima necessità ai sopravvissuti al terremoto del mese scorso in Albania, 150.000 euro per le persone colpite nel mese di marzo dal ciclone Idai nell’Africa sud-orientale. «Lo scopo della raccolta dell’Obolo di San Pietro è quello di fornire al Santo Padre i mezzi finanziari per rispondere a coloro che soffrono a causa di guerre, oppressioni, calamità naturali e malattie», secondo il sito web della Conferenza Episcopale statunitense. Solo che, negli ultimi cinque anni – scrive Durden, in un post tradotto da “Come Don Chisciotte” – solo il 10% del denaro raccolto (oltre 55 milioni di dollari nel 2018) è stato realmente destinato alle varie cause benefiche pubblicizzate per sollecitarne la raccolta. Lo affermano «persone che hanno familiarità con la questione», secondo cui «circa i 2/3 dei fondi vengono utilizzati per contribuire a colmare il deficit di bilancio della Santa Sede, in pratica l’amministrazione centrale della Chiesa Cattolica e la rete diplomatica mondiale della stessa Santa Sede». Per il 2018, si parla di un disavanzo di circa 78 milioni di dollari, su una spesa totale di circa 334 milioni.
La “riallocazione” delle donazioni di beneficenza – aggiunge Durden – arriva nel momento in cui la Santa Sede sta affrontando un deficit di bilancio in forte espansione che, nell’ammonimento del Papa ai cardinali, potrebbe avere un «grave impatto» sul La raccolta per l'Obolofuturo economico della Chiesa. Papa Francesco era stato eletto nel 2013 anche con il mandato di revisionare le finanze vaticane, «dopo le accuse di corruzione, sprechi e incompetenze», secondo il “Wall Street Journal”. La notizia della cattiva gestione finanziaria del Vaticano «non potrebbe arrivare in un momento peggiore», visto che la Chiesa è alle prese «con uno scandalo legato a dubbi investimenti immobiliari londinesi che hanno portato, nel mese di novembre, al licenziamento del suo principale gestore finanziario, René Brülhart». Scoppiato per la prima volta a ottobre, quest’ultimo scandalo è imperniato sui tentativi della Santa Sede di ottenere un prestito di 110 milioni di dollari) per l’acquisto di proprietà di lusso nel quartiere londinese di Chelsea. Per contro, «i regolamenti vaticani consentono al Papa di usare le donazioni come ritiene più opportuno, anche per sostenere la propria amministrazione». Il patrimonio dell’Obolo ammonta attualmente a circa 600 milioni di euro, «in calo rispetto ai circa 700 milioni dell’inizio dell’attuale pontificato», secondo Durden «in gran parte a causa di investimenti sbagliati».

25 dicembre 2019

Bolivia, laboratorio di una nuova strategia di destabilizzazione, di Thierry Meyssan


JPEG - 38.9 Kb
La nuova presidente dello Stato Plurinazionale della Bolivia brandisce i Quattro Vangeli e denuncia i “riti satanici” degli indios. Diversamente dai commenti della stampa internazionale, Jeanine Áñez non se la prende con gli indios – peraltro tutti cristiani – in quanto etnia, ma vuole imporre il fanatismo religioso.


La stampa internazionale è cauta nel riferire quanto accade in Bolivia. Descrive il rovesciamento del presidente Evo Morales, parla di un ennesimo colpo di Stato, ma non riesce a inquadrare quel che sta davvero succedendo. Non si accorge del nascere d’una nuova forza politica, finora sconosciuta in America Latina. Secondo Thierry Meyssan, se le autorità religiose del continente non si assumeranno subito le proprie responsabilità, niente riuscirà a impedire il dilagare del caos.

l 14 ottobre 2019, in un’intervista alla televisione Giga Vision, il presidente Evo Morales dichiarò di possedere registrazioni comprovanti la preparazione di un colpo di Stato da parte di esponenti dell’estrema destra e di ex militari, da mettere in atto qualora avesse vinto le elezioni [1].
Quel che poi è accaduto non è un vero e proprio colpo di Stato: è un rovesciamento del presidente costituzionale. Niente induce a credere che il nuovo regime saprà stabilizzare il Paese. Sono i primordi di un periodo di caos.
Le rivolte che si sono susseguite dal 21 ottobre hanno indotto a fuggire, l’uno dopo l’altro, il presidente, il vicepresidente, il presidente del senato, il presidente dell’Assemblea nazionale, nonché il primo vicepresidente del senato. Le sommosse non sono però cessate con l’intronizzazione alla presidenza ad interim, il 12 novembre scorso, della seconda vicepresidente del senato, Jeanine Áñez. Il partito di Áñez ha solo quattro deputati e senatori su 130. In compenso, la nomina di un nuovo governo senza indigeni ha spinto gli indios a scendere in piazza in sostituzione dei sicari che hanno cacciato il governo Morales.
Ovunque si registrano violenze interetniche. La stampa locale riferisce delle umiliazioni pubbliche e degli stupri. E conta i morti.
Se è evidente che la presidente Áñez ha il sostegno dell’esercito, non si sa invece chi abbia cacciato Morales: potrebbe essere una forza locale o una società transnazionale, oppure entrambe. L’annullamento di un mega-contratto per lo sfruttamento delle miniere di litio potrebbe aver spinto un concorrente a investire nel rovesciamento del presidente.
Una cosa soltanto è certa: gli Stati Uniti d’America, che adesso si rallegrano per il corso preso dagli avvenimenti, non li hanno provocati, sebbene cittadini e funzionari USA vi siano probabilmente implicati, come ha affermato il direttore dell’SVR [Servizio d’intelligence internazionale, ndt] russo, Sergueï Narychkine.
La pubblicazione della registrazione di una conversazione tra la ministra degli Esteri della Colombia, Claudia Blum, e l’ambasciatore colombiano a Washington, Francisco Santos, in un caffè della capitale statunitense, non lascia dubbi [2]: in questo momento il segretario di Stato USA Mike Pompeo è contrario a ogni intervento in America Latina; ha già mollato l’autoproclamatosi presidente del Venezuela, Juan Guaidó, facendo precipitare nello sgomento la Colombia anti-Maduro, e rifiuta ogni contatto con i numerosi apprendisti putschisti latino-americani.
Sembra che la nomina di Elliot Abrams come rappresentante speciale USA per il Venezuela non sia stata soltanto il prezzo della chiusura dell’inchiesta russa del procuratore Robert Mueller [3], ma anche un mezzo per farla finita con i neo-conservatori dell’amministrazione. Questo “diplomatico” si è comportato talmente male che in pochi mesi ha distrutto ogni speranza d’intervento imperialista USA in America Latina.
Del resto, il dipartimento di Stato USA è un cumulo di macerie: alti diplomatici hanno testimoniato contro il presidente Trump davanti alla commissione della Camera dei Rappresentanti incaricata dell’impeachment.
Ma chi conduce il gioco se non è l’amministrazione Trump a farlo? Evidentemente ci sono ancora residui importanti delle reti create dalla CIA negli anni dal 1950 al 1970. Dopo quarant’anni sono ancora presenti in numerosi Paesi dell’America Latina e possono agire autonomamente, con pochi appoggi esterni.

Le ombre del passato

JPEG - 24 Kb
Ante Pavelić, capo della milizia degli ustascia, e il suo protettore, l’arcivescovo cattolico di Zagabria, monsignor Alojzije Stepinac. Il primo è ritenuto uno dei peggiori criminali della seconda guerra mondiale, il secondo viene considerato santo per aver lottato contro il comunismo.
Quando gli Stati Uniti decisero di arginare l’URSS, il primo direttore della CIA, Allen Dulles, e il fratello, il segretario di Stato John Foster Dulles, esfiltrarono miliziani dell’Asse un po’ ovunque nel mondo per combattere i partiti comunisti. Furono riuniti in un’associazione, la Lega Anticomunista Mondiale (WACL) [4], che organizzò in America Latina il “piano Condor” [5] per una cooperazione fra i regimi filo-USA e per assassinare i leader rivoluzionari, ovunque si rifugiassero.
Il generale-presidente boliviano Alfredo Ovando Candia (1965-1970) affidò al nazista Klaus Barbie (il “macellaio di Lione”) la caccia all’argentino Che Guevara. Barbie riuscì a eleminarlo nel 1967, come nel 1943 aveva fatto con il capo della Resistenza francese, Jean Moulin. Durante le dittature del generale Hugo Banzer Suárez (1971-1978) e di Luis Garcia Meza Tejada (1980-81), Klaus Barbie, assistito da Stefano Delle Chiaie (membro di Gladio, che organizzò in Italia il tentativo del colpo di Stato del principe Borghese), ristrutturò la polizia e i servizi segreti boliviani.
Dopo le dimissioni del presidente statunitense Richard Nixon, gli Stati Uniti si dedicarono alla grande operazione di trasparenza con le commissioni Church, Pike e Rockefeller sulle attività segrete della CIA. Il mondo scoprì soltanto le increspature di superficie, che erano comunque troppo. Nel 1977 il presidente Jimmy Carter nominò l’ammiraglio Stansfield Turner a capo della CIA, con l’incarico di ripulirla dai collaboratori dell’Asse e di trasformare i regimi filo-americani da dittature in democrazie. È perciò legittimo chiedersi come abbiano potuto Klaus Barbie e Stefano delle Chiaie supervisionare fino al 1981 il sistema repressivo della Bolivia.
Evidentemente Barbie e Delle Chiaie erano riusciti a organizzare la società boliviana in modo da prescindere dal sostegno di Casa Bianca e CIA. Gli bastava il sostegno discreto di qualche alto funzionario statunitense e il denaro di qualche multinazionale. Allo stesso modo hanno probabilmente agito i putschisti del 2019.
Durante il periodo anticomunista, Barbie favorì l’installazione in Bolivia di croati ustascia che avevano facilitato la sua fuga dall’Europa. Quest’organizzazione terrorista, creata nel 1929, rivendicava in primo luogo un’identità cattolica e aveva il sostegno della Santa Sede nella lotta contro i sovietici. Nel periodo tra le due guerre compì numerosi assassinii politici, fra gli altri quello, in Francia, del re ortodosso Alessandro I di Jugoslavia. Con la seconda guerra mondiale gli ustascia si allearono con fascisti e nazisti, pur conservando la propria specificità. Massacrarono gli ortodossi e arruolarono i mussulmani. In contraddizione con il cristianesimo cui in origine si riferivano, promossero una visione razzista del mondo e non consideravano gli slavi e gli ebrei come esseri umani a pieno titolo [6]. Alla fine della seconda guerra mondiale gli ustascia e il loro capo Ante Pavelić fuggirono dall’Europa e si rifugiarono in Argentina, dove furono accolti dal generale Juan Perón. Alcuni di loro però rifiutarono la sua politica e si staccarono: il gruppuscolo più intransigente emigrò in Bolivia [7].
JPEG - 43.1 Kb
Per il neo-ustascia Luis Fernando Camacho, «la Bolivia appartiene a Cristo!»; una verità lapalissiana in una Paese al 98% cristiano. Ma cosa intende esattamente?

Gli ustascia in Bolivia

Quali che siano le ragioni etiche, è sempre difficile rinunciare a uno strumento offensivo. Così non bisogna meravigliarsi che collaboratori cacciati dal presidente Carter dalla CIA collaborarono con il vicepresidente di Ronald Reagan ed ex direttore della CIA, George Bush senior. Alcuni di loro formarono l’Antibolchevik Bloc of Nations [8]; si trattava soprattutto di ucraini [9], baltici [10] e croati. Tutti criminali oggi al potere.
Concerto di un gruppo ustascia a Zagabria nel 2007.
Gli ustascia boliviani hanno mantenuto legami con i fratelli d’armi in Croazia, in particolare durante la guerra del 1991-1995, in cui sostennero il partito cristiano-democratico di Franjo Tudman. In Bolivia hanno creato l’Unione Giovanile Cruceñista, milizia nota per le violenze antirazziali e le uccisioni d’indios aymara. Uno dei vecchi capi, l’avvocato e uomo d’affari Luis Fernando Camacho, è oggi presidente del Comitato Civico pro-Santa Cruz. È lui che apertamente dirige i sicari che hanno cacciato dal Paese l’aymara Evo Morales.
Sembra che anche il nuovo comandante in capo dell’esercito, Iván Patricio Inchausti Rioja, provenga dagli ustascia di Croazia. È lui che guida la repressione contro gli indios, munito della licenza d’uccidere della presidente Jeanine Áñes.
La forza degli ustascia boliviani non è nel numero. Sono solo un gruppuscolo. Eppure sono riusciti a cacciare il presidente Morales. La loro forza sta nell’ideologia: strumentalizzare la religione per giustificare il crimine. In un Paese cristiano nessuno osa opporsi spontaneamente a persone che si richiamano a Cristo.
Tutti i cristiani che hanno letto o sentito la nuova presidente annunciare il ritorno al governo della Bibbia e dei Quattro Vangeli — lei non sembra fare distinzione tra i due testi — e denunciare i «riti satanici degli indios» ne sono stati scioccati. Tutti hanno pensato fosse adepta di una setta. No, è soltanto una fervente cattolica.
Da molti anni mettiamo in guardia contro i partigiani al Pentagono della strategia Rumsfeld/Cebrowski, che vogliono fare nel Bacino dei Caraibi quanto fatto nel Medio Oriente Allargato. Sotto l’aspetto tecnico, il loro piano si è sempre scontrato con l’assenza di una forza latina, comparabile ai Fratelli Mussulmani e ad Al Qaeda. Tutte le macchinazioni partivano dalla tradizionale opposizione dei “capitalisti liberali” ai “socialisti del XXI secolo”. Non è più così. Ora una corrente interna al cattolicesimo predica la violenza in nome di Dio. Essa rende fattibile il caos. I cattolici latini si trovano nella stessa situazione dei sunniti arabi: devono con urgenza condannare questi individui per non essere travolti dalla loro violenza.

23 dicembre 2019

IL GIALLO ENRICO FORTI / DA 20 ANNI NEGLI STATES IN GALERA SENZA PROVE


In galera da 20 anni nei “democratici” States senza uno straccio di prova, senza un giusto processo, senza un movente per un omicidio che non ha mai commesso.
E’ l’incredibile story di Enrico ‘Chico’ Forti, del quale appunto ricorrono i vent’anni di folle detenzione nelle galere a stelle e strisce e sulla cui vicenda ha appena presentato un’interrogazione parlamentare alla Camera Michela Rostan di Liberi e Uguali.

Michela Rostan. In apertura la spiaggia di Miami e Chico Forti
Chiede al ministro degli Esteri Luigi Di Maio: “Forti dal 2000 si trova in carcere negli Stati Uniti, con una condanna all’ergastolo per omicidio avvenuto in base a un processo lampo, indiziario e senza prove. Il procedimento giudiziario in cui è stato coinvolto in nostro concittadino è, a detta di molti, lacunoso e parziale. A Forti sono stati negati diritti elementari di garanzia per difendersi. Cinque anni fa la Camera ha approvato una mozione per chiedere al Governo un impegno forte a tutela del nostro concittadino. Da allora si è mosso poco. L’esecutivo attivi i suoi buoni rapporti con gli Stati Uniti, sempre molto solerti quando si tratta di difendere i diritti di un connazionale, e avanzi con decisione la richiesta di un giusto processo con le giuste garanzie”.

IL PEGGIOR CASO DI MALAGIUSTIZIA NEGLI STATES
Ricostruiamo per sommi capi l’incredibile vicenda, etichettata dal legale di Forti, Joseph Tacopina (proprietario tra l’altro del Venezia Calcio) come “il peggior caso di malagiustizia che abbia mai visto negli Stati Uniti”. Non poco.
Di Forti si hanno le prime notizie quasi trent’anni fa, nel 1990, quando partecipa con successo ad una puntata di “Telemike”, vincendo la bella somma di 80 milioni. Ed è così che può soddisfare il sogno di una new life, volando negli amati States con la moglie per iniziare la nuova vita. Diventa videomaker e produttore televisivo, un vero dream; realizza soprattutto reportage sugli sport estremi che vende a diverse emittenti a stelle e strisce.

Joseph Tacopina
Le cose vanno ok e riesce a addirittura a trasferirsi in un quartiere esclusivo di Miami, in Florida. Decide di diversificare le sue attività e comincia ad investire nel settore immobiliare. Ed ecco che arriva una buona chance, ossia l’acquisto di un albergo che va per la maggiore – ma in quel periodo si trova in difficoltà – il Pike’s Hotel di Ibiza. Il proprietario, Tony Pike, entra in contatto con Chico Forti, la trattativa pare incanalarsi per il verso giusto. A questo punto Tony Pike decide di far venire a Miami il fratello, Dale, per avere il suo avallo alla vendita.
Chico va a prendere Dale all’aeroporto ma poche ore dopo il cadavere dello stesso Dale viene trovato sulla spiaggia di Miami con due proiettili nella testa, nelle tasche il biglietto aereo comprato da Forte. Il quale viene immediatamente fermato dalla polizia e trascinato senza complimenti in galera.
Seguirà un processo sommario, tipo Far West e alla conclusione manca solo il cappio al collo. Invece, sarà un continuo vagare per le galere statunitensi.

COME TI INCASTRO MEGLIO
Ecco alcune frasi dei parenti o di chi si è occupato del caso.
Sottolinea lo zio Gianni che si è venduto anche la casa per pagare le spese legali e tutto quanto potesse aiutare il nipote: “E’ stato condannato per aver pianificato l’omicidio di una persona che non aveva mai visto né incontrato in vita sua”.
“E’ tutta una costruzione della colpevolezza. Ciò che era a sgravio nel processo è stato eliminato o non si trova più”.
La madre novantunenne: “Devo mantenermi giovane per aspettare che esca”.
L’avvocato Tacopina: “Non ci sono prove né dai magistrati né dalla polizia che Chico sia l’assassino. Sono rimasto scioccato quando ho letto la trascrizione del processo. Ci sono dozzine di motivi che fano dubitare della sua colpevolezza”. E ancora: “anche un novellino dell’investigazione capirebbe che tutto è stato studiato per incastrarlo. Non c’è niente, è tragicamente ridicolo. Sembra una commedia di Benigni”. O una tragedia di Sofocle.
Un amico di vecchia data, Francesco Guidetti, fa notare: “viveva un momento felice e fortunato della sua vita, non aveva il minimo motivo per ipotizzare un omicidio del genere”.

Lorenzo Matassa
Ferdinando Imposimato, il magistrato coraggio che per decenni ha denunciato mafie & terrorismi e si è battuto con vigore per l’innocenza di Chico Forti: “In tutta la storia non esiste un solo indizio concreto. Nelle mie molteplici letture dei fascicoli processuali non ne ho trovato uno, uno solo”.
Ed infatti, a quanto pare, tutto dipende da pochi granelli di sabbia. Quelli trovati nelle tasche di Chico Forti e che proverrebbero dalla spiaggia dove è stato trovato il corpo della vittima.
Osserva Lorenzo Matassa, un altro ex magistrato che ha studiato a lungo il giallo: “Negli Stati Uniti, per condannare qualcuno, devi superare ogni ragionevole dubbio. Qui non esiste alcun movente. Non può esistere un delitto senza movente: a cosa giovava l’assassinio di questo ragazzo?”.
Secondo i giudici a stelle e strisce il movente sarebbe stato di interesse: ritengono, senza peraltro poterlo in alcun modo provare, che Dale fosse contrario alla vendita del Pike e che proprio per questo Forti avrebbe deciso di farlo fuori. Davvero ‘fuori’ dal mondo!

SERVIZI DI POLIZIA
La realtà è invece esattamente un’altra. E fa balzare evidenti tutte le responsabilità della polizia. Chico, infatti, aveva osato produrre un docufilm da novanta sull’omicidio di Gianni Versace facendo risaltare, nella pellicola, il pessimo operato della polizia di Miami in tutta la vicenda.

Gianni Versace
Ecco cosa scrive un sito americano a proposito dell’assassino del famoso stilista, Andrew Cunanan, e non solo: “Dopo una lunga caccia all’uomo, Cunanan venne trovato morto a Miami. Chico Forti realizzò un documentario in cui veniva dato spazio all’ipotesi che Cunanan sarebbe stato ucciso altrove e poi spostato nella casa in cui è stato ritrovato per inscenare un suicidio. Il documentario mise in cattiva luce l’operato della polizia di Miami. E’ da lì che sono cominciati i suoi problemi. Per esempio, la giudice che condannò Chico faceva parte del team che aveva condotto le indagini sulla morte di Cunanan”. Se vi par poco per depistare!
Ma c’è ancora una ciliegina sulla torta. In tutto il corso del processo, l’accusato non ha MAI avuto modo di difendersi né di dire la sua. Infatti non è MAI stato interrogato né MAI ha potuto verbalizzare in aula, al pubblico dibattimento nel corso del quale perfino il più efferato killer ha tutto il diritto di parlare.
Qui un innocente non ha potuto dire neanche una sillaba.
E’ questa la giustizia nei super democratici Usa?

21 dicembre 2019

[Reseau Voltaire] Les principaux titres de la semaine ven 20 dic 2019

Réseau Voltaire
Focus




En bref

 
La CIA et les jihadistes ouïghours
 

 
Les visées coloniales de l'Union européenne sur l'Arctique
 
Controverses
Fil diplomatique

 
Déclaration conjointe de la Russie et du Nicaragua
 

 
Jean-Yves Le Drian au Sénat sur le rôle de l'Otan
 

 
Déclaration conjointe de l'Iran, de la Russie et de la Turquie sur la Syrie
 

 
Déclaration finale du Groupe international de soutien au Liban
 

 
Déclaration conjointe de l'Allemagne, de la France, de la Russie et de l'Ukraine
 

 
Huawei : Mythes et réalité
 

 
abonnement    Réclamations


Caso Estermann, «Si riaprano le indagini»


Riaprire le indagini sul caso Estermann. È quanto chiedono ai magistrati della Città del Vaticano i familiari di Cedric Tornay, il vicecaporale delle Guardie svizzere accusato del duplice omicidio commesso il 4 maggio 1998 che causò la morte del comandante Alois Estermann e della moglie Gladys Meza Romero.
Tornay si sarebbe suicidato subito dopo. L’istanza per l’accesso al fascicolo integrale è stata depositata dall’avvocato Laura Sgrò al Tribunale vaticano, rilevando numerose «criticità» nella ricostruzione dei fatti.
La magistratura vaticana, nella persona del giudice Gianluigi Marrone, nel 1999 archiviò l’inchiesta sul duplice omicidio e suicidio dopo aver concluso che Tornay aveva ucciso con dei colpi d’arma da fuoco il neo-comandante Estermann e la moglie in preda a un raptus causato dal rifiuto di una promozione, per poi togliersi la vita. La ricostruzione fornita dalle autorità vaticane è stata però sempre contestata dalla madre di Tornay, Muguette Baudat, tanto da far sviluppare nel tempo varie teorie alternative, anche con presunti legami col caso Orlandi.
L’avvocato Sgrò, incaricata dai familiari di richiedere la riapertura delle indagini, rileva varie «criticità», come il fatto che la signora Baudat, nonostante le numerose richieste, non abbia mai potuto leggere gli atti d’inchiesta, né i suoi avvocati ne hanno mai potuto estrarre copia. Le sole informazioni in suo possesso derivano dai pochi decreti che le sono stati notificati e dai comunicati della Sala stampa vaticana, che ha diffuso stralci dell’istruttoria.
Mai viste foto, il luogo del delitto, videoriprese, risultati di esami o verbali di deposizioni. Nulla. Come si ricorderà, poi, qualche ora dopo il fatto di sangue il portavoce vaticano Joaquin Navarro-Valls aveva già ricostruito i fatti, così come verranno riconfermati alla chiusura delle indagini.
La sera che è arrivata a Roma, un sacerdote inviato dalla Segreteria di Stato avrebbe cercato di convincere la signora Baudat a cremare il corpo di Cedric: in prima battuta lei aveva acconsentito, la mattina dopo ha cambiato idea, nonostante le pressioni ancora ricevute. Ciò ha determinato che la donna ha ottenuto la restituzione del corpo del figlio. L’autopsia è stata effettuata in Vaticano. La famiglia non comprende perché non sia avvenuta presso una struttura ospedaliera come il Gemelli, in cui si vociferava sarebbero state portate le salme. Mme Baudat non ha mai avuto modo di nominare un consulente di parte che partecipasse all’autopsia né ha mai letto la perizia data alla magistratura.
Il corpo è stato restituito alla madre in pessime condizioni. Mme Baudat ha disposto un’autopsia privata, effettuata all’Università di Losanna. Le informazioni diramate dalla Sala stampa vaticana non coincidono con le conclusioni redatte dai periti di parte. Non avendo mai letto la perizia d’ufficio, resta comunque difficile fare un’attenta comparazione delle autopsie.
Sono gli stessi medici legali a fornire informazioni balistiche. Non risulta infatti che sia stato incaricato nessun perito balistico per analizzare adeguatamente traiettorie e proiettili. Ciò che rileva la famiglia è che il proiettile restituito alla madre con il quale Cedric si sarebbe ucciso non può avergli attraversato il cranio, essendo intatto e senza alcuna striatura. Il foro sulla testa di Cedric peraltro è più piccolo rispetto alla pallottola. Seri i dubbi che si tratti di una pallottola di un calibro diverso.
Tornay avrebbe lasciato una lettera in cui annunciava il gesto, ma sull’autenticità della lettera sono molteplici i dubbi, soprattutto perché la missiva è indirizzata a Muguette Chamorel. Chamorel è il cognome dell’ex marito di Mme Muguette, che non usava quel cognome da moltissimi anni. Strano che un figlio faccia un errore del genere.
Le indagini furono condotte dal capo della Gendarmeria Camillo Cibin e da Raoul Bonarelli, che finì indagato per la scomparsa di Emanuela Orlandi.
Mme Baudat ha chiesto la restituzione degli effetti personali del figlio, gli sono stati restituiti mancanti. I vestiti che Cedric indossava quel giorno sarebbero stati bruciati. Almeno questo è quanto riferito alla madre quando non se li è visti recapitare.
«Abbiamo fatto richiesta di accedere al fascicolo integrale, è nel pieno diritto di Mme Baudat - spiega all’agenzia italiana ANSA l’avvocato Sgrò -. È evidente che la richiesta di riapertura delle indagini, che si basa sulla presentazione di nuove prove, non può prescindere da un attento studio degli atti e della comparazione di essi con il nuovo materiale raccolto e con lo studio degli atti anche da parte dei nostri consulenti. Non appena avremo contezza del fascicolo integrale completeremo la nomina dei nostri consulenti».