17 maggio 2018

ALPI, BORSELLINO, PASOLINI, PANTANI, DAVID ROSSI / E’ GIUSTIZIA DESAPARECIDA


Buchi neri. Gialli mai risolti. Storie di omicidi o 'suicidi' che segnano – fino ad oggi – il crac della giustizia di casa nostra. Tempi biblici, indagini flop, archiviazioni ai confini della realtà. E un gigantesco senso di impotenza, trovarsi a combattere contro muri di gomma, cortine di omertà e soprattutto complicità & collusioni da brividi. E anche depistaggi di Stato, come emerge in modo clamoroso, per fare un solo esempio, nel caso di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.
E poi l'ultima corsa di Marco Pantani, il tragico volo di David Rossi, le drammatiche sequenze di Pier Paolo Pasolini.
C'è ancora qualche spiraglio per far luce sul nero che appesta e ammorba la scena. Flebili speranze per dar volto ai killer e, soprattutto, ai mandanti. Vediamo, giallo per giallo, cosa sta succedendo.
ALPI – HROVATIN / 8 GIUGNO, LA PAROLA AL GIP
Dopo 24 anni di depistaggi, la parola definitiva ora passa al gip di Roma, Andrea Fanelli, che si dovrà pronunciare sulla richiesta di archiviazione tombale avanzata dal pm Elisabetta Ceniccola e controfirmata dal procuratore capo Giuseppe Pignatone.


Giuseppe Pignatone. Nel montaggio in alto, al centro, Ilaria Alpi. Sullo sfondo Paolo Borsellino, Marco Pantani, David Rossi e Pier Paolo Pasolini

Lo stesso gip dovrà valutare anche gli ultimi elementi emersi: ossia il fascicolo trasmesso dalla procura di Firenze riguardante un'inchiesta su traffici di armi e mezzi militari, comprese alcune intercettazioni risalenti al 2012 tra somali, in cui viene fatto riferimento all'omicidio di Ilaria e Miran.
Il gip, inoltre, dovrà tener presente una gran mole di elementi contenuti in un dossier redatto dai legali della madre di Ilaria, Luciana Riccardi, ossia Antonio D'Amati, Giovanni D'Amati e Carlo Palermo.
Sorge spontanea una domanda da novanta: come mai fino ad oggi la procura di Roma non ha tenuto in alcun conto la sentenza pronunciata dal tribunale di Perugia sulla non colpevolezza di Hashi Omar Hassan, il somalo che ha scontato 16 anni di galera da innocente?
Quella sentenza, emessa un anno fa, parla senza mezzi termini di "depistaggio di Stato", perchè l'unico testimone d'accusa, Gelle, era taroccato, come ha scoperto l'inviata di "Chi l'ha visto" Chiara Cazzaniga e ha certificato – con una pletora di riscontri e ulteriori prove – la clamorosa sentenza di Perugia. Sarebbe bastata quella sentenza, che parla da sola, per far riaprire immediatamente il caso alla procura capitolina, contenendo tra l'altro precisi, nuovi indizi e probanti chiavi di lettura.
E invece? A Roma il silenzio più totale, tanto da far pensare a un impetuoso ritorno di quella "procura delle nebbie" che ha caratterizzato tanti vergognosi anni del passato.


Chiara Cazzaniga

Incredibile ma vero, il copione si ripete in Sicilia, con l'eterno processo Borsellino. Solo un miracolo (le rivelazioni di Gaspare Spatuzza) ha consentito di far luce su un altro clamoroso depistaggio, stavolta il taroccamento a tavolino del super teste dell'accusa, Vincenzo Scarantino, la cui verbalizzazione fasulla ha fatto finire in galera, sempre per 16 anni, 7 innocenti. Come mai nessuno fino ad oggi ha acceso neanche un fiammifero per far luce sul ruolo svolto dai pm, ossia Anna Maria Palma e l'icona antimafia Nino Di Matteo?
Intanto si sta celebrando il Borsellino quater…

MARCO PANTANI / MADONNA FATE LUCE
E ci vorrebbe l'ennesimo miracolo, stavolta degno del miglior San Gennaro, per far luce su un altro giallo da brividi.
Alla procura di Napoli, infatti, si sta svolgendo l'ultimo atto in uno dei due filoni d'inchiesta sul giallo Pantani. Da un anno e mezzo la Direzione distrettuale antimafia – pm Antonella Serio – ha sul tavolo il fascicolo sul Giro d'Italia del 1999 che segnò la fine sportiva del campione di ciclismo Marco Pantani, squalificato per doping. L'esito della corsa venne pesantemente condizionato dalla camorra, che investì miliardi di lire sulla sconfitta del Pirata ("'O pelato non adda arrivà a Milano", come volevano gli uomini dei clan). La procura di Forlì ha a lungo indagato sulla pista, potendo contare su una sfilza di verbalizzazioni di pentiti e collaboratori di giustizia che hanno fornito conferme e dettagli.
Ma niente. Fascicolo archiviato perchè "non c'è la prova di quelle minacce", ossia le intimidazioni che hanno 'convinto' i medici dell'antidoping a taroccare (arieccoci) quelle analisi, che si svolsero a Madonna di Campiglio. Alla procura di Forlì, infatti, non hanno ben chiari i metodi persuasivi della camorra: e forse scambiano ancora pizzi per merletti…


L'avvocato Antonio De Rensis

Resta un'ultima chance: la procura di Napoli, appunto, cui si è rivolto il legale della famiglia Pantani, Antonio De Rensis, perchè fossero riaperte le indagini proprio per far luce sul Giro '99 comprato dai clan. Ma è passato un anno e mezzo: fatte indagini? Effettuati riscontri? Qualche interrogatorio? Fino ad oggi, il silenzio più totale.
Atto secondo. Il processo per la fine di Marco al residence "Le Rose" di Rimini il 14 febbraio 2004. Una scena del 'crimine' che parla da sola, come ha dettagliato in un ponderoso dossier lo stesso De Renzis. Un centinaio di 'anomalie' che documentano come sia impossibile pensare ad un 'suicidio', ma si sia trattato di una vera e propria esecuzione: dalle ferite sul corpo di Marco, ai segni di trascinamento, ai mobili della stanza distrutti, agli evidenti segni di colluttazione.
Ma per i pm tutto ok. Il Pirata, evidentemente, era un masochista di razza e prima di ingerire la coca fatale ha voluto anche sfasciare tutto: e invece le 'palline' di pane e coca gli venne fatte ingurgitare con la forza.
Tutto da archiviare, per la procura di Forlì: un chiaro suicidio. E così anche ha ritenuto la Cassazione, che sulla fine del Pirata ha apposto il suo sigillo il 19 settembre 2016: giorno di San Gennaro.

DAVID ROSSI / QUEL VOLO DA PALAZZO SALIMBENI
Eccoci ad una scena del 'crimine' altrettanto zeppa di anomalie, quella dell'ufficio di David Rossi a palazzo Salimbeni, storica sede del Monte dei Paschi di Siena. Da lì è volato giù a marzo 2013 il responsabile delle relazioni esterne e della comunicazione dell'istituto di credito, all'epoca travolto dal crac. E guarda caso, il giorno seguente David era atteso in procura per verbalizzare proprio sugli affari che coinvolgevano Mps, a partire da quel 'groviglio armonioso' che avvolgeva la banca e tutta la città. Molto meglio che David non parlasse con gli inquirenti…
Altri inquirenti della stessa procura senese, del resto, non hanno avuto una gran voglia di indagare su quel tragico volo, chiedendo dopo un anno esatto l'archiviazione. Nonostante la gran mole di elementi tutti indirizzati a negare la pista del suicidio.


Elio Lannutti

A partire dalle tre perizie. Quella grafologica, infatti, escludeva che David avesse mai potuto scrivere spontaneamente i tre messaggi lasciati alla moglie, invece frutto di evidente coazione. Quella sul corpo, poi, ha documentato svariate ferite, soprattutto ai polsi e sulle braccia, segno di colluttazione e di trascinamento (proprio come nel caso Pantani). Infine, la dinamica della caduta dello stesso corpo fa a pugni con l'ipotesi del suicidio: il volo, invece, risulta frutto di una spintarella.
Senza contare svariati altri elementi: dal filmato e le riprese delle videocamere (tagliate e evidentemente taroccate, altra somiglianza col giallo Pantani), al cellulare, all'orologio caduto 'in ritardo', fino alla presenza di una persona nella stradina adiacente.
Tutto inutile. La procura per ben due volte ha chiesto l'archiviazione. E solo da pochi mesi si è aperto uno spiraglio alla procura di Genova, che finalmente ha inaugurato un fascicolo su errori, orrori & omissioni commessi dalle toghe senesi.
E' uscito pochi mesi fa un libro scritto da Elio Lannutti, lo storico fondatore di Adusbef, l'associazione a tutela dei risparmiatori, e dal giornalista d'inchiesta Franco Fracassi: significativamente titolato "Morte dei Paschi".

PASOLINI / PETROLIO BOLLENTE  

Pier Paolo Pasolini

Anche stavolta, un anno e mezzo fa una scintilla nel buio.
L'avvocato della famiglia Pasolini, Stefano Maccioni, ad ottobre 2016 chiede la riapertura delle indagini sull'omicidio di Pier Paolo. Si basa su un rapporto redatto dalla genetista forense Marina Baldi, attraverso cui sono state scoperte tracce di altri DNA sulla scena del crimine, oltre a quelle ovviamente di Pasolini e di Pino Pelosi. Almeno uno, denominato Ignoto 3, e con ogni probabilità un altro, Ignoto 4.
Il caso viene affidato al pm Francesco Minisci, che già anni prima aveva archiviato una analoga richiesta, anche se ovviamente per diversi motivi.


Francesco Minisci

Maccioni sottolinea il fatto che si tratta di un test ben preciso. E che a questo punto occorre effettuare una serie di indagini per verificare la paternità di quelle tracce di Dna. Caso mai circoscrivendo la ricerca, per non incorrere nell'errore commesso dagli inquirenti nel caso di Yara Gambirasio, con un test a pioggia in Lombardia. Secondo Maccioni l'indagine può essere ristretta agli ex malavitosi di quegli anni, gravitanti nell'orbita della banda della Magliana.
Ma fino ad oggi nessuna notizia. Forse il pm Minisci è troppo preso dai suoi freschi impegni associativi? Mesi fa, infatti, è stato nominato segretario dell'ANM, ossia la potente Associazione Nazionale Magistrati.
Un occhio al caso, comunque, non farebbe male a darlo. Soprattutto perchè lo 'scenario storico' è ormai chiaro. Altro che il solito delitto a sfondo passional-sessuale facile paravento per troppe inchieste! E' palese la matrice politica dell'omicidio: che più di Stato non si può.
E c'è quel Petrolio bollente – l'ultima opera di Pier Paolo – come movente da novanta. Soprattutto il capitolo che manca all'appello delle bozze: le 60 pagine di "Lampi sull'Eni", dedicate al poderoso sistema di potere che all'epoca ruotava intorno alla figura del numero uno della 'Razza Padrona', al secolo Eugenio Cefis.
Da grande regista, poeta e genio a tutto campo (compreso quello pallonaro), Pasolini s'era anche trasformato in giornalista d'inchiesta, e di razza. Aveva scavato e scovato a proposito del delitto di Enrico Mattei (tanto che le bozze di Petrolio erano sulla scrivania del cronista dell'Ora di Palermo Mauro De Mauro, ucciso dalla mafia): e alla fine il suo mitico "Io so, ma non ho le prove", si stava trasformando in "Io so e ho le prove".
Per questo anche Pier Paolo "Doveva Morire".

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16 maggio 2018

La Russia si oppone a una guerra tra Iran e Israele, di Thierry Meyssan


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                                      I bombardamenti israeliani da dicembre 2017

Nel conflitto Russia-USA la maggior parte degli osservatori si schiera e auspica la vittoria dell'uno o dell'altro campo. Mosca cerca invece di chetare il Medio Oriente e, per questa ragione, ostacola un attacco dell'Iran a Israele, così come nel 2008 si oppose all'operazione israeliana contro l'Iran.

Nella notte tra il 29 e il 30 aprile 2018 Israele ha lanciato nove missili contro due basi militari siriane, causando danni molto gravi.
Stupisce che i radar russi non hanno allertato i siriani, che quindi non hanno potuto intercettare i missili israeliani.
In realtà, l’attacco non voleva colpire obiettivi siriani, bensì bersagli iraniani in basi siriane.
In forza di un trattato anteriore alla guerra, l’Iran è intervenuto in aiuto della Siria sin dall’inizio dell’aggressione straniera, nel 2011. Senza il soccorso iraniano la Siria sarebbe stata sconfitta, la Repubblica sarebbe stata rovesciata e i Fratelli Mussulmani sarebbero al potere. Sennonché, da settembre 2015 la Siria ha l’appoggio anche della Russia, la cui potenza di fuoco è di gran lunga superiore a quella iraniana. È stata l’aviazione militare russa a distruggere con bombe di penetrazione le fortificazioni sotterranee costruite dalla NATO e da Lafarge, permettendo all’esercito arabo siriano di riconquistare il terreno perduto.
Oggi però gli intenti di Iran e Russia divergono.

Il disaccordo Iran-Russia

la Russia vuole sradicare le organizzazioni jihadiste e pacificare l’insieme della regione. Spera inoltre di ripristinare quel legame storico che lega la cultura ortodossa e Damasco, città del cristianesimo delle origini, in conformità alla strategia che Caterina la Grande delineò nel XVIII secolo.
L’Iran è oggi un Paese diviso in tre poteri distinti. Da un lato i Guardiani della Rivoluzione, dall’altro il presidente Rohani, in mezzo la Guida Khamenei a dirimerne i conflitti.
I Guardiani della Rivoluzione sono una formazione d’élite, distinta dall’esercito regolare. Obbediscono alla Guida, laddove l’esercito dipende dal presidente della Repubblica Islamica. Tentano di liberare il Medio Oriente dall’imperialismo anglosassone. Garantiscono la protezione degli sciiti ovunque nel mondo e, in cambio, contano sul loro appoggio per proteggere l’Iran. Sono presenti soprattutto in Yemen, Iraq, Siria e Libano.
Il presidente Hassan Rohani sta cercando di far uscire il Paese dall’isolamento diplomatico, seguito alla Rivoluzione dell’imam Khomeini. Vuole sviluppare il commercio internazionale e ristabilire lo statuto di potenza regionale dominante, riconosciuto al Paese all’epoca dello Scià.
L’ayatollah Ali Khamenei, ideologicamente vicino ai Guardiani della Rivoluzione, cerca di mantenere l’equilibrio tra i due poteri e di preservare l’unità del Paese. È un compito oggi ancora più arduo, in quanto le tensioni tra i due poteri hanno raggiunto l’apice. L’ex presidente, Mahmud Ahmadinejad (uscito dai Guardiani della Rivoluzione), e il suo vicepresidente, Hamid Beghaie, sono stati dichiarati dal Consiglio dei Guardiani della Costituzione «cattivi mussulmani». Ahmadinejad è agli arresti domiciliari, Beghaie è stato condannato, in un processo segreto, a 15 anni di reclusione.
Dopo l’assassinio di Jihad Mughniyah (figlio di Imad Mughniyad, capo militare dello Hezbollah libanese), avvenuto nel gennaio 2015 sulla linea di demarcazione siriano-israeliana del Golan, tutto induce a credere che l’Iran stia cercando d’impiantare basi militari nel sud della Siria, in vista della pianificazione di un attacco a Israele, coordinato da Gaza, Libano e Siria.
È il progetto che Israele cerca di impedire e che la Russia si rifiuta di avallare.

L’evoluzione delle posizioni politiche

Secondo il modo di vedere della Russia, Israele è uno Stato internazionalmente riconosciuto, cui appartengono oltre un milione di cittadini giunti dall’ex Unione Sovietica. Ha diritto a difendersi, indipendentemente dal problema che pongono il furto dei territori palestinesi e l’attuale regime di apartheid.
Al contrario, dal punto di vista iraniano Israele non è uno Stato, bensì un’entità illegittima che occupa la Palestina e ne opprime gli storici abitanti. È quindi legittimo combatterlo. La Repubblica Islamica va oltre l’analisi del suo fondatore. Infatti, per l’imam Khomeini Israele è solo uno strumento nelle mani delle due principali potenze coloniali, gli Stati Uniti (il «Grande Satana») e il Regno Unito. Il discorso iraniano sulla Palestina è diventato negli ultimi anni oltremodo confuso: una mescolanza di argomentazioni politiche e religiose, in cui non si disdegnano nemmeno stereotipi antisemiti.
Da tre anni Israele chiede a gran voce alla Russia di impedire all’Iran d’installare basi militari a distanze inferiori a 50 chilometri dalla linea di demarcazione. All’inizio, la Russia ha sottolineato che l’Iran stava vincendo la guerra in Siria, mentre Israele la stava perdendo. Quindi, Tel Aviv non poteva vantare pretese. Ma ora che si approssima una possibile fine del conflitto, la posizione della Russia è cambiata: è escluso che venga consentito all’Iran di aprire un nuovo conflitto.
È esattamente la stessa posizione che, nel 2008, spinse la Russia a bombardare i due aeroporti presi a nolo in Georgia dallo Tsahal. Lo scopo allora era prevenire un attacco di Tel Aviv a Teheran. Solo che il lasciar-fare di oggi si oppone a un’iniziativa iraniana, non più israeliana.

La posizione siriana

Dal punto di vista siriano, Israele è un nemico che occupa illegalmente il Golan. È un Paese che durante la guerra ha sostenuto gli jihadisti e che ha già bombardato la Siria oltre un centinaio di volte.
Ma non per questo il progetto iraniano è benvenuto. Infatti, come Mosca, Damasco non contesta l’esistenza dello Stato ebraico, bensì unicamente il suo ordinamento politico, da cui i palestinesi sono esclusi. Ma, soprattutto, la Repubblica Araba Siriana non cerca lo scontro con il vicino, bensì la pace. I presidenti Hafez e Bashar al-Assad hanno tentato invano di negoziarla, in particolare con la mediazione del presidente statunitense Bill Clinton.
D’altro canto, tutti sanno che l’esercito israeliano gode dell’appoggio senza riserve degli Stati Uniti e che attaccare Israele equivale ad attaccare Washington. Anche se lo volesse, la Siria, che sta uscendo da sette anni di aggressione straniera ed è in gran parte distrutta, non potrebbe impegnarsi in questa direzione neppure se lo volesse.
Pertanto, Damasco pur avendo consentito all’Iran di istallare basi sul proprio territorio non si spingerà oltre.

Il contesto Iran-Stati Uniti

Così come ha provocato la crisi attuale, l’approssimarsi della fine della guerra pesa anche sul futuro dell’accordo 5 + 1. Probabilmente gli Stati Uniti non continueranno a rendersene garanti.
Quest’accordo multilaterale non è quel che si crede. Il testo firmato il 14 luglio 2015 è esattamente identico a quello negoziato il 4 aprile. Negli ultimi mesi Washington e Teheran hanno patteggiato a quattr’occhi clausole segrete bilaterali, di cui nessuno conosce la portata.
Tuttavia, è evidente che, dalla conclusione di quest’accordo segreto, le truppe di Stati Uniti e Iran, che sono presenti in tutto il Medio Oriente, non si sono mai scontrate direttamente.
La parte pubblica dell’intesa verte sulla sospensione, per almeno un decennio, del programma nucleare iraniano, sulla rimozione delle sanzioni internazionali contro l’Iran e su un rafforzamento dei controlli dell’AIEA [Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, ndt]. Quest’accordo è catastrofico per Teheran che, per esempio, ha dovuto chiudere il settore dell’insegnamento della fisica nucleare. Ciononostante, l’Iran l’ha firmato, confidando nella rimozione delle sanzioni che colpiscono duramente l’economia. Ebbene, non appena tolte, le sanzioni sono state immediatamente ripristinate sotto altro pretesto (il programma missilistico). Nel frattempo, il livello di vita degli iraniani continua ad abbassarsi.
Contrariamente a un pregiudizio diffuso, già nel 1988 la Repubblica Islamica cessò gli sforzi per avere la bomba atomica: l’imam Khomeini aveva convinto gli iraniani che le armi di distruzione di massa sono contrarie all’islam. L’Iran ha continuato la ricerca sul nucleare a uso civile e condotto qualche studio per applicazioni militari tattiche. Oggi, soltanto chi desidera ripercorrere la via dello Scià — ossia il gruppo del presidente Rohani — potrebbe desiderare la ripresa del programma nucleare militare. Ma non accadrà, dati gli eccellenti rapporti con Washington.
A Ginevra è in corso una riunione preparatoria della Conferenza Mondiale di monitoraggio del Trattato di Non Proliferazione Nucleare. Iran e Russia sostengono una mozione per dichiarare il Medio Oriente «zona priva di armi nucleari», mozione contro cui sono schierati Israele, Arabia Saudita e i Paesi occidentali.
La minaccia che Teheran esercita dalla Siria potrebbe essere interpretata come mezzo di pressione per ottenere il rispetto delle clausole segrete parallele all’accordo 5+1.

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14 maggio 2018

Montagna Longa - La strage dimenticata

Intervista di Fabio Belli a Stefania Limiti
E' stato il più grave disastro nella storia dell'aviazione italiana prima che avvenisse la tragedia di Linate nel 2001 (1). Non si tratta della strage di Superga appena commemorata, ne del noto episodio di Ustica, sebbene vi sia in comune il territorio siciliano come luogo della sciagura.
Venerdì 5 maggio 1972 il volo Alitalia AZ112, partito da Roma-Fiumicino con destinazione Palermo-Punta Raisi, si schiantò in fase di atterraggio contro la Montagna Longa nel territorio fra Cinisi e Carini: tutte le 115 persone a bordo (108 passeggeri e 7 membri dell'equipaggio) persero la vita.
Il velivolo DC-8-43, decollato con mezz'ora di ritardo in una notte calda e senza vento, comunicò per l'ultima volta con la torre di controllo tramite il pilota comandante Bartoli che annunciò l'imminente manovra di avvicinamento alla pista 25 dell'aeroporto palermitano; pochi minuti dopo avvenne il fatale impatto (2). Nel luogo del disastro è presente tutt'ora una croce in ricordo delle vittime.
La giornalista e scrittrice Stefania Limiti, che aveva menzionato la tragedia nel suo libro "Doppio Livello" (3), ha accettato di rispondere ad alcune domande a 46 anni esatti dall'incidente, fornendo un contributo illuminante sull'intera vicenda.

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12 maggio 2018

DAMASCO, IL MESSAGGIO DI UN FRATE – Padre Bahjat Elia Karakach


di Alessandra Mulas, inviata di guerra in Siria

Padre Bahjat Elia Karakach, francescano della Custodia di Terra Santa superiore del Convento dedicato alla conversione di San Paolo a Damasco, è il frate coraggioso che immediatamente dopo l'attacco americano aveva lanciato un audio messaggio, attraverso i social network, in cui denunciava la menzogna dell'uso delle armi chimiche da parte del Governo di Bashar al-Assad. Come lui stesso dice l’attacco con armi chimiche da parte di Damasco sarebbe stato una follia, la vittoria sul terrorismo è ormai alla soluzione finale e richiamare l’attenzione dell’Occidente, giustificandone un possibile intervento, sarebbe stato inutile e dannoso. «L’esercito siriano non ha bisogno di usare le armi chimiche, soprattutto perché tra l’altro le ha smantellate, come sappiamo, sotto il controllo dei russi qualche anno fa».
Molto ottimista per il futuro dice di voler infondere la speranza attraverso la creazione di strutture che siano rivolte alla ricostruzione di un paese giovane e coraggioso. Ci racconta che i cristiani alle volte sono accusati dall’Occidente di sostenere il governo, precisa che questo va inserito in un contesto nel quale i cristiani sono una parte della società e non un corpo estraneo; la Siria a livello istituzionale è un paese laico e tutti possono accedere alle cariche pubbliche e ricorda che non è una questione di cristiani ma di una popolazione che all’80% si esprime a favore del suo Presidente. Forse prima della guerra c’era una opposizione che chiedeva modifiche costituzionali e riforme, ma oggi la scelta è tra il caos totale e questo governo che nonostante tutto ha avuto il merito di salvare l’unità della Siria e il pluralismo religioso. Il progetto di creare una divisione su basi etnico religiose è miseramente fallito grazie alla stabilità politica mantenuta nonostante la guerra. «Questo è il tempo di metterci insieme per combattere il terrorismo perché questi ribelli non hanno una visione politica alternativa. Hanno distrutto il patrimonio culturale, storico e l’unica cosa che li accomuna è il sogno di uno Stato Islamico.»
In una breve intervista invia un messaggio all’Occidente per raccontare una verità che merita di essere ascoltata, in un mondo in cui l’informazione si ferma davanti a una ideologia calata dall’alto in cui dietro vi è solo un vantaggio economico a senso unico.
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Riguardo ai cristiani qual è la situazione attuale, soprattutto dei cristiani cattolici, che sono diventati, ormai, una minoranza nella minoranza?
Sì, purtroppo il numero dei cristiani è più che dimezzato, sicuramente, in Siria. Ma possiamo dire sempre che, pur essendo piccola, resta una comunità molto impegnata nella società siriana, che cerca di portare i valori del Vangelo e i valori cristiani. Una comunità culturalmente formata, che non ha mai preso le armi, quindi è dialogante con tutti, è una garanzia anche per il futuro della Siria e per salvarla. Il nostro Presidente Bashar al-Assad ha detto che i cristiani qui non sono un annesso, qualcosa in più, ma sono  le radici di questa società e i garanti del pluralismo in Siria: la comunità cristiana ha questa missione ed è per questo che deve rimanere qui. Io dico sempre: aiutateci a non a lasciare questo Paese per altri migliori e a rimanere qui per continuare la nostra missione.
Lei ha anche mandato un messaggio che ha fatto il giro dei social network in Italia, e credo anche in altri Paesi, in cui lei parla anche della situazione di impunibilità: vuole raccontare quel pezzo di verità che in Occidente è negata in questo momento?
Purtroppo, pur essendoci la democrazia in Occidente e la libertà di espressione, vedo che  questa libertà di espressione è molto mortificata nel caso della guerra in Siria, perché c’è un’informazione a senso unico che vuole demonizzare il nostro Presidente e il Governo. Sappiamo bene che tutte le guerre si fanno per interessi: c’è un grosso interesse per la Siria da parte dell’Occidente che, in questi anni di guerra, ha aiutato questi gruppi ribelli che, purtroppo, non hanno nessuna visione per il futuro della Siria e non sono un’alternativa degna di guidare questo Paese, perché sono delle persone violente che hanno portato solo distruzione e violenza in Siria. Quello che oggi sta accadendo in Siria è una guerra internazionale per questi interessi e, purtroppo, questa verità fa fatica a passare. Non c’è dubbio che il nostro Presidente, attualmente, sia una garanzia dell’unità del Paese, una comunità fondamentale per questa area geografica, perché la Siria è un mosaico di culture e religioni: se questo mosaico viene spezzato, o in qualche modo diviso, ci sarebbe una pulizia etnica  e sarebbe un altro olocausto, che sicuramente nessuno desidera per il Medio Oriente, anche per le gravi conseguenze che potrebbero esserci in Europa. Qui, in questa fase, noi siriani (la maggior parte dei siriani) vogliamo essere più uniti per combattere il terrorismo e cercare di portare questo Paese a un porto sicuro, dove possiamo riprendere la ricostruzione dell’umano e della società. Chiediamo verità, verità, verità! Non disinformazione. I bambini siriani o i siriani non si aiutano con i missili, ma si aiutano se si tolgono le sanzioni al popolo siriano e se si apre un serio dialogo con il Governo siriano, che nessuno può ignorare. Quindi aiutate i siriani non a fare guerra fra di loro, ma a essere uniti, normalizzando i rapporti con la Siria e guardando all’interesse del popolo siriano e non semplicemente agli interessi economici che si possono ricavare dal dominio di questo.
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11 maggio 2018

Il ciclo della menzogna, di Thierry Meyssan

Quando vogliono condannare un sospettato, gli occidentali lo accusano di ogni sorta di crimine, fino a creare le condizioni per poter emettere la sentenza. Verità e Giustizia non hanno importanza, quel che conta è salvaguardare il potere. Ritornando sull'accusa alla Siria di far uso di armi chimiche, Thierry Meyssan ricorda che, sebbene essa risalga ad alcuni anni fa, il principio secondo cui la Siria è designata colpevole è vecchio di oltre duemila anni.

Gli occidentali affermano che nel 2011 è iniziata in Siria una «guerra civile». Eppure, nel 2003 il Congresso USA adottò, e il presidente George W. Bush firmò, una dichiarazione di guerra a Siria e Libano (il Syria Accountability and Lebanese Sovereignty Restoration Act [1], Legge sulle responsabilità della Siria e per il ripristino della sovranità libanese).
Dopo il vano tentativo del segretario di Stato Colin Powell, che nel 2004 avrebbe voluto trasformare la Lega Araba in tribunale regionale (vertice di Tunisi), l’aggressione occidentale poté iniziare grazie all’assassinio nel 2005 dell’ex primo ministro libanese, Rafic Hariri.
L’ambasciatore americano a Beirut, Jeffrey Feltman — che probabilmente organizzò in prima persona il crimine —, accusò immediatamente i presidenti Bashar al-Assad ed Émile Lahoud. L’ONU inviò in Libano una commissione d’inchiesta. Successivamente, gli organi esecutivi dell’ONU e del Libano istituirono, senza ratifica dell’Assemblea Generale dell’ONU né del parlamento libanese, uno pseudo-tribunale internazionale, che da subito ebbe a disposizione testimonianze e prove convincenti. Data per scontata e imminente la condanna, Assad e Lahoud furono messi al bando dal consorzio delle nazioni, alcuni generali furono arrestati dall’ONU e tenuti in carcere per anni, senza nemmeno essere messi in stato d’accusa. Ciononostante, i falsi testimoni furono smascherati, le prove persero fondatezza e l’accusa andò in frantumi. I generali furono messi in libertà, con tante scuse. Bashar al-Assad ed Émile Lahoud furono di nuovo considerati personalità frequentabili.
Tredici anni sono trascorsi, Jeffrey Feltman è il numero due delle Nazioni Unite e l’avvenimento del giorno è il pretestuoso attacco chimico della Ghuta. Ora come allora ci sono testimonianze (i Caschi Bianchi) e prove (foto e video) che si pretenderebbero convincenti. E, come al solito, il presunto colpevole è il presidente al-Assad. L’accusa è stata preparata con cura, sulla base di voci che circolano dal 2013. Senza aspettare che l’OPAC accertasse i fatti, gli occidentali si sono eretti a giudici e boia, hanno condannato la Siria e l’hanno punita, bombardandola.
Senonché la Russia è oggi ridiventata una super-potenza, parigrado con gli Stati Uniti, e ha potuto pretendere il rispetto delle procedure internazionali e l’invio di una commissione dell’OPAC a Damasco. Ed è sempre la Russia che ha portato all’Aia 17 testimoni oculari del presunto attacco chimico per comprovare la manipolazione mediatica dei Caschi Bianchi.
Come hanno reagito i 17 Paesi dell’Alleanza Occidentale presenti all’Aia? Si sono rifiutati di ascoltare i testimoni e di metterli a confronto con i Caschi Bianchi. Hanno pubblicato un breve comunicato per denunciare lo show russo [2]. Immemori di aver già giudicato e punito la Siria, hanno sottolineato che l’audizione dei testimoni era lesiva dell’autorità dell’OPAC. Hanno ricordato che il direttore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) aveva già confermato l’attacco chimico e che era indecente rimetterlo in discussione. Ovviamente, hanno richiamato la Russia al rispetto di quel Diritto Internazionale che essi violano senza tregua.
Si dà il caso che la dichiarazione dell’OMS contravvenga alle sue prerogative; che non sia stata assertiva, bensì condizionale; che non si sia fondata su rapporti di funzionari, bensì unicamente su testimonianze di ONG, sue partner, che riportavano le accuse… dei Caschi Bianchi [3].
Sono duemila anni che l’occidente scandisce «Carthago delenda est!» (Cartagine deve essere distrutta!) [4], sebbene nessuno sappia cosa si rimproverasse a quest’equivalente tunisina dell’odierna Siria. In Occidente, questo sinistro slogan è diventato un riflesso condizionato.
In ogni angolo del mondo la saggezza popolare assicura che «Il più forte ha sempre ragione». È la morale delle favole dei Panchatantra indiani, del greco Esopo, del francese Jean de La Fontaine e del russo Ivan Krilov, ma proviene forse dall’antico saggio siriano Ahiqar.
Ebbene, la buffonata del fallito bombardamento del 14 aprile ha reso gli occidentali “i più forti”, ma solo nelle menzogne.

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[1The Syria Accountability and Lebanese Sovereignty Restauration Act, H.R. 1828, S. 982, Voltaire Network, 12 December 2003.
[3] « L’OMS s’inquiète de la suspicion d’attaques chimiques en Syrie », Réseau Voltaire, 11 avril 2018.
[4Cathargo delenda est è uno slogan reso popolare da Catone il Vecchio. Il senatore lo pronunciava al termine di ogni suo discorso. Il solo crimine di Cartagine sembra fosse essere più fiorente di Roma.