Mino Pecorelli era un uomo senza paura. Un giornalista che cercava la verità, non quella apparente, messa in scena dai politici sul grande palco mediatico, ma quella che non si riesce a vedere, di cui pochi sanno, la verità nascosta nei camerini dei vari artisti, noti e meno noti, e che a scoprirla spesso costa la vita.
Sull’OP, l’Osservatorio Politico, settimanale degli anni settanta, fondato da Carmine Pecorelli, si faceva giornalismo di inchiesta e si scriveva di potenti e di potere, focalizzando il motivo del redigere proprio su quelle verità nascoste che aprivano il sipario su scandali destabilizzanti.
Un settimanale di certo scomodo a molti, su cui si sono poi dette svariate cose, dall’essere parte del centro operativo di oscure trame finanziarie e politiche all’avere collegamenti diretti con i servizi segreti.
Mino Pecorelli, giornalista scomodo
Tutte cose da dimostrare, ovviamente, partendo dall’unica cosa certa: Pecorelli era un giornalista d’assalto, direttore di un giornale diverso, che disturbava gli intoccabili, per quel modo sfrontato di lanciare notizie contenenti verità irrivelabili.
“Un personaggio difficile da definire, Pecorelli. Liquidato comunque troppo in fretta come un ricattatore, quasi si volessero nascondere, dietro l’indubbia spregiudicatezza che lo distingueva, altri suoi innegabili meriti: aver anticipato con le sue denunce e quel suo modo davvero speciale di fare giornalismo, i più grandi scandali della nostra storia” – M Corrias e R. Duiz, Il Delitto Pecorelli, Milano 1996.
Le inchieste sugli scandali italiani
Nel periodo in cui
Mino Pecorelli fu ucciso, il 20 marzo 1979, nella redazione di OP erano in corso inchieste su
Michele Sindona, sullo scandalo Italcasse, sul crac della Sir, sulle Brigate Rosse e, soprattutto, sui misteri aleggianti intorno al rapimento e al delitto di Aldo Moro, che suscitavano ipotesi di relazioni con la strategia politica italiana.
Il giornale e il giornalista erano pericolosi, aggressivi, spregiudicati, impertinenti, come sostennero poi i magistrati di Perugia che
indagarono sulla morte di Pecorelli, “…
Lanciava stilettate che colpivano un obiettivo preciso, ma non sempre chiaramente individuabile da tutti i lettori. Certamente però individuato da uno di essi. L’obiettivo stesso”.
Le inchieste sul caso Moro e la morte misteriosa
Particolarmente, le inchieste di Pecorelli erano incentrate sul caso Moro e lo scandalo petroli e in entrambe erano coinvolti alti vertici della politica e della Guardia di Finanza. Successivamente all’omicidio, nella tipografia fu ritrovata l’ultima copertina di OP, senza pagine interne e titolata: Gli assegni del Presidente.
“Dopo questo numero o mi arricchisco o mi ammazzano”, disse Mino Pecorelli a un amico poco prima del 20 marzo 1979 quando, in via Orazio, quattro colpi di pistola calibro 7,65, sparati da distanza ravvicinata, lo raggiunsero al volto e alla schiena. Era seduto in macchina, aveva appena lasciato la redazione di OP, in via Tacito, e stava tornando a casa. Chi lo ha ucciso, chi è il mandante, perché?
Il dossier trafugato nella casa di Pecorelli
Le piste da battere partono dalle inchieste che Pecorelli stava svolgendo: scandalo petroli e caso Moro. Nella casa del giornalista è trovato
un dossier trafugato dal SID, ex
servizio segreto, in cui si troverebbero le prove che implicano nel traffico illecito di petrolio libico l’allora comandante della Guardia di Finanza, Raffaele Giudice, e il fondatore del Nuovo Partito Popolare, Mario Foligno.
Un’inchiesta, questa sul petrolio, molto pericolosa, che di certo può aver dato fastidio a qualcuno, ma non pericolosa quanto quella che Pecorelli stava portando velocemente avanti sul rapimento e
l’omicidio dell’onorevole Aldo Moro. A detta di molti è proprio qui che bisogna ricercare la spiegazione dell’omicidio di via Orazio.
Il memoriale di Andreotti e l’idea di pubblicarlo
Nel libro I veleni di OP, Roma 2002, scritto da F. Pecorelli e R. Sommella, si legge che il direttore di OP avrebbe avuto tra le mani il memoriale del leader della Dc, con cui avrebbe potuto asserire che il rapimento, per opera delle Brigate Rosse, era stato “Una delle più grosse operazioni politiche compiute negli ultimi decenni in un Paese industriale” con l’obiettivo di “Allontanare il Partito comunista dall’area di potere”.
Dai Carter Cables, 500.577 trasmissioni diplomatiche del Dipartimento di Stato Usa del 1978, pubblicate da Julian Assange, WikiLeaks, viene a galla che sia gli Stati Uniti sia l’Europa temevano Aldo Moro, sfavorevoli all’entrata del Pci nel governo e nelle istituzioni, perché ciò avrebbe potuto provocare un profondo effetto in tutta l’Europa.
Il ruolo del caso Moro
La Francia di Valéry Giscard d’Estaing, è scritto nei Carte Cables, riteneva pericolosa la convinzione di Moro che non ci fossero soluzioni governative senza il Partito Comunista di Berlinguer; anche la Germania del cancelliere Helmut Schmidt non parteggiava per Moro né per i suoi accordi con i comunisti. Aldo Moro, insomma, faceva paura, destabilizzava, le sue idee di apertura alla sinistra avrebbero potuto ridisegnare il puzzle della politica europea, creare nuovi incastri, per quasi tutti impossibili.
La figura di Andreotti nel memoriale di Moro
E arriviamo al dunque. Nei giorni del sequestro, Aldo Moro scrive:
“… E’ naturale che un momento di attenzione sia dedicato all’austero regista di questa operazione di restaurazione della dignità e del potere costituzionale dello Stato e di assoluta indifferenza per quei valori umanitari i quali fanno tutt’uno con i valori umani.
Un regista freddo, impenetrabile, senza dubbi, senza palpiti, senza mai un momento di pietà umana. E questi è l’On. Andreotti, del quale gli altri sono stati tutti gli obbedienti esecutori di ordini. … (Mi sarei atteso che) … l’On. Andreotti, grato dell’investitura che gli avevo dato, desideroso di fruire di quel consiglio che con animo veramente aperto mi ripromettevo di non fargli mai mancare, si sarebbe agitato, si sarebbe preoccupato, avrebbe temuto un vuoto, avrebbe pensato si potesse sospettare che, visto com’erano andate le cose, preferisse non avere consiglieri e quelli suoi propri inviarli invece alle Brigate Rosse.
Nulla di quello che pensavo o temevo è invece accaduto. Andreotti sarebbe stato il padrone della D.C., anzi padrone della vita e della morte di democristiani e no… … (On. Andreotti) Le manca proprio il fervore umano. Le manca quell’ insieme di bontà, saggezza, flessibilità, limpidità che fanno, senza riserve, i pochi democratici cristiani che ci sono al mondo. Lei non è di questi. …
Non Le basterà la cortesia diplomatica del Presidente Carter, che Le dà (si vede che se ne intende poco) tutti i successi del trentennio democristiano, per passare alla storia. Passerà alla triste cronaca, soprattutto ora, che Le si addice.
Che cosa ricordare di Lei? La fondazione della corrente Primavera, per condizionare De Gasperi contro i partiti laici? L’abbraccio-riconciliazione con il Maresciallo Graziani? Il Governo con i liberali, sì da deviare, per sempre, le forze popolari nell’accesso alla vita dello Stato? Il flirt con i comunisti, quando si discuteva di regolamento della Camera? Il Governo coi comunisti e la doppia verità al Presidente Carter? Ricordare la Sua, del resto confessata, amicizia con Sindona e Barone? Il Suo viaggio americano con il banchetto offerto da Sindona malgrado il contrario parere dell’Ambasciatore d’Italia? La nomina di Barone al Banco di Napoli? La trattativa di Caltagirone per la successione di Arcaini? Perché Ella, On. Andreotti, ha un uomonon di secondo, ma di primo piano con Lei; non loquace, ma un uomo che capisce e sa fare”.
Giulio Andreotti e il caso Pecorelli
Andreotti non piace ad Aldo Moro: “ … (Io) potevo scegliere e scegliere nel senso della mia innata, quarantennale irriducibilediffidenza verso quest’uomo (Giulio Andreotti), sentimento che è un dato psicologico che mi sono sempre rifiutato, ed ancor oggi mi rifiuto, di approfondire e di motivare”.
Il senatore Giulio Andreotti entra nel caso Pecorelli proprio perché, secondo le ipotesi che rimbalzano da un quotidiano all’altro, il giornalista era in possesso di informazioni pregiudizievoli per l’ex presidente del consiglio. C’è da tenere in considerazione, però, che dette ipotesi, scatenate dalla deposizione del pentito di mafia Tommaso Buscetta, non sono supportate da fatti oggettivi. Ma i giudici ignorano la considerazione e il 14 aprile 1993 Giulio Andreotti è iscritto nel registro degli indagati.
La testimonianza del pentito di mafia Buscetta
Sempre seguendo le dichiarazioni di Buscetta, il pubblico ministero indaga anche i mafiosi Gaetano Badalamenti e Giuseppe Calò. Ad agosto, poi,
alcuni pentiti della Banda della Magliana, Mancini e Moretti, parlano e fanno altri nomi, coinvolgendo nella vicenda il pm romano Claudio Vitalone, il mafioso Michelangelo La Barbera e un esponente del gruppo eversivo Nuclei Armati Rivoluzionari, affiliato alla Banda della Magliana,
Massimo Carminati.
L’inchiesta, intanto, arriva a Perugia e, nel mese di luglio 1995, il procuratore capo e i sostituti del Tribunale del capoluogo umbro rinviano a giudizio,
con l’accusa di omicidio, Andreotti, Vitalone, Badalamenti, Calò, La Barbera e Carminati; per tutti gli imputati è chiesto l’ergastolo.
Rinvii a giudizio ed assoluzioni
Dopo 162 udienze, il 24 settembre 1999, sono tutti assolti, ma non è finita. I pm Cannevale e Matteini Chiari reclamano, insieme alla concessione delle attenuanti, una condanna a ventiquattro anni di reclusione per tutti gli imputati. Nel 2002, il 15 novembre, la Corte d’Assise d’Appello giudica Andreotti e Badalamenti i mandanti dell’omicidio Pecorelli, confermando i 24 anni di reclusione. Vitalone, Calò, La Barbera e Carminati sono invece assolti.
Secondo quanto affermato da Mancini e Moretti, testimoni dell’accusa, Vitalone e Andreotti sarebbero stati i mandanti dell’omicidio, ordinato in quanto Pecorelli era in possesso di documenti relativi al sequestro dello statista Aldo Moro, che gli avrebbero permesso di ricattare l’ex Presidente del Consiglio.
Le testimonianze di Mancini e Moretti
Ancora Mancini, poi, indica La Barbera e Carminati come i due esecutori materiali; le dichiarazioni del pentito della Banda della Magliana trovano riscontro in quelle fatte da Buscetta, che accusa la Mafia dell’omicidio Pecorelli, indicando i cugini Nino e Ignazio Salvo, uomini legati politicamente ad Andreotti e al boss Gaetano Badalamenti, come gli organizzatori dell’omicidio.
Di tutt’altro avviso è Raffaele Cutolo, fondatore e capo della Nuova Camorra Organizzata. L’omicidio di Pecorelli non è ‘omicidio di Mafia’, sostiene Cutolo, ma un regolamento di conti tra il giornalista e quelli della Banda della Magliana. Pecorelli, sempre secondo Cutolo, era in combutta con la malavita organizzata, per sapere su fatti inconfessabili e fare degli scoop. In particolare, dice Raffaele Cutolo, Nicolino Selis, appartenente alla Banda della Magliana e suo uomo di fiducia, gli riferì:
“…
Che (Pecorelli) stava in combutta con loro, però nello stesso tempo diceva tutto al Generale dalla Chiesa … Stava dispiaciuto perché questo giornalista diceva tutto a Dalla Chiesa e ha fatto delle cose contro di loro … (Durante una cena) Ci siamo appartati io, Giuseppucci (uno dei boss della Banda della Magliana) e Alfonso Rosanova (cassiere di Cutolo) … io volevo sapere se era vero, del perché della morte di questo povero giornalista Pecorelli … Giuseppucci mi confermò che l’avevano fatto per cose loro …”, ma chi fosse stato a sparare al giornalista Cutolo non lo sa e neanche lo sapevano Selis e Giuseppucci.– Deposizione di R. Cutolo al processo del giornalista Mino Pecorelli, Perugia 9/10/1998.
Annullamento della condanna di Andreotti
Il 30 ottobre 2003, le Sezioni unite penali della Cassazione annullano, senza rinvio, la condanna a 24 anni di carcere inflitta ad Andreotti e Badalamenti per l’omicidio Pecorelli perché “L’indicazione di un possibile interesse del mandante all’uccisione della vittima, non costituisce di per sé sola un riscontro estrinseco, come ipotetico movente, della chiamata in reità de relato di un collaboratore di giustizia”.
La tesi della Procura della Repubblica di Perugia, secondo cui l’omicidio sarebbe scaturito a seguito di un patto tra uomini politici, mafia e criminalità organizzata romana è, alla fine dei conti, drasticamente smentita. E in questa oscura vicenda, pur avendo individuato mandanti ed esecutori, paradossalmente, non fu possibile condannare alcuno.