Processi sul binario morto, inchieste stoppate, giustizia ormai agonizzante.
Tutto “normale” in tempi di coronavirus?
Possibile mai che ogni straccio di ricerca della verità vada a finire in discarica e chi ne ha diritto debba essere calpestato?
E’ naturale che la Costituzione sia stata abrogata a nostra insaputa?
Che la democrazia sia finita a marcire in cantina?
La Voce da anni segue, con la sua rubrica “misteri” e con frequenti inchieste, alcune storie che contrassegnano la drammatica vita del nostro Paese, i tanti buchi neri che la popolano, le non-verità che angosciano il nostro cammino nel corso dei decenni.
E da mesi è black out continuo. Tutto fermo anche prima dell’epidemia, ora il buio è totale.
Niente processi, ma anche stop alle inchieste: possibile mai? Mentre si discute se sia possibile effettuare videoconferenze per riprendere il filone penale.
Passiamo in rapida carrellata alcuni “misteri” che non fanno registrare più alcuna notizia: un encefalogramma piatto che crea angoscia e dovrebbe suscitare scandalo.
Ma nessuno muove un dito, nessuno s’incazza, neanche un’anima protesta.
ALPI E BORSELLINO, DEPISTAGGI PERFETTI
Partiamo dal porto delle nebbie, la procura di Roma.
Proprio ieri abbiamo rammentato l’unica foglia che s’è mossa, con l’affossamento in Vaticano dell’inchiesta sui frammenti delle ossa nel cimitero teutonico. Un’inchiesta partita un anno e mezzo fa ed effettuata – incredibile ma vero – in appena 48 ore. Tutto finito in una bolla di sapone. Con la benedizione papale e anche quella del numero uno dei tribunali vaticani, quel Giuseppe Pignatone al timone della procura delle nebbie fino ad un anno fa.
Una procura, quella capitolina, che sta cercando in tutti i modi di affossare, una volta per sempre, ogni possibile processo per l’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Il 4 aprile è scaduto il termine per la proroga delle indagini ordinate dal gip Andrea Fanelli, dopo la duplice richiesta di archiviazione avanzata dal pm Elisabetta Ceniccola e controfirmata – vale a dire pienamente avallata – da Pignatone.
Ma quel termine è passato senza che si sia mosso nulla.
Possibile mai? Rinviata anche la semplice udienza davanti al gip che doveva stabilire se proseguire nell’inchiesta oppure archiviare il tutto. Ha un senso?
Nessuno, a Roma, se ne fotte dell’inchiesta di Perugia, che tre anni fa scagionò il giovane somalo condannato da innocente a 16 anni di galera, e mise nero su bianco del clamoroso “depistaggio di Stato”. Una sentenza che apriva la strada al processo romano, invece rimasta – tanto per cambiare – ad ammuffire. Mentre mandanti e killer di Ilaria e Miran sono liberi come fringuelli.
Un’altra inchiesta – ancor più “vecchia” – resta a marcire negli scantinati del porto delle nebbie. Riguarda l’omicidio di Pier Paolo Pasolini e venne riaperta tre anni fa per la scoperta di un terzo Dna sulla scena del crimine: oltre a quello del regista e a quello di Pino Pelosi, c’è anche la traccia di una terza presenza. Prove scientifiche, inoppugnabili, presentate da un perito degli eredi Pasolini.
Immaginate che qualcosa si sia mai mosso in questi tre anni? Niente. Neanche il becco di una risposta giudiziaria. Figuriamoci adesso con l’ottima e abbondante scusa della pandemia.
Facciamo un salto in Sicilia e ci troviamo alle prese con il processo Borsellino 5. Che si articola in due filoni relativi – anche stavolta – ad un clamoroso depistaggio di Stato. Nel processo in corso (sic) a Caltanissetta sono alla sbarra quattro poliziotti del team guidato all’epoca dall’ex questore di Palermo Arnaldo La Barbera, accusati di aver taroccato il pentito Salvatore Scarantino, sulla scorta delle cui denunce sono finiti in galera, per altrettanti 16 anni, sette persone che non c’entravano niente con la strage di via D’Amelio.
Mentre a Messina mesi fa è stato aperto un fascicolo per accertare le responsabilità dei magistrati che per primi hanno indagato su quella strage, Anna Maria Palma e Carmine Petralia, dai quali – di tutta evidenza – non potevano non partire gli ordini diretti al gruppo di La Barbera.
Un processo e un’inchiesta che in pratica s’incrociano, perché entrambe hanno a che fare con quel clamoroso depistaggio di Stato che non ha mai permesso di scovare, anche in questo caso, mandanti e killer.
I “SUICIDATI” PANTANI E ROSSI
A Napoli, invece, restano le spoglie dell’inchiesta sull’omicidio di Marco Pantani, il campione che fu fermato a Madonna di Campiglio per doping e poi finito in un gorgo senza fine.
Due le inchiesta partite dopo la sua tragica fine nel residence Le Rose di Rimini il 14 febbraio 2004. Una per quella morte, appunto: nonostante l’immensa mole di prove per documentare un omicidio in piena regola, la procura di Forlì ha archiviato il tutto, e la sentenza è stata confermata dalla Cassazione.
Resta in piedi il filone approdato a Napoli, su quel Giro d’Italia del 1999 taroccato e comprato dalla camorra, che aveva scommesso sulla sconfitta del Pirata. Anche stavolta una mole di prove che riguardano le “pressioni” sull’equipe medica per alterare le provette e l’ematocrito; e il coinvolgimento dei clan che aveva puntato grosse cifre sull’esito del Giro. Forlì archivia, mentre un esposto del legale della famiglia Pantani fa riaprire due anni e mezzo fa il caso alla Procura Antimafia di Napoli. Da allora non si è mossa una foglia. Silenzio tombale.
Da un “suicidio” all’altro il passo non è lungo. Basta fare un salto a Siena, dove nessuno ha mai trovato il bandolo della matassa per il giallo sulla fine di David Rossi, il responsabile delle comunicazioni del Monte dei Paschi di Siena. Un chiaro omicidio, soprattutto per la dinamica dei fatti che documentano i segni di un trascinamento del corpo e il volo dal quinto piano di Palazzo Salimbeni, quartier generale di MPS. “Doveva morire” – David Rossi, così come Marco Pantani – perché aveva deciso di vuotare il sacco su intrighi & affari nel mondo della finanza.
Un’inchiesta subito archiviata dagli inquirenti senesi, poi riaperta solo per la tenacia della famiglia di David. E’ quindi partito un altro filone d’inchiesta, stavolta a Genova, teso a smascherare depistaggi & affossamenti – tanto per cambiare – nell’inchiesta toscana.
Ma siamo alle solite. Da un anno circa è calato il silenzio più assoluto, figurarsi negli ultimi mesi.
E le stragi di Stato? Figurarsi, peggio che andar di notte.
LE FIAMME DI STATO
Piccoli movimenti, mesi fa, per il rogo del Moby Prince, con i lavori della commissione parlamentare d’inchiesta che hanno messo nero su bianco quanto le inchieste giudiziarie siano state del tutto carenti, fuorvianti e anche stavolta depistanti. Un pesantissimo j’accuse.
Ma sapete che fine ha fatto? Neanche uno starnuto. Anzi sì, perché lo “Stato” tre mesi fa ha riconsegnato ai parenti delle vittime alcuni scatoloni con degli effetti personali rimasti anche loro a marcire per anni negli scantinati. Ma di aprire, finalmente, una vera inchiesta nemmeno a pensarci. Meglio, stavolta, “affondare” tutto e per sempre. Annegata, quindi, la pista che portava ai traffici di armi sotto l’ombrello protettivo degli americani all’indomani del conflitto in Iraq, epicentro la base a stelle e strisce di Camp Derby.
E su Ustica? L’ultima notizia riguarda un piccolo risarcimento deciso dallo Stato a favore della compagnia aerea Itavia, proprietaria del velivolo che ospitava gli 81 innocenti. La compagnia fallì pochi mesi dopo: quale senso ha ora quel risarcimento? Un altro schiaffo alla memoria dei morti, le cui famiglie sono state private di uno straccio di giustizia, essendo rimasti anche stavolta liberi di volare come fringuelli gli assassini.
E chissenefrega se la pista da seguire è chiara come un cielo limpido: il missile lanciato da una portaerei francese – con ogni probabilità la Clemanceau – per attribuire poi la responsabilità alla Libia dell’allora colonnello Gheddafi. Ma la giustizia di casa nostra ha stracciato giustizia & verità per la Ragion di Stato, e non infastidire alleati americani e francesi.
Arriviamo a tempi più recenti. Che ne sarà dei cascami del processo per la strage – e il rogo – di Viareggio? Condannati e prescritti i condannati eccellenti, come i vertici di FS e RFI, liberi di passare da una poltrona del parastato all’altra, con valanghe di emolumenti al seguito.
E l’inchiesta per l’eccidio del ponte Morandi: al palo anche i lavori della magistratura genovese?
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