11 settembre 2009

11 settembre, da quanto tempo...

11 settembre, da quanto tempo si sapeva che sarebbe accaduto? http://www.youtube.com/watch?v=RPgzSsuKyUw vedi anche: http://www.youtube.com/watch?v=IbFhfWjgY4g

09 settembre 2009

Byoblu.Com - Giorgio Stracquadanio dice

8 settembre 2009 - 19.02

Giorgio Stracquadanio dice


Giorgio Stracquadanio, deputato PDL e consulente politico di Maria Stella Gelmini, viene intervistato da RaiNews24.

Giorgio Stracquadanio dice: «Fino all’anno scorso, dipendevano dal Ministero della Pubblica Istruzione 1 milione e 300 mila persone. Il piano di riduzione prevede che in 3 anni si passi a 1 milione e duecentomila. Come si attua e perché si attua questa riduzione? Uno, si attua perché essendoci meno studenti, occorrono meno insegnanti.»

Giorgio Stracquadanio dice che ci sono meno studenti. Ma è vero?  Ecco i dati per l’anno scolastico 2009/2010:

  1. Scuola materna: per la prima volta supereremo il milione di bambini. 28 mila in più dell’anno scorso. Una media di quasi 24 bambini per classe.
  2. Scuola media: da settembre ci saranno 18 mila studenti in più. Contestualmente, ci saranno ben 120 classi in meno.
  3. Scuola superiore: Dai 21,8 alunni per classe dello scorso anno, si passa a 22,1 alunni. Ci saranno classi con più di 30 alunni, esclusi uno o più eventuali alunni disabili.
  4. Disabili: sarà l’anno record per la presenza di alunni disabili: oltre 178 mila contro i 176.000 dell’anno scorso. Gli insegnanti di sostegno, tuttavia, restano invariati: 90.469.

Giorgio Stracquadanio dice: «Il giornalismo italiano è quello che questi numeri non dice.»

O è lui che questi numeri non li dà?

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Centinaia di soccorritori dell’11/9 muoiono di cancro

Centinaia di soccorritori dell’11/9 muoiono di cancro

dust911da Russia Today

 

Gli operatori dei servizi di emergenza di New York sono stati tra i primi sulla scena del disastro dell’11 settembre, ma questo ha messo in pericolo la loro sicurezza personale. Quelli coinvolti nelle operazioni di salvataggio e in quelle di bonifica sono presto diventati eroi nazionali.

 

 

wtc-dust-911Ma ora l'85% di loro è affetto da malattie polmonari, che si dice siano state causate dalle enormi nubi di polvere.

Queste persone fanno ora appello allo stato per avere supporto medico.

Finora il governo degli Stati Uniti ha rifiutato di aiutarli.

 

 

Il pompiere eroe di New York

 

John McNamara è il caso più recente di un soccorritore di Ground Zero che muore di cancro. Ha lottato per salvare delle vite, quel giorno, ma ha perso la sua propria battaglia a soli 44 anni: una vittima del suo stesso coraggio.

 

Il suo coraggio è stato commemorato nella cattedrale di San Patrizio, dove si sono svolti i funerali di McNamara.

 

Oggi suo figlio Jack McNamara è ancora troppo giovane per capire le azioni di suo padre, quel giorno. Tutto quello che sa è che il padre era un vigile del fuoco.

 

«Io e le altre famiglie delle vittime siamo davvero sconvolti dal fatto che tanti di questi valorosi vigili del fuoco che hanno lottato per ritrovare mio figlio e per salvare gli altri stiano ora pagandone il prezzo», dice Sally Reigenhardt, il cui figlio è morto negli attentati dell'11/9.

 

I funzionari comunali, statali e federali non hanno riconosciuto un legame diretto tra i casi di cancro e le tossine di Ground Zero. Il Congresso deve ancora approvare la legislazione sanitaria sull’11/9 che richiami la copertura finanziaria federale delle spese sanitarie per i soccorritori.

 

John McNamara ha passato circa cinquecento ore a Ground Zero mentre aiutava nel soccorso e recupero. Quasi otto anni dopo, qui lo scenario è tutto di ricostruzione. Ma mentre il buco nel terreno si accorcia sempre di più, l'elenco dei decessi correlati all’11/9 diventa sempre più lungo.

 

 

"Il governo paga per questi e devo pagare per questi"

 

L’agente di polizia in pensione Mike Valentin ha avuto quattro biopsie per un tumore precanceroso in gola e deve prendere 15 pillole al giorno. Definisce l’11/9 come la Chernobyl dell’ America.

 

«Le persone che moriranno di malattie supererà il numero di persone rimaste uccise l’11 settembre. Sto parlando di migliaia, decine di migliaia di persone che avranno il cancro», prevede il soccorritore dell’11/9 Valentin.

 

Valentin racconta che ha passato quattro mesi a scavare in mezzo alle macerie di Ground Zero, dopo che i funzionari statunitensi avevano annunciato che l'aria era sicura.

 

Valentin, padre di tre figli, lamenta di spendere 15mila dollari l'anno per una cura che il governo non coprirà e denuncia che i leader degli Stati Uniti hanno voltato le spalle agli eroi cui avevano promesso che mai sarebbero stati dimenticati.

 

«Le nostre famiglie non stanno cercando di parcheggiarsi una Mercedes Benz nel cortile. Non siamo in cerca di procurarci viaggi in Europa », dice Valentin,« stiamo cercando di prenderci cura delle nostre famiglie quando per quando moriremo.»

 

Per il tempo che gli rimane, Mike Valentin promette di continuare a lottare per i risarcimenti che ritiene che meritino i first responder dell’11/9.

 

Valentin ha costituito una fondazione dei poliziotti dell’11/9 per aiutare i soccorritori in pensione che necessitano di assistenza medica: tra loro Patrick Triola, che ha trascorso mesi nelle ricerche a Ground Zero e poi è diventato vittima di un cancro ai reni.

 

In quei giorni, anche il figlio di Stephen Grossman, Robert, stava aiutando nel soccorso e recupero. Gli è stato diagnosticato un cancro terminale al cervello nel 2006, a soli 39 anni. A tutt’oggi, è ancora in coma.

 

Fonte: http://www.russiatoday.com/Top_News/2009-08-24/nyc-firemen.html.

Traduzione per Megachip a cura di Pino Cabras.


Clicca ull'immagine:

russiatodayvideo


06 settembre 2009

La storia di Kurt Sonnenfeld

La storia di Kurt Sonnenfeld, l’uomo che a Ground Zero ha filmato quel che non si deve sapere

sonnenfdi Pino Cabras - «Megachip»

New York, 11 settembre 2001, la protezione civile interviene subito. Le Torri non sono state colpite ancora, ma loro, le squadre di soccorso sono lì già da ieri, 10 settembre, per una delle tante strane esercitazioni che punteggiano lo scenario della giornata destinata a cambiare il mondo. Alle squadre viene aggregato Kurt Sonnenfeld, un cameraman molto specializzato.

 

kurt_sonnenfeld_el_perseguidoUna storia pazzesca, la sua, che parte dai miasmi di Ground Zero, passa per un dramma terribile in Colorado e approda in un esilio a Buenos Aires. Una storia che in Italia è quasi ignota. Lui l’ha raccontata in un libro pubblicato in Argentina, El Perseguido, ossia “il perseguitato”.

 

Dopo i mega-attentati dell’11 settembre 2001, in mezzo alle macerie, è tempo di soccorso, ma è anche tempo di documentazione a caldo. La FEMA, la protezione civile USA, decide che un documentarista plurilaureato e fotografo lavori nel luogo in cui sino a poco prima svettavano le Torri Gemelle. È Sonnenfeld.

 

Non è certo un novellino. La FEMA lo aveva chiamato a documentare altre situazioni critiche e di catastrofi, in segretezza. Aveva anche operato in luoghi dove si immagazzinavano, sviluppavano o trasportavano armi nucleari, biologiche e chimiche. Le competenze della FEMA sono vaste, molto più penetranti della protezione civile di altri paesi occidentali. La FEMA è nel cuore di una formidabile e opaca costituzione materiale in cui la sicurezza militare è al centro di procedure misteriose e complesse.

 

Sonnenfeld racconta che «quando è avvenuto il terribile attentato dell’11 settembre, il governo USA chiuse tutta l’area nei pressi del World Trade Center, tutta la parte sud di Manhattan, e fu vietato l’ingresso di qualsiasi tipo di apparecchio di ripresa visiva. Solo a due persone al mondo fu concesso di accedere per documentare quanto era accaduto. Io fui una di queste persone, con accesso totale e assoluto» al WTC.

 

sonn01«Io dovevo documentare con la mia videocamera quotidianamente per ore e ore, e poi in base ai rigidi parametri che mi erano stati impartiti, mettere a disposizione delle catene informative mondiali quindici o venti minuti di immagini», ricorda il professionista, che aggiunge: «dovevo consegnare tutte queste ore di filmati per le indagini che si supponeva stessero procedendo.»

 

Sonnenfeld assolve al suo dovere a Ground Zero per cinque settimane. Ma a causa di una tragica catena di eventi che si succedono, non consegna mai le registrazioni.

 

In una recente intervista alla Rete Voltaire, Sonnenfeld fa notare le anomalie che percepisce sin da subito:

«Ripensandoci, c’erano molte cose a Ground Zero che non quadravano. Era strano, a mio avviso, che mi fosse stato comunicato di andare a New York ancora prima che il secondo aereo colpisse la Torre Sud, quando i media parlavano ancora di un “piccolo aereo” entrato in collisione con la Torre Nord; una catastrofe, fino a quel punto, di dimensioni troppo ridotte per poter interessare la FEMA. Invece la FEMA fu mobilitata in pochi minuti, mentre ci vollero dieci giorni per inviarla a New Orleans dopo l’uragano Kathrina, nonostante l’abbondante preavviso! Era strano che ogni videocamera fosse severamente proibita entro il perimetro di sicurezza di Ground Zero, che l’intera zona fosse dichiarata “scena del delitto”, ma poi tutte le “prove” all’interno della scena del delitto venissero rimosse e distrutte con grande rapidità. Infine trovai molto strano che la FEMA e altre agenzie federali si fossero già posizionate nel loro centro operativo al Molo 91 il 10 settembre 2001, il giorno prima degli attacchi!»

Mentre iniziano a presentarsi questi dubbi, Sonnenfeld lavora a ritmo sostenuto. Altri dubbi più pesanti verranno più avanti, come vedremo. Intanto immortala ore e ore di scene dal disastro.

 

Un evento terribile irrompe nella sua vita, qualche mese dopo. Lo racconta lo stesso Sonnenfeld: «Poco dopo aver compiuto il servizio al Ground Zero del WTC, dove quasi tremila vite erano state stroncate, la mia stessa moglie prese la triste e tragica decisione di suicidarsi, la mattina del 1° gennaio 2002».

 

«Lo avevo attribuito dapprima al suo quadro depressivo. Purtroppo proveniva da una famiglia segnata dai suicidi. Le autorità procedettero all’inchiesta formale pertinente che stabilì la mia innocenza. Tutte le prove, compreso un biglietto suicida scritto di suo pugno, incontrovertibili prove forensi nonché le dichiarazioni sotto giuramento di poliziotti e testimoni nella corte, provarono il suicidio», spiega il documentarista, che nell’intervista alla Rete Voltaire ha anche ricordato che la donna «teneva un diario in cui registrava i suoi propositi suicidi».

 

Il biglietto suicida di Nancy Sonnenfeld ha qualcosa di criptico, per la verità. «Cosa c’è di più bello dell’amore e della morte?» con la parola "amore" depennata. «Kurt, per favore cerca aiuto!».

 

I guai per Kurt Sonnenfeld continuano ancora. Sino al limite delle torture. Durante la detenzione «fui picchiato brutalmente. Alla stazione di polizia due ufficiali mi strangolarono, impedendomi di respirare, nello stesso momento in cui un altro ufficiale mi dava vari calci all’inguine, e poi mi ficcarono una sostanza chimica corrosiva su per le narici».

 

Il racconto di Sonnenfeld descrive come poi cade a terra, in tempo per ricevere ancora altri calci prima di essere abbandonato al suolo, quasi senza respiro, le mani legate dietro la schiena e perciò impossibilitato a togliersi la sostanza irritante che gli cola sul viso.

 

Le prove che lo scagionano non bastano, la detenzione su input governativo dura sei mesi. «Durante questo tempo, le autorità mi confiscarono irregolarmente la casa e cambiarono le serrature».

 

A quanto riferisce Sonnenfeld, a causa delle «prove schiaccianti che dimostravano che quello di mia moglie era un suicidio, l’accusa vide che non c’erano elementi a mio carico e chiese il mio proscioglimento. Il giudice concordò in pieno sulla mia innocenza e venni rilasciato».

 

Una volta liberato, dopo aver perso tutto, snervato da tanti e tali abusi, Sonnenfeld fa causa alla polizia e alle autorità della città per arresto arbitrario, coercizione illegale e torture, detenzione arbitraria, diffamazione, uso eccessivo della forza, violazione dei diritti umani e civili. Sonnenfeld parla pubblicamente contro le autorità e le critica sui media.

 

Alle sue denunce seguono ulteriori procedimenti: «Notai allora delle auto ferme di fronte a casa mia a osservarmi; certe volte, quando rientravo, l’allarme era disattivato; la polizia mi poneva in stato di fermo senza motivo. Dovetti starmene a casa di alcuni amici in un’altra città. Ma il loro domicilio fu violato, benché nulla venisse loro rubato».

 

La pressione e l’apparenza di un accanimento personale contro di lui crescono. Sonnenfeld abbandona lo stato del Colorado, dov’era nato e cresciuto, senza che questo fermi la persecuzione. «Fu a quel punto che alcuni degli amici che avevano parenti qui, in Argentina, mi proposero di venire e di farmi dare la chiave di uno dei loro appartamenti a San Bernardo (sulla costa atlantica della provincia di Buenos Aires)», ricorda Sonnenfeld.

 

sonn02Arrivato con l’intento di stare lì solo poche settimane, il tempo di far decantare le spaventose pressioni e tensioni, Sonnenfeld si trattiene invece più a lungo, fino a conoscere Paula, la donna che poi sposa nel 2003. Una nuova vita, che ricomincia in Argentina e che, negli intenti degli sposi, deve continuare negli Stati Uniti. Serve il visto per Paula. L’ambasciata USA oppone ostacoli burocratici. Il tempo d’attesa è usato per chiedere un visto permanente per lei, una donna combattiva che se ne intende di pratiche di emigrazione. È infatti un avvocato, consulente legale di un’associazione che si occupa di donne immigrate e rifugiate in Argentina la AMUMRA.

 

Kurt fa in tempo a fare i primi passi da produttore indipendente. Tra giugno e luglio 2004, dopo aver consegnato un videoclip con immagini uniche a un produttore, viene fermato da alcuni agenti dell’Interpol. Su di lui pende una richiesta di estradizione dagli USA.

 

Per Sonnenfeld «negli Stati Uniti si tenne un’udienza segreta e si decise di chiedere la mia estradizione, dicendo che dopo oltre due anni, avevano improvvisamente incontrato nuove prove».

 

Quali?

 

«Due detenuti condannati, che in cambio di una riduzione nelle pene inflittegli, dicono che io avevo loro confessato che mia moglie non si era suicidata. Ignorando a quel punto la mia assoluzione e tutte le prove del suicidio», spiega Sonnenfeld, «reinventarono il caso e architettarono queste presunte nuove prove».

 

L’ordine di arresto inviato alle autorità argentine è molto insistente, in più punti, nel chiedere che siano sequestrati, confiscati e spediti negli USA tutti gli oggetti e documenti del documentarista.

 

«Nel processo originario, la mia casa rimase per sei mesi in mano alle autorità degli Stati Uniti. Allora, cosa continuano a cercare sei anni dopo?», si indigna.

 

«L’estradizione è un pretesto falso. Designato a ricondurmi sul suolo nordamericano e pormi entro la loro orbita di controllo. Ovviamente mi stanno perseguendo per via del timore che certi funzionari del governo nordamericano hanno nei confronti delle informazioni in mio possesso, e di ciò che son stato testimone», dichiara l’uomo dei documentari segreti.

 

In sostanza, quel che sostiene Sonnenfeld è che la sua versione dei fatti «si contrappone alla versione ufficiale di quanto accaduto l’11/9» poiché «metto in discussione le ragioni che giustificano la cosiddetta ‘Guerra al terrorismo’».

 

Kurt Sonnenfeld passa sette mesi nel carcere di Devoto. Altro che permessi per andare in USA, ora si tratta di evitare il ritorno. La moglie incinta, in mezzo a tanto stress, perde il bimbo. L’estradizione viene negata. È marzo 2005. Il giudice federale argentino Daniel Rafecas nota le irregolarità e «le ombre in questo caso» e la totale mancanza di garanzie sul fatto che – nel caso venisse estradato in USA – non gli si sia inflitta la pena di morte.

 

sonn03«Sin dal momento della mia liberazione, i pedinamenti, le persone che scattavano foto, le minacce e le telefonate son state un costante fattore di disturbo. Siamo pedinati regolarmente come se fossimo sul suolo nordamericano», lamenta esasperato Sonnenfeld.

 

Il governo statunitense ricorre in appello contro la prima decisione del giudice Rafecas e la Corte Suprema di Giustizia argentina non concede l’estradizione. Per una seconda volta, il magistrato ratifica la sua decisione e nega ancora l’estradizione.

 

«La decisione del Dottor Rafecas segnò la QUARTA volta che una Corte analizzava il caso orchestrato contro di me e decideva in mio favore, con l’intento di metter fine a questa prolungata ingiustizia. Ma un’altra volta ancora il governo degli Stati Uniti ha fatto appello alla decisione e il mio caso oggi si trova di nuovo presso la Corte Suprema di Giustizia argentina», spiega Sonnenfeld. Alla famiglia è stato intanto assegnato un servizio di scorta della polizia che opera 24 ore su 24.

 

Dentro una situazione che per chiunque sarebbe estenuante, i coniugi Sonnenfeld fanno mostra di una grande forza psicologica: «Stiamo lottando contro la superpotenza mondiale, una macchina che non si ferma certo davanti ai sentimenti e al dolore dell’uomo comune».

 

kurtsonnenfeld«Tutti sappiamo che le autorità nordamericane hanno mentito e falsificato le prove su chi possedeva armi di distruzione di massa, o sui legami tra Saddam Hussein e Bin Laden, per giustificare i suoi continui attacchi all’Iraq. Hanno cercato d’ingannarci circa l’esistenza delle carceri clandestine intorno al mondo e la tortura di chi vi era detenuto. E sebbene tutti sappiamo la verità, le atrocità continuano», afferma Sonnenfeld con toni indignati, che poi spinge ad alcune considerazioni più preoccupanti: «Ogni momento che condivido con la famiglia, ogni volta che usciamo sulla pubblica via, quando una delle mie figlie mi abbraccia, io so che potrebbe essere l’ultima volta. Ogni mattina mi sveglio e penso che potrebbe essere l’ultimo giorno insieme alla mia famiglia.»

 

sonn04Sono diversi i punti in cui Sonnenfeld mette in questione su punti delicatissimi le verità ufficiali sull’11 settembre. Nell’intervista alla Rete Voltaire dice: «ci si chiede di credere che tutte e quattro le “indistruttibili” scatole nere dei due jet che colpirono le Twin Towers non siano mai state ritrovate perché completamente vaporizzate, eppure io ho girato alcune riprese delle ruote di gomma del carrello di atterraggio degli aerei rimaste quasi intatte, così come i sedili, parte della fusoliera e una turbina, che non si erano per nulla vaporizzate. Detto questo, trovo piuttosto strano che tali oggetti possano essere usciti intatti da un disastro che ha trasformato gran parte delle Twin Towers in polvere sottile. E nutro seri dubbi sull’autenticità di una “turbina di jet”, di gran lunga troppo piccola per appartenere a uno dei Boeing!

Ciò che accadde all’Edificio 7 è poi incredibilmente sospetto. Ho dei video che mostrano che il cumulo di macerie era incredibilmente piccolo».

Lo stesso edificio mai menzionato nell’inchiesta della Commissione sull’11/9 interamente controllata da un fedelissimo di Bush, Philip Zelikow.

 

Sonnenfeld descrive la stranezza di molte immagini da lui registrate, le quali dimostrano ad esempio che un vasto ufficio blindato dei servizi segreti all’Edificio 6 appariva inspiegabilmente svuotato di documenti, come se qualcuno fosse intervenuto prima degli attacchi.

 

Per Sonnenfeld ora è difficile assicurare anche certe risorse materiali banali e quotidiane, nel lavoro e in famiglia, in assenza di un quadro giuridico consolidato e dei documenti giusti per la sua condizione di cittadinanza.

 

Alla battaglia di Kurt e Paula si sono uniti anche alcuni nomi di grande peso nella società civile argentina, a partire dal vincitore del Premio Nobel per la pace Adolfo Pérez Esquivel, fino a tutta la galassia di associazioni forgiatesi nella battaglia per la verità e i diritti umani sin dai tempi dei desaparecidos, comprese le madri di Plaza de Mayo.

 

Accanto a questa premura per un caso giuridico particolarmente penoso per i suoi protagonisti, la vicenda di Kurt Sonnenfeld e il suo libro sollevano questioni importanti in merito alla necessità di una nuova inchiesta sulle vicende dell’11 settembre: la testimonianza interna di un occhio molto potente ed elettronico come quello di Sonnenfeld, assieme ad altri documenti, audiovisivi e non solo, attesta l’anomalia di una giornata, l’11 settembre, che a certe strutture non sembrava poi così inattesa.

 

 

Leggi anche:

- www.sott.net

- blogghete.blog.dada.net.


La mia tv vi porterà libertà e democrazia

Il video dello show di Berlusconi sulla (sua) televisione tunisina: "La mia tv vi porterà libertà e democrazia"

"La politica del mio governo è dare casa, lavoro, istruzione e assistenza sanitaria ai migranti"
Lo scorso 18 agosto Berlusconi è stato in visita privata a Tunisi. La mattina un incontro con il presidente Ben Alì, e nel pomeriggio la partecipazione a Ness Nessma, programma di Nessma TV, la televisione satellitare tunisina acquisita, lo scorso anno, per il 50 per cento, da Mediaset e da Quinta Communications, società di produzione di Tarak Ben Ammar di cui è socio di rilievo anche il gruppo Fininvest e nel cui capitale, alla fine di giugno, è entrata, tramite la Lafitrade, pure Tripoli (ai più maliziosi basterà questo solo dato per comprendere la ratio della politica mediterranea dell’attuale governo…). Tra un ricordo commosso del viaggio in Libia (“un evento storico e coraggioso”, lo ha definito il conduttore), ed una breve dissertazione su quello che è il ruolo della televisione e su quanto di buono ("libertà e democrazia") la (sua) televisione potrà portare alla gente del Nord Africa (“Crede che Nessma TV sarà capace di cambiare il volto del Maghreb così come le sue televisioni già hanno fatto con quello dell’Italia?”, gli chiedeva la co-conduttrice), ospite della tv tunisina Berlusconi ha parlato anche di immigrazione. Con un discorso evidentemente non concordato con il ministro Maroni. Perché se in Italia il presidente del Consiglio ha bisogno di assecondare, sul tema, la propaganda leghista, dall’altra parte del Mediterraneo l’uomo d’affari Berlusconi ha un mercato di 80 milioni di telespettatori da conquistare. Spettatori che hanno quindi potuto apprendere di come la politica del governo italiano sia tesa ad “aumentare i canali di ingresso legali” e a garantire, ai migranti, “casa, lavoro, istruzione” e -udite udite- “l’apertura di tutti i nostri ospedali alle loro necessità”, perché “pure gli italiani sono stati emigranti, e quindi devono aprire il loro cuore a chi oggi viene in Italia”. Di seguito il video della trasmissione. L’ho tradotto e sottotitolato in italiano, affinché anche voi possiate scoprire che il pacchetto sicurezza in realtà non è mai esistito.
Berlusconi su Nessma TV (prima parte)
Berlusconi su Nessma TV (seconda parte)
www.youtube.com/watch?v=buOLH4UwAaA
danielesensi.blogspot.com

05 settembre 2009

Tutto quello che non avrebbero voluto farci sapere sull'11/9

L’inchiesta. Tutto quello che non avrebbero voluto farci sapere sull’11/9


911di Carlo Bonini - «Il Venerdì di Repubblica», 28 agosto 2009.

Segue una nota di «Megachip» a cura di Pino Cabras.

 

I rapporti tra Kissinger e i sauditi. Quelli tra il direttore della Commissione d’inchiesta sull’attentato e i fedelissimi di Bush jr. Nell'anniversario della strage, un cronista del «New York Times» svela chi ha lavorato per insabbiare la verità.

 

 

duephilipNella disastrosa eredità consegnata all’America e al mondo intero da due mandati presidenziali repubblicani, c’è una ferita più profonda di altre che ha a che fare con la Verità e la Menzogna. Con le premesse dell’11 settembre e le sue conseguenze. E come sempre accade nelle grandi democrazie, il tempo, da solo, non è mai una buona medicina. Perché l’oblio non è una risposta. Per questo, a otto anni di distanza da quel giorno che ha cambiato per sempre il corso della Storia, la domanda su quella mattina di orrore e di sangue non è più «come è potuto accadere», ma un’altra. A ben vedere cruciale. Chi è il padre della verità sull’11 settembre? Chi, dunque, davvero ne ha indirizzato il percorso e gli approdi?

 

Come è noto, la verità ufficiale sull’11 settembre ha la firma di una Commissione d’inchiesta (9/11 Commission) bipartisan del Parlamento americano (cinque repubblicani e altrettanti democratici), che, nell’estate del 2004, rassegnò le proprie conclusioni e raccomandazioni al termine di un lavoro i cui atti, disponibili in rete e raccolti per altro in un volume, sono diventati nel tempo un testo di diffusione mondiale. A quelle conclusioni – che di fatto non riuscirono a individuare responsabilità politiche cruciali né nell’amministrazione repubblicana di allora né in quella democratica che l’aveva preceduta, ma al contrario, illuminarono solo una lunga catena di falle nel sofisticato, ma burocratico, apparato della sicurezza e dell’intelligence – a tutt’oggi non crede un 53 per cento degli americani, convinto come è che «il governo abbia nascosto tutto o in parte la verità».

 

Nelle ragioni di questa sfiducia si ripropone evidentemente l’attualità della domanda - chi è il padre della verità sull’li settembre? - e il presupposto di un eccellente lavoro di inchiesta giornalistica che porta la firma di un autorevole cronista del «New York Times», Philip Shenon. Una storia di 583 pagine magnificamente documentata, trasparente quanto ricca nelle fonti, che a quella domanda offre delle prime risposte e che ora, a un anno dalla pubblicazione negli Stati Uniti, arriva nella sua traduzione e titolo italiani: Omissis, tutto quello che non hanno voluto farci sapere sull’11 settembre (Piemme edizioni).

 

Scrive Shenon: «Ho cominciato a lavorare al libro nel gennaio del 2003, quando il «New York Times» mi affidò l’incarico di occuparmi della Commissione sull’11 settembre.

 

Non ero sicuro di volere quel lavoro. È strano ripensarci adesso, ma all’epoca non era chiaro se la Commissione avrebbe suscitato l’interesse dell’opinione pubblica. (...) Oggi sono grato a chi mi fece cambiare idea e mi convinse ad accettare». Nello stupore «postumo» di Shenon non c’è soltanto l’onesta ammissione di quel clima di anestesia e manipolazione collettiva che, per anni, ha imprigionato opinione pubblica e media americani, convinti delle «verità» dell’11 settembre prima ancora che fossero indagate, come delle «ragioni» truccate della guerra in Iraq. C’è la stessa sorpresa che percorre e annoda tutti i passaggi di questa controinchiesta sul lavoro della Commissione 11 settembre e che, a dispetto della sua intricata e affollata trama, dei suoi protagonisti, dei suoi luoghi claustrofobici (la scena si svolge per intero nella Washington dei palazzi del potere, chiusa tra Pennsylvania Avenue e K Street, tra la Casa Bianca, Capitol Hill e gli uffici che la Commissione aveva individuato come suo quartier generale), si lascia leggere anche da chi non ha alcuna familiarità con i corridoi e il retrobottega della politica americana.

Nello scomporre e passare al microscopio i passaggi cruciali del lavoro della Commissione 11 settembre, l’inchiesta di Shenon, in un plot rigidamente cronologico (maggio 2002-luglio 2004), si svela infatti per quello che è: una cronaca del potere. Innanzitutto vera e non avventurosa, perché documentata. Ma anche simbolica. Per la sua capacità di raccontare come, all’indomani dell’11 settembre, il problema (per altro non solo americano, per chi ha voglia di ricordare quale sia stato il cover-up del governo italiano sul coinvolgimento dell’intelligence del nostro Paese nella vicenda dell’uranio nigeriano: il cosiddetto affare Niger-gate) non fu la ricerca della verità. Ma la ricerca di una verità «compatibile». Che, al contrario di qualunque verità, non facesse male a nessuno. Che collimasse con l’interesse domestico di un’amministrazione che si preparava a chiedere un secondo mandato agli elettori. Che non superasse la soglia di tolleranza al dolore delle burocrazie della sicurezza interna (Fbi) ed esterna (Cia) e degli uomini che in quel momento le dirigevano (Robert Mueller e George Tenet). Che mantenesse intatto il segreto inconfessabile del regime saudita e dunque i suoi legami con i dirottatori dell’11 settembre. Che insomma accompagnasse, senza farle deragliare, le politiche, le strategie, le priorità di intervento contro la violenza del radicalismo islamico battezzate dalla Casa Bianca di George Bush e Dick Cheney.

 

Messe in fila, le «rivelazioni» del lavoro di Shenon acquistano così un senso corale e intelligibile. Per citarne solo alcune, si comprende per quale motivo, all’indomani della sua nomina a presidente della Commissione 11 settembre, l’ex segretario di Stato Henry Kissinger preferì dimettersi, piuttosto che svelare all’America, e prima ancora alle aggressive Jersey girls (il gruppo delle vedove dell’attacco alle Torri Gemelle), quali clienti sauditi («i Bin Laden?», gli fu chiesto) avesse nel proprio portafoglio la sua Kissinger associates e dunque quale potenziale conflitto di interessi lo assediasse. E per quale motivo finirono sepolti negli atti della Commissione dettagli capaci di raccontare qualcosa di più e di molto diverso sui dirottatori dell’11 settembre, di smontare la loro rappresentazione di martiri ammaestrati con la lettera del Corano in qualche sperduta caverna afgana (non solo il sostegno che ricevettero da sauditi residenti in California durante il periodo del loro addestramento, ma, ad esempio, anche le loro visite nei sexy-shop e la loro frequentazione di escort). Di più: si intuiscono le ragioni del terrore che aggredì Sandy Berger, ex consigliere per la sicurezza nazionale di Bili Clinton, all’indomani dell’attacco alle Torri e al Pentagono, convincendolo a trafugare dagli Archivi nazionali di Washington documenti coperti da segreto di Stato che gli avrebbero consentito di preparare una difesa politica credibile dell’amministrazione democratica di cui aveva fatto parte e del suo impegno nella lotta ad Osama Bin Laden e alla sua Al Qaeda.

Naturalmente, Shenon dà un nome a chi fece in modo che l’indagine della Commissione 11 settembre, a dispetto dei suoi poteri di inchiesta, della straordinaria qualità dei suoi investigatori e del suo ufficio di presidenza bipartisan (il repubblicano Tom Kean e il democratico Lee Hamilton) finisse con il cercare soltanto una «verità compatibile». Ed è un nome, Philip Zelikow, che nel nostro Paese non dice nulla a nessuno.

 

Professore dell’università della Virginia, Zelikow, da direttore esecutivo della Commissione, sarà cruciale nella scelta dei testimoni da cercare e interrogare. Negli atti da acquisire o da cestinare.

 

Fino a diventare il vero padrone della Commissione, capace di governarne di fatto ogni mossa di indagine. I suoi rapporti con Karl Rove (l’uomo che inventò Bush) e con Condoleezza Rice, le sue costanti telefonate alla Casa Bianca, saranno a lungo il suo «segreto». Con il suo Omissis, Shenon lo fa cadere.

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Nota di Megachip a cura di Pino Cabras:

C’è una frase illuminante, in questo articolo di Carlo Bonini, quando sostiene che il problema che volevano risolvere le inchieste «non fu la ricerca della verità. Ma la ricerca di una verità “compatibile”. Che, al contrario di qualunque verità, non facesse male a nessuno.» È un interessante epitaffio da iscrivere sulle barriere sollevate per anni dai mitografi della Verità Ufficiale, sia quelli a presidio delle redazioni dei grandi organi d’informazione, sia quelli scatenatisi sul web.

Possiamo dire che è franata miseramente la prima diga della verità “compatibile”, eretta intorno alle bugie ufficiali, anche se ha resistito per quasi un decennio, con la complicità e i silenzi della corrente principale dei mass media. Oggi le acque avanzano fino alla seconda diga, dove si raccoglie un’altra verità “compatibile”, che cerca ancora di salvare i poteri coinvolti nell’11/9, ma è ormai costretta ad ammettere che il lago delle complicità a sostegno dell’attentato era enormemente più vasto di quello che si raccoglieva intorno alla ventina di presunti attentatori, i quali non appaiono peraltro più credibili come tipici fondamentalisti islamici di ispirazione salafita, laddove frequentavano perfino più escort del nostro premier.

Siamo sulla buona strada. Ci rimane finanche il buonumore per la chiusura di Bonini, che ringrazia Philip Shenon per aver fatto finalmente “cadere il segreto” sulla figura di Zelikow, il “padrone” della Commissione d’inchiesta sull’11/9. Possiamo consigliargli decine di siti e di libri che – anche dalle nostre parti – la questione Zelikow l’avevano posta eccome, da anni, beccandosi il comodo epiteto di “complottisti”. Senza attendere un altro decennio, troverà già oggi anche i materiali che arriveranno poi alla terza e alla quarta diga.


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Il Movimento per la verita' sull'11/9 in Italia

Il Movimento per la verita' sull'11/9 in Italia

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di ReOpen911.info - 2 Settembre 2009
Intervista a Giulietto Chiesa di ReOpen911
In occasione dell’ottavo anniversario degli avvenimenti, ReOpen911 svolge un giro d’orizzonte europeo del movimento per la verità sull’11 settembre, paese per paese. In questo quadro abbiamo contattato l’ex eurodeputato Giulietto Chiesa per spiegarci il caso italiano.


Chiesa, secondo lei l’11 Settembre - così come i problemi di geopolitica/politica internazionale - interessano i suoi concittadini?
L’informazione sull’11 settembre concerne un’infima minoranza di persone. La maggior parte dell’intelligencija diffusa, i ceti medi, sono completamente assorbiti da altri problemi e non ricordano nulla. La grande massa della popolazione è totalmente all’oscuro. La geopolitica internazionale concerne lo 0,1% della gente informata.

Come è organizzato il movimento italiano per la verità sull’11/9? Ha legami o contatti ou des con le altre associazioni o movimenti per la pace, la giustizia o la libertà dell’informazione?
Devo dire con grande franchezza che non esiste, in realtà, un «movimento italiano per la verità sull’11 settembre. Esiste un vasto movimento, articolato in diverse organizzazioni e associazioni, che si batte, disordinatamente, per la libertà d’informazione. Ma si sente acutamente la mancanza di una visione e di una cultura dei media. Debord è sconosciuto. Mc Luhan è lontano. «Divertirsi da morire» l’hanno letto pochissimi. Quindi la battaglia è impari. Quasi nessuno ha ancora capito l’influenza della televisione sul cambiamento radicale della politica. Nessuno o quasi ha analizzato la mutazione antropologica prodotta con l’arrivo sulla scena dell’«homo videns».

Con il film «ZERO – Inchiesta sull’11 Settembre», ha lanciato un sasso nello stagno mediatico-politico. Il film è stato visto da diverse centinaia di migliaia d’italiani, attraverso proiezioni e vendite di DVD. Lei ha partecipato a diverse trasmissioni televisive che in tali occasioni hanno battuto i record di audience. Direbbe che in Italia il dibattito sull’11/9 è aperto/possibile/in corso e che la presa di coscienza del popolo italiano sui problemi dell’11/9 abbia fatto passi avanti con questo film?

Sicuramente il film ha dato un impulso enorme alla conoscenza del problema. In Russia almeno 30 milioni di persone lo hanno visto e apprezzato. Questa è una delle ragioni della mia popolarità in Russia. Ma, anche in Europa, la massa di persone che è a conoscenza del problema manca completamente di un punto di riferimento politico che trasformi i suoi sospetti in azione politica.

Uno degli ostacoli che impedisce l’emergere di un vero dibattito sull’11/9 è il blocco psicologico legato a questo avvenimento, che soffoca un autentica discussione argomentata. È come se non fosse bene conoscere la verità, perché troppo dolorosa per le nostre democrazie, e in grado di rimettere in causa la fiducia dei popoli verso le autorità e i loro governi. Ritiene che l’Italia, con il suo recente passato e la scoperta di certi scandali di Stato, abbia superato questo blocco e sia pronta a recepire questa verità più facilmente rispetto ad altri paesi?
Sfortunatamente molto deve ancora avvenire prima che questo blocco psicologico sia superato. Faccio un esempio. Nei giorni scorsi ho mostrato Zero, in una proiezione privata, a dieci persone della classe media agiata, intellettuali in senso lato, che ho conosciuto solo in quella occasione. Siamo nel 2009: ebbene nessuno di loro era a conoscenza del problema 11/9. Tutti sono stati molto colpiti, scossi perfino. Ma senza una continuità è impossibile che si produca un cambiamento.

Dopo i riflettori dei media alla fine del 2007 in occasione dell’uscita del vostro film e del vostro libro ZERO, la stampa e la TV italiana parlano ancora, nel 2009, delle teorie alternative sull’11/9?
La novità recente è stata l’apparizione negli Stati Uniti del libro di un giornalista del New Your Time, Philip Shenon (in edizione italiana, per la casa editrice Piemme, «Omissis:Tutto quello che non hanno voluto farci sapere sull11 settembre»), interamente dedicato a una inchiesta sulla famosa Commissione d’inchiesta sull’11 settembre del governo degli Stati Uniti. Le clamorose conclusoni di questa inchiesta sull’inchiesta hanno costretto Carlo Bonini, influente analista de La Repubblica, acerrimo sostenitore delle critiche ai “complottisti” (in particolare contro di me), a scrivere un articolo per «Il Venerdì», in cui riconosce che i risultati della Commissione americana sono stati falsificati sotto il comando di Philip Zelikow. Il giornalista in questione attaccò il film Zero, due anni fa, evidentemente senza nemmeno avere letto una riga delle risultanze di quella Commissione e adesso ammette che le cose sono state falsificate. È interessante notare che la casa editrice Piemme è la stessa che pubblicò il mio volume Zero e il DVD del film. Ricordo questo esempio solo per dire che i semi gettati danno talvolta frutti con grande ritardo. Ma li danno.
Inoltre penso che il fatto stesso che il «New York Times» faccia uscire questo tipo di notizie indica che qualche cosa si sta rompendo all’interno della leadership americana. La diga della menzogna non è senza crepe. La battaglia è in corso.

L’11/9 era 8 anni fa. Certi diranno che si tratta di una vecchia storia e che non serve rimestare il passato, che occorre andare avanti. In cosa la presa di coscienza delle menzogne sull’11/9 può far progredire la nostra democrazia?
Continuo a pensare che, senza la verità sull’11 settembre, il rischio di essere trascinati, noi occidentali, in una gigantesca guerra (nucleare) resterà altissimo. E, naturalmente, non contro al-Qa‘ida, ma contro la Cina, e la Russia.

L’Italia è molto più avanti della Francia in materia di discussione sull’11/9. Nessun film francese affronta la questione, nessun politico ne parla, nessun programma televisivo organizza dei dibattiti né trasmette film che sostengano le tesi alternative, tutte cose che si sono verificate negli ultimi anni in Italia. Nonostante questo, si direbbe che l'impatto di questo dibattito sugli italiani resti ancora debole, che ci sia una certa rassegnazione di fronte ai “grandi avvenimenti”, che i suoi connazionali passino facilmente ad altre cose, a questioni più concrete. Questa impressione è vera?

È vera. L’intelligencija italiana non è molto migliore di quella francese. La politica italiana è talmente sprofondata nel pantano di un capo del governo che passa il suo tempo con le escort, che ogni discussione seria è ormai impossibile.

Il lavoro di informazione sull’11/9 è un lavoro di fondo. Quando era un eurodeputato, ha tentato di sondare i suoi colleghi, che siedono nel Parlamento europeo o italiano. Pensa che nonostante la loro totale silenzio su questa materia, sia riuscito a sensibilizzare qualcuno di loro?
Alcuni adesso sanno. Ma il ricatto è potente. Chi si occupa di queste questioni deve dire addio alla sua carriera politica. La sinistra europea, nella sua quasi totalità ha taciuto e tace. Non hanno visione e, quindi non hanno strategia. Se si vuole stare dentro l’establishment, in queste condizioni, è obbligatorio tacere.

L'Italia fa parte della NATO e ospita sul suo territorio numerose basi militari americane. Il legame strategico con gli Stati Uniti è forte. In queste condizioni, è realistico immaginare che la classe politica italiana si impegni sul terreno dell’11/9 senza che gli Stati Uniti non lo facciano essi stessi?
La casta politica italiana è troppo vigliacca e subalterna per poter alzare la testa. La verità potrà emergere solo dagli Stati Uniti. Emergerà dagli Stati Uniti perché la crisi li sta travolgendo. E un vasto movimento di opinione internazionale sarà la levatrice di questa emersione. Il quadro è difficile, ma io penso che non bisogna arrendersi. Ne va della nostra comune sopravvivenza.

Lei ha partecipato attivamente alla formazione di «Political Leaders for 911 Truth». Dove si trova questo gruppo di politici e quali sono le vostre prossime sfide?
Ci sono in questo movimento persone di alta qualità e valore morale. Lavoro con loro con grande spirito di fraternità e con visione strategica. Domani avremo bisogno di fare riferimento su un gruppo intellettuale mondiale in grado di fornire all’opinione pubblica, appunto, un quadro strategico, una visione. Il lavoro per la verità sull’11/9 è per me parte di questo più vasto disegno di preparazione ai tempi nuovi, e difficili, che si avvicinano.

In attesa di riottenere – forse – un seggio parlamentare, quali sono i suoi piani riguardanti l’11/9 per i mesi a venire?

In questo momento il compito è moltiplicare e sostenere i gruppi e le associazioni che, in molti paesi si stanno formando. Sia locali che di categoria. L’iniziativa verso gli Attori e Artisti, quella verso il Politici, quella verso i Giornalisti, sono momenti importanti per l’estensione della rete di contatti e per la creazione di lobby d’influenza. In secondo luogo bisogna riassumere tutti i dati nuovi, emersi in questi anni, che confermano e ribadiscono le nostre analisi sull’accaduto. Ci vorrebbe il denaro per fare la seconda puntata di Zero, con tutti gli elementi nuovi che sono emersi nel frattempo.

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