La vecchia massima in voga tra gli antichi romani Excusatio non petita, accusatio manifesta” è spesso fonte di pura verità.
Ed è a questa massima verso la quale il pensiero è immediatamente corso quando ieri, praticamente dal nulla, è spuntato un tweet di Matteo Renzi, nel quale l’ex presidente del Consiglio si affannava a prendere le distanze dal caso del cosiddetto Spygate.
Lo spygate è una intricata vicenda di spionaggio internazionale che aveva come preciso scopo quello di incastrare Donald Trump nel 2016, e di associarlo falsamente al Cremlino.
È un piano eversivo che è stato concepito negli ambienti dello stato profondo di Washington che sarebbe ricorso all’aiuto di un altro stato profondo, quello italiano che ha un legame a doppio filo con il primo dal 1945 in poi.
Altre volte, Renzi aveva risposto alle accuse di aver coinvolto i servizi segreti italiani in questa operazione che vedeva nei suoi principali ispiratori l’ex presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, e Hillary Clinton, ex segretario di Stato.
La differenza però questa volta sta nel fatto che nessuno sembra aver chiamato direttamente in causa Renzi per un suo eventuale coinvolgimento in questo piano eversivo ai danni di Donald Trump.
È stato Renzi spontaneamente a dichiarare che tutto questo gli appare “follia pura” e si stupisce che qualcuno nel 2019 abbia potuto prendere in considerazione questo suo coinvolgimento in questa oscura faccenda.
Il destinatario del messaggio appare essere chiaramente Giuseppe Conte che nell’estate del 2019 iniziò a collaborare su questa vicenda con l’amministrazione Trump. Era il periodo nel quale Matteo Salvini faceva cadere il suo stesso governo, il Conte I, sul bagnasciuga del Papeete su probabile ordine dei poteri forti e delle logge che avevano deciso che l’esperienza del governo gialloverde doveva concludersi lì.
Alla Lega che già all’epoca aveva dismesso la facciata del sovranismo era stato assegnato un altro ruolo, ovvero quello di preparare il terreno all’uomo del Britannia, Mario Draghi.
Ed è a questo proposito che il Carroccio ha praticamente lavorato assiduamente dall’agosto del 2019 in avanti assieme alla sponda proprio di Matteo Renzi accomunato da Salvini da Matteo Carrai, il console onorario di Israele in Toscana e uomo forte di Tel Aviv in Italia.
In quello stesso periodo, a palazzo Chigi si stavano portando avanti manovre per costruire il Conte II. Ed è proprio su quel periodo e su alcuni particolari vicende che si concentra l’attenzione di Repubblica, il quotidiano di proprietà della famiglia Elkann.
Repubblica ieri in un articolo firmato da Paolo Mastrolilli ricostruisce l’interesse dell’amministrazione Trump nell’acquisire informazioni preziose che potessero provare il ruolo dell’apparato di intelligence italiano, autorizzato presumibilmente da Renzi nel 2016, all’operazione di spionaggio perpetrata ai danni di Donald Trump.
L’amministrazione Trump decide di inviare a Roma l’allora procuratore generale William Barr per fare luce su quanto accaduto e per appurare un coinvolgimento dei servizi e di palazzo Chigi nel periodo caldo della campagna elettorale americana.
Mastrolilli riporta come Barr sbarcò a Roma il giorno di Ferragosto, il 15 agosto del 2019, per raccogliere preziose informazioni sul caso.
L’articolo di Repubblica dettaglia tutti gli spostamenti di Barr fino all’incontro ufficiale avuto dal procuratore generale con il direttore del DIS, il dipartimento delle informazioni per la sicurezza allora presieduto da Gennaro Vecchione, nominato da Giuseppe Conte.
Il DIS è la struttura che in pratica presiede l’intera rete dei servizi italiani e riveste quindi un ruolo fondamentale nel coordinamento dell’intelligence nazionale.
Fino a qui, non c’è nulla di particolarmente nuovo. Quell’incontro è stato confermato da tutti i protagonisti del caso, quali lo stesso Vecchione e Conte, come riporta anche Repubblica.
La “pietra dello scandalo” per il quotidiano di area sorosiana, è il fatto che Barr dopo l’incontro sia andato a cena in un ristorante del centro di Roma con gli uomini dei servizi italiani.
Per Repubblica in questa cena si potrebbero essere consumate delle trame misteriose che avrebbero visto i rappresentanti dei servizi condividere informazioni riservate con lo stesso Barr.
Ci sarebbe quasi da sorridere visto che il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari è il primo a tirare fuori dal prontuario dell’apparato mediatico globalista le accuse di “dietrologia” e di “complottismo” quando si denunciano gli scandali commessi dal potere dello stato profondo italiano.
Stavolta è invece proprio Repubblica a costruire una elaborata operazione di dietrologia tanto da vedere in una cena una sorta di adunata segreta tale da mettere a rischio gli “interessi nazionali”, che nel gergo capovolto del mondo progressista sono in realtà gli interessi di bottega dell’establishment politico.
Strano che Mastrolilli non sappia che quando dei rappresentanti di governi stranieri giungano in Italia per missioni di vario tipo, non è affatto inusuale che cenino con i colleghi italiani in quelli che generalmente sono incontri di cortesia che avvengono dopo quelli tenutisi nelle sedi istituzionali.
A Repubblica più che altro non sembra tanto premere la questione “dell’uso politico borderline che dei nostri Servizi Giuseppe Conte ha fatto nel tempo” come afferma ridicolmente in un altro editoriale Carlo Bonini, altro giornalista molto amato dagli ambienti delle élite liberali.
La gestione dei servizi è sempre stata politica sin dai tempi della Prima Repubblica e il loro uso ancora più spregiudicato si è intensificato da quando è nata la infausta Seconda Repubblica, concepita nel laboratorio politico di Washington e attuata su suo impulso e ordine attraverso la magistratura, braccio armato giudiziario di questi poteri transnazionali.
La campagna di depistaggio “Conte uomo di Trump”
Non si sta assistendo quindi ad un fenomeno nuovo. Occorre però sgomberare il campo da un equivoco, o meglio da una falsità che è circolata dal 2019 innanzi. Quella secondo la quale Conte avrebbe fatto tutto questo per una sua presunta devozione a Donald Trump. In realtà nulla di tutto questo corrisponde al vero.
Giuseppe Conte non è mai stato un uomo di Trump. Si tratta di una campagna di disinformazione diffusa da elementi assoldati da ambienti della politica, apparentemente vicini al M5S, che hanno diffuso ovunque questa assurdità nel tentativo di depistare il pubblico italiano più vicino a Trump e portarlo invece tra le braccia del suo nemico cresciuto alla scuola de gesuiti, come Mario Draghi.
È interessante notare come gli stessi ambienti massonici abbiano orchestrato un’altra campagna di depistaggio nel tentativo questa volta di associare invece l’uomo del Britannia a Trump.
Sono in realtà tutti sforzi coordinati dalla stessa cabina di regia che sguinzaglia degli agenti disinformatori che assumono le sembianze di apparenti sostenitori di Trump per ingannare e depistare gli italiani che riconoscono nel presidente americano un leader di riferimento nel sovranismo internazionale.
A questo punto, qualcuno potrebbe sollevare l’opzione che il celebre tweet di Trump del 27 agosto del 2019 nel quale il presidente si augurava che Conte restasse al suo posto è una “prova” della vicinanza di Conte a Trump.
Definire quel tweet un “endorsement”, un appoggio politico nel gergo politico anglosassone, a Conte è piuttosto discutibile dal momento che Trump in quell’occasione ha persino storpiato il nome dell’ex presidente del Consiglio chiamandolo “Giuseppi”.
E il presidente Trump non è conosciuto per scrivere frasi alla leggera dal momento che nel suo linguaggio è sempre piuttosto preciso e non lascia mai nulla al caso.
Una storpiatura del nome dell’ex presidente del Consiglio ha dato a diversi osservatori la netta sensazione che Trump in realtà si stesse prendendo gioco di Conte.
In quel periodo, Conte stava giocando una partita di opportunismo politico. Sapeva perfettamente che l’amministrazione Trump non avrebbe mai considerato con occhi favorevoli un governo che avrebbe visto la partecipazione del PD, gerarchicamente sottoposto al PD americano che organizzò il golpe dello Spygate nel 2016.
Conte sapeva che l’unico modo per ammansire Trump era concedere una collaborazione per appurare quanto accaduto quando Renzi era a palazzo Chigi, e per comprendere se eventualmente i servizi italiani fossero stati autorizzati a partecipare dall’allora ex premier ad un colpo di Stato internazionale concepito per impedire a Trump di salire alla presidenza degli Stati Uniti.
Renzi reagì furiosamente già all’epoca perché temeva che degli approfondimenti in questo senso avrebbero potuto gravemente danneggiarlo.
Questo però non qualifica certo Conte come un elemento ostile allo stato profondo italiano se si considera che soltanto l’anno dopo, nel 2020, lo stesso ex presidente del Consiglio è stato accusato di aver autorizzato un altro scandalo, probabilmente ancora più enorme dello Spygate, l’Italiagate del quale abbiamo parlato in passato.
L’Italiagate travalica i confini dello spionaggio per approdare in quelli di una frode internazionale che avrebbe spostato milioni di voti da Donald Trump a Joe Biden. Ad avere un ruolo decisivo secondo varie fonti vicine a questa vicenda sarebbe stata Leonardo, società partecipata dal ministero dell’Economia, che attraverso un suo satellite militare avrebbe reso possibile la frode cibernetica.
La tecnologia di Leonardo avrebbe spostato i voti per poi ritrasmetterli negli Stati Uniti alla società Dominion, legata a Soros e Obama, la quale a sua volta si sarebbe occupata della parte finale di questo elaborato broglio internazionale.
Dunque qualificare Giuseppe Conte come un uomo ostile a degli ambienti nei quali si è formata tutta la sua carriera accademica e politica è un completo controsenso, e a questo punto c’è da rispondere ad un quesito che sorge naturale.
La guerra tra bande nello stato profondo italiano imperversa furiosamente
Perché Repubblica ha tirato fuori soltanto ora dai suoi cassetti questa storia della cena di Barr con gli uomini dei servizi? La risposta è nell’articolo stesso di Bonini.
Conte sta da tempo assumendo delle posizioni che stanno disturbando una parte degli equilibri dell’establishment politico, in particolare quello più vicino al partito democratico.
La sua riluttanza a non autorizzare le spese militari prima e a criticare un eccessivo atlantismo poi non sono certo dovute ad un suo nuovo afflato sovranista.
Conte sta soltanto cercando di ritagliarsi un suo spazio politico e per poterlo fare deve battere il terreno più tradizionalmente popolare tra gli ambienti della sinistra extraparlamentare, quello della critica, legittima, della NATO.
Al tempo stesso il leader (?) del M5S sembra spingere per creare un casus belli e staccare la spina al decadente governo Draghi che ormai è dilaniato da profonde divisioni.
Il discepolo di Guido Alpa aspira probabilmente a entrare in Parlamento il prima possibile per avere una qualche copertura politica. Ad oggi, Conte non ha incarichi e nessuno sa quanto tempo ha ancora a disposizione la classe politica italiana.
Nessuno sa se un domani non si instaurino al potere delle nuove forze politiche in grado di fare luce su quanto accaduto negli ultimi due anni e di consegnare alla giustizia coloro che hanno orchestrato la farsa pandemica.
Una farsa nella quale Conte ha avuto un ruolo primario quando chiuse l’Italia e ordinò ai cittadini di uscire di casa con un pezzo di carta ne quale si dichiarava dove si andava e perché.
In quel frangente, l’allora presidente del Consiglio assunse un ruolo fondamentale perché l’Italia finì sotto la dittatura dei DPCM ministeriali.
Così come ebbe un ruolo altrettanto fondamentale la sua vicinanza con la Cina comunista attraverso la quale costituì un asse decisivo per attuare su scala globale l’operazione terroristica del coronavirus.
L’articolo di Repubblica in conclusione quindi può essere interpretato come una velina al leader pentastellato.
Alcuni ambienti dei democratici italiani non gradiscono che Conte provi ad anticipare i tempi della caduta di Draghi per il suo personale tornaconto politico e così è stato aperto un cassetto che potrebbe contenere altre informazioni.
Ciò non esclude però che anche altri possano aprire i loro di cassetti, e rivelare le informazioni che possono portare al declino definitivo delle figure di spicco della politica italiana.
Lo scenario sarebbe quello di una vera e propria guerra tra bande che infuria tra i vari membri dei clan politici che vistisi scoperti e privi di protezioni internazionali iniziano a sbranarsi a vicenda.
Il procuratore speciale John Durham vicino all’incriminazione di Hillary Clinton
A Washington però c’è qualcuno che sembra avere le idee chiare sul ruolo giocato dall’Italia in questo intrigo internazionale nel 2016, e quell’uomo è il procuratore speciale John Durham che da due anni a questa parte sta portando avanti l’inchiesta sullo Spygate.
Durham attraverso il rinvio a giudizio di Michael Sussman, avvocato di uno studio legale direttamente legato a Hillary Clinton, è arrivato praticamente a pochi centimetri dall’ex segretario di Stato americano.
Durham sa che fu Hillary Clinton a ordinare di fabbricare prove false per incastrare Donald Trump così come sa che fu l’allora presidente americano Barack Obama ad autorizzare l’FBI a spiare illegalmente il presidente.
E se John Durham sa tutto questo, è difficile pensare che non sappia se Matteo Renzi, ricevuto da Obama nell’ottobre del 2016, abbia ricevuto un qualche ordine dalla controparte americana di prendere parte al golpe contro Trump.
E se questo ordine è stato veramente trasmesso non ci sarebbe soltanto un coinvolgimento personale dell’uomo della Leopolda, ma dell’intero partito democratico italiano di cui allora Renzi era segretario.
Se la versione che è stata fornita da Papadopoulos ed altri è corretta, Matteo Renzi avrebbe rivestito un ruolo assolutamente primario nell’operazione ma in questo caso sarebbe impossibile pensare che i vertici del suo partito, così vicini ai democratici americani, non sapessero cosa stava accadendo in quell’ottobre del 2016.
Ognuno di loro infatti interruppe una consolidata tradizione di neutralità sulle elezioni americane tanto da portarli a schierarsi pubblicamente con l’allora candidata democratica Hillary Clinton, che è stata la mente del colpo di Stato contro Trump.
Proprio in quel frangente si susseguirono le dichiarazioni ufficiali dei ministri del governo Renzi, quali Gentiloni, ministro degli Esteri, la Boschi, ministro delle Riforme, e ovviamente dello stesso premier a favore della Clinton.
A Repubblica sta a cuore che i servizi non siano usati a fini politici, ma se è davvero questo l’intento di questo quotidiano, ci si chiede perché mai né Mastrolilli né Bonini si chiedano se effettivamente Matteo Renzi e il PD abbiano usato i servizi segreti italiani per rovesciare Donald Trump.
Quale uso politico dei servizi, e quale scandalo più grande di questo ci può essere? Nella storia repubblicana d’Italia, mai era accaduto che l’intelligence fosse utilizzata per ingerire negli affari di un Paese straniero tantomeno per influenzare le sue elezioni.
Nemmeno ai tempi bui della strategia della tensione quando la dipendenza di Roma da Washington era stretta, ma non così tanto da ordinare ai servizi segreti italiani di rovesciare il presidente degli Stati Uniti.
Quella dipendenza presente nella Prima Repubblica ha assunto le forme di una vera e propria sottomissione nella Seconda, quando l’attuale classe politica è ormai direttamente selezionata dagli ambienti dem e neocon americani.
A questo punto, è necessario tornare all’incipit di questo articolo. Excusatio non petita, accusatio manifesta. Tutti sembrano sapere che gli uomini di Trump hanno in mano il detonatore per far saltare la politica italiana.
Tutti sembrano saperlo e hanno già iniziato a pugnalarsi a vicenda nel tentativo di mettersi al riparo.
La guerra tra bande nello stato profondo italiano è il sintomo di un sistema che sa che il suo tempo è giunto allo scadere.
Il bottone sul telecomando per far saltare la Seconda Repubblica sembra essere stato già premuto.
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