21 giugno 2019

Mentre il mondo guarda Donald Trump, non si accorge di quello che sta veramente facendo la politica estera degli Stati Uniti


I nostri leader sanno come battere i tamburi di guerra e, di solito, noi li assecondiamo. Gli Stati Uniti minacciano di fare guerra all’Iran, in modo che l‘Iran possa chiudere lo Stretto di Hormuz e attaccare le navi da guerra americane nel Golfo? Israele colpisce obiettivi iraniani in Siria dopo che alcuni razzi sono caduti sul Golan, per far sì che che un conflitto arabo-israeliano, dopo quello del 1973, diventi sempre più probabile? Jared Kushner progetta di rendere pubblico “l’accordo del secolo” di Trump per la pace in Medio Oriente, ma non era morto e sepolto?
Nel frattempo le storie vere vengono spinte verso il fondo della pagina, o “sul retro del libro,” come eravamo soliti dire noi giornalisti.
Prendete, per esempio, l’intenzione di Donald Trump di concedere all‘Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti una fornitura supplementare di armi per un valore di miliardi di dollari, per imbarbarire sempre di più la guerra nello Yemen contro gli Houthi;  il fatto poi che questi ultimi siano sostenuti dall’Iran, almeno così sembra, è la causa di gran parte della violenza internazionale contro la Repubblica Islamica. Agenti dei servizi segreti francesi a Washington avrebbero scoperto che questa non è una richiesta abituale da parte di Riyadh, ma un appello disperato a Washington, perché talmente indiscriminato è stato l’uso da parte dei Sauditi delle munizioni fornite loro dagli Stati Uniti contro i ribelli Houthi (e contro civili, ospedali, centri di assistenza, scuole e feste di matrimonio) che stanno esaurendo le bombe, i missili guidati e non guidati, i pezzi di ricambio dei droni ed altre armi “di precisione” da utilizzare contro uno dei paesi più poveri del mondo.
Così, quando Trump si era trovato di fronte al Congresso, che voleva fermare le forniture (non ultimo perché i suoi membri erano ancora abbastanza contrariati per l’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi), l’elenco dei destinatari della fornitura di armi era stato modificato, in modo da includere il piccolo e impavido alleato dell’America, il re Abdullah II di Giordania. Certo, questo particolare era sfuggito a tutti quanti, no? Abbiamo aggiunto ai titoli [dei nostri giornali] le parole “e alla Giordania,” ma non ci siamo chiesti il perché. E le munizioni non arriveranno da vendite dirette agli Stati del Golfo, con un possibile tetto imposto dal Congresso di 25 milioni di dollari, ma dalle scorte militari del governo degli Stati Uniti e (così fanno capire i Francesi) una gran parte di queste armi andrà in Giordania.
E la cosa è molto strana, perché la Giordania, in questo momento, non è in guerra con nessuno e certamente non fa parte delle forze della “coalizione” saudita che bombardano lo Yemen.
Quindi, quanto di questi 8,1 miliardi di dollari di missili, bombe ecc. sarà inviato ad Amman? E quante di queste armi saranno scaricate dagli aerei militari statunitensi e ricaricate sui cargo sauditi, una volta che la merce sarà arrivata in Giordania? Solo una piccola, ma tradizionalmente coraggiosa, pubblicazione, l’indomito settimanale francese Le Canard enchaine ha raccolto questa storia. In passato le sue fonti di Washington si erano sempre dimostrate corrette, e tutto il miserabile trasferimento di armi è stato definito dal giornale come: “Molto scaltro, anche se non morale, [solo] una piccola inezia per nuovi massacri.”
E ora prendiamo in considerazione un’indagine del New York Times sulla distruzione della famiglia Mubarez, dovuta ad un attacco aereo americano in Afghanistan, il 23 settembre dell’anno scorso. La coalizione in Afghanistan guidata dagli USA aveva in un primo tempo negato l’attacco. Poi aveva circoscritto l’obiettivo limitandolo alle coordinate della casa della famiglia Mubarez, nella provincia di Wardak, dove la moglie di Masih Mubarez e i suoi sette figli avevano trascorso la mattinata, fino al momento del bombardamento. Il marito era in Iran. Nonostante ciò, gli Americani avevano affermato che i loro soldati si erano trovati “sotto il fuoco di un cecchino” proveniente dall’edificio e che, dopo il bombardamento, “in base alle nostre valutazioni, erano rimasti uccisi solo dei combattenti.”
Ma, dopo quelle che ovviamente erano state settimane di indagini giornalistiche condotte insieme al Bureau of Investigative Journalism, il New York Times ha rivelato questa settimana, in un articolo firmato a quattro mani, che una bomba di precisione a guida GPS, made in USA, aveva effettivamente ucciso la moglie di Mubarez; le sue quattro figlie Anisa, di 14 anni, Safia, di 12, Samina, sette e Fahima, cinque; i suoi tre figli Mohammad Wiqad, 10, Mohammad Ilyas, otto e Mohammad Fayaz, quattro; e quattro loro cugini adolescenti.
Mubarez, che aveva telefonato per l’ultima volta a sua moglie dall’Iran un’ora e mezza prima della sua morte, aeva detto degli Americani: “Possono uccidere il nemico, ma hanno distrutto solo la mia casa.” E un’ultima considerazione: nella sua ultima telefonata a casa, Mubarez aveva sentito la moglie dire che all’interno dell’abitazione erano presenti soldati americani e afghani. Che cosa significava?
In passato, questa sarebbe stata una storia da prima pagina sul New York Times. Sarebbero seguiti ulteriori articoli, forse un editoriale. Questa settimana è stata confinata nella sezione “Mondo/Asia” del quotidiano. Nell’edizione internazionale, era in fondo a pagina tre. Come il pezzo di Le Canard enchaine, anch’esso in fondo alla terza pagina, anche se in una pubblicazione di sole otto pagine; la storia sembra già essere caduta nel dimenticatoio. Come tante altre in questi giorni.
Prendiamo, ad esempio, la morte in un ospedale algerino dell’attivista berbero e avvocato Kamel Eddine Fekhar, che aveva intrapreso un lungo sciopero della fame dopo l’arresto. Il pouvoir (“potere”), lo stesso corrotto governo algerino che si era tenuto stretto il comatoso presidente Abdelaziz Bouteflika, fino a quando la folla non lo aveva costretto alle dimissioni, e che ora dice che le elezioni per un successore devono essere rinviate, aveva incarcerato Fekhar per “minacce alla sicurezza dello stato” e “incitamento all’odio razziale.” Questi erano i soliti, falsi pretesti che lo stesso pouvoir aveva utilizzato ogni volta che aveva imprigionato o ucciso gli attivisti politici durante la guerra civile del 1990-98 (i morti totali allora erano stati circa 250.000).
La storia, che altrimenti non sarebbe mai arrivata fino a noi, è stata tuttavia divulgata dal giornalista-avvocato tunisino Nessim Ben Gharbia. Ha sottolineato il fatto che Fekhar, piuttosto che essere regolarmente detenuto in attesa di processo con altri presunti sospettati, era stato tenuto in “segregazione cautelare,” dove interrogatori severi (e nel contesto algerino, dovremmo sapere cosa significa) sono condotti nei confronti di chi avrebbe commesso, secondo i testi legali, “i crimini più gravi,” un tipo di detenzione che dovrebbe essere, secondo l’articolo 59 della costituzione algerina, una misura “eccezionale.” Ma Ben Gharbia rivela in una piccola rivista in lingua francese che questa stessa normativa viene ora applicata a uomini e donne accusati di finti trasferimenti di denaro, “demoralizzazione” dell’esercito e “complotto” contro lo stato. Uno stato, si dovrebbe aggiungere, che aveva posto fine alla sua guerra civile con una legge che vietava qualsiasi punizione nei confronti dei dipendenti statali per quelli che potremmo chiamare crimini di guerra.
Le notizie di routine sulla morte di Fekhar non menzionavano questo straordinario sviluppo nel sistema carcerario del paese, che ora è considerato dall’Occidente come un bastione contro Isis e gli altri killer islamici. Né vi è stato alcun seguito, come si dice in gergo, all’articolo di Ben Gharbia.
Né è probabile che ci sia, in un mondo in cui tutti noi, più volte alla settimana, veniamo inondati dalla retorica dei Trump, dei Bolton e dei Pompeo, sì, e dei Khamenei, dei Netanyahu e dei Mohammed bin Salman.
E, suppongo, dei Farage, dei Gove e dei Johnson.
Forse è giunto il momento di non dare più a queste persone il diritto di scrivere la nostra agenda, ma di mettere delle persone reali in testa di pagina, ora che gli Assange e i Manning non possono più fare il lavoro per noi.
Robert Fisk
Fonte: www.independent.co.uk

Scelto e tradotto da Markus per comedonchisciotte.org

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