24 giugno 2019

Il vertice segreto a tre di Gerusalemme, di Thierry Meyssan


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Nikolai Patrushev e John Bolton s’incontreranno a Gerusalemme, alla presenza di Meir Ben-Shabbat.

È stato annunciato che a Gerusalemme si terrà un summit dei consiglieri nazionali per la sicurezza di Stati Uniti, Israele e Russia. Scopo della riunione: sbrogliare la matassa dell’Asse della Resistenza, garantire la sicurezza degli Stati del Medio Oriente, nonché pervenire a una condivisione da parte di Stati Uniti e Russia della sovranità sui protagonisti, Israele compreso.

In questo mese si terrà a Gerusalemme un vertice dei consiglieri nazionali per la Sicurezza di Stati Uniti, Israele e Russia. Già sono circolate “rivelazioni” e “smentite” sulle questioni che saranno trattate nell’inedito evento. Quasi tutti i commentatori si perdono in discussioni basate su idee false, che unanimemente riprendono in coro. Prima di valutare quale sia la posta in gioco dobbiamo rettificare questi luoghi comuni.

Il gioco delle grandi potenze nella regione

Durante la guerra fredda la strategia statunitense di contenimento (containement) è riuscita a respingere l’influenza sovietica in Medio Oriente. Dopo il crollo dell’URSS, la Russia ha lasciato la regione e vi è ritornata solo quando gli Occidentali hanno fatto guerra alla Siria.
La Russia è presente in Medio Oriente – eccezion fatta per gli anni dal 1991 al 2011 – dall’epoca della zarina Caterina II, che, su richiesta degli abitanti di Beirut, inviò la flotta russa a difendere la città. La politica dell’imperatrice mirò innanzitutto a proteggere la culla del cristianesimo (ossia Damasco, non Gerusalemme), fondamento della cultura russa, ottenendo anche l’estensione della propria influenza al Mediterraneo orientale, indi fino alle acque calde dell’Oceano Indiano.
Nel 2011 soltanto la Russia fece distinzione tra le rivoluzioni colorate del Maghreb – le “primavere arabe” – e le guerre contro Libia e Siria. Gli Occidentali, con il loro peculiare modo d’interpretare gli avvenimenti, non si sono mai sforzati di capire la lettura che ne ha fatto invece la Russia. Non si tratta qui di decidere chi ha ragione e/o chi ha torto, questa è tutt’altra questione [1], bensì di ammettere che esistono due narrazioni dei fatti completamente diverse. Va rimarcato che gli Occidentali ammettono che Mosca non ha digerito il modo in cui essi hanno violato la risoluzione per la protezione delle popolazioni civili della Libia. Riconoscono altresì che non sono stati i russi, bensì l’imperialismo occidentale, ad aver creato la situazione cui oggi si deve far fronte.
Conseguentemente alla propria analisi, nel Consiglio di Sicurezza la Russia iniziò a opporre il veto sulle risoluzioni occidentali riguardanti la Siria. Contemporaneamente, su richiesta di quest’ultima, avviò negoziati con Damasco per lo spiegamento nel Paese di forze di mantenimento della pace, appartenenti all’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (OTSC). Infine Washington e Mosca si incontrarono a Ginevra – presenti le nazioni occidentali, assenti invece i protagonisti mediorientali – per prendere atto della volontà di giungere a una sovranità condivisa sul Medio Oriente. Era giugno 2012. Il matrimonio durò pochi giorni. Lo ruppe la Francia, agendo per conto del segretario di Stato USA, Hillary Clinton.
Ora, dopo sette anni, Mosca presenta il conto. È stata infatti la Russia, non già l’OTSC, a impegnarsi militarmente in Siria e a sconfiggere, a fianco dell’esercito siriano e dello Hezbollah, gli jihadisti. Non li hanno certo sconfitti Washington e i suoi alleati, che, al contrario, li hanno armati [2]. Il conto lo presenta a Gerusalemme, dato che un milione di russofoni sono cittadini israeliani e che uno di loro, Avigdor Lieberman, ha fatto cadere il governo Netanyahu per due volte di seguito [3].
Chi ancora è fermo all’alleanza Stati Uniti/Israele, che ha contraddistinto l’era Bush Jr., fatica ad ammettere tale evoluzione. Eppure, dopo la disfatta di Daesh, le autorità israeliane si sono recate assai più spesso a Mosca che non a Washington.

Il gioco delle potenze regionali nei confronti di Israele

Esiste un luogo comune secondo cui le forze dell’Asse della Resistenza (Palestina-Libano-Siria-Iraq-Iran) sarebbero votate all’annientamento degli israeliani, come furono i nazisti verso gli ebrei. È una trasposizione grottesca.
In realtà Hezbollah è nato come rete di resistenza sciita all’occupazione israeliana del Libano. È stato prima armato dalla Siria e poi, dopo il ritiro nel 2005 della forza siriana di mantenimento della pace in Libano, dall’Iran. Non ha mai avuto per obiettivo “buttare a mare gli ebrei”; al contrario afferma da sempre di volere venga sancita l’uguaglianza di tutti davanti al Diritto. L’occupazione israeliana del Libano fu un fatto che andò oltre la volontà del governo israeliano, trasceso dall’iniziativa del generale Ariel Sharon di prendere Beirut. Fu anche esito della Collaborazione delle milizie cristiane e druse libanesi, fra cui quelle di Samir Geagea e di Walid Jumblatt.
Anche la Siria ha reagito all’espansionismo israeliano, prima difendendosi, poi in soccorso delle popolazioni palestinesi. Scelta perfettamente legittima, dato che la Palestina e la Siria attuali formavano prima della prima guerra mondiale un’unica entità politica [4]. Nessuno mette in dubbio – nemmeno negli Stati Uniti – che da settant’anni Israele non fa che erodere territorio ai propri vicini e che non ha intenzione di smettere.
Sin dall’inizio della guerra fredda gli Stati Uniti, assorbiti nella politica di contenimento dei sovietici, furono perfettamente consapevoli dell’espansionismo israeliano, che sconvolgeva la stabilità della regione. Armarono la Siria perché potesse resistere a Israele – non per attaccarlo – nonché altri Paesi, tra cui l’Iraq [5]. Il segretario di Stato statunitense, John Dulles – proprio lui, non altri – creò l’Asse della Resistenza per assicurarsi che Siria e Iraq non si rivolgessero all’Unione Sovietica per ottenere aiuto militare e difendersi.
L’amministrazione di Dwight Eisenhower sapeva che Israele era frutto della volontà di Woodrow Wilson e David Lloyd George [6], tuttavia lo considerava un cavallo pazzo da proteggere e, al tempo stesso, domare.
Washington aderì alle idee britanniche: il trattato di assistenza militare tra Damasco e Teheran prima e poi, nel 1958, il Patto di Bagdad permisero la creazione del CenTO (equivalente regionale della NATO). Il contesto è diverso, gli attori sono cambiati, ma non il movente.
L’Iran rappresenta oggi il principale problema perché la maggior parte dei suoi dirigenti affronta la questione non in modo politico, ma religioso. Una profezia sciita assicura che gli ebrei formeranno di nuovo uno Stato in Palestina, che però sarà rapidamente distrutto. La Guida della Rivoluzione islamica, ayatollah Ali Khamenei, ritiene questo testo canonico: sta tenendo il conto alla rovescia e afferma che Israele sparirà entro sei anni (nel 2025).
L’esasperazione delle posizioni – l’insistenza dell’Iran su questa profezia e di Israele sulla legge «Israele, Stato nazione del popolo ebreo» (2018) – è all’origine della perpetuazione di un conflitto che, usando l’intelligenza, si potrebbe sbloccare. Questo è quanto hanno tentato di fare Donald Trump e Jared Kushner, fallendo: se lo sviluppo economico può disinnescare il problema delle riparazioni, nessun progresso sarà possibile senza che si evolvano le rappresentazioni del mondo di ebrei, arabi e persiani.

Cos’è l’Asse della Resistenza?

I responsabili religiosi iraniani utilizzano spesso l’espressione «Asse della Resistenza» riferendosi all’alleanza per far fronte a Israele. Non è intervenuto però alcun trattato a formalizzare la coalizione e mai ci sono stati vertici di concertazione fra i dirigenti politici dei Paesi coinvolti.
Nel 2003, dopo l’invasione dell’Iraq, le forze di quest’Asse si sono a poco a poco divise, sicché oggi i conflitti interni hanno più rilevanza della lotta da combattere all’esterno.
Nel 2003 il capo religioso iracheno sciita Mohammad Sadeq al-Sadr era stato assassinato [nel 1999]. A torto o a ragione i suoi sostenitori ne addossarono la responsabilità al Grande Ayatollah Ali al-Sistani, iraniano che vive in Iraq, dove dirige seminari sciiti. Poco per volta la comunità sciita irachena si divise tra filo-iraniani, seguaci di al-Sistani, e filo-arabi, seguaci del figlio del defunto Sadeq al-Sadr, Moqtada al-Sadr. Quest’ultimo troncò dapprima con Damasco, poi, nel 2017, con Teheran e si trasferì a Riad, presso il principe Mohammad bin Salman.
Nel 2006, approfittando della vittoria elettorale locale nelle elezioni legislative dei Territori palestinesi, Hamas fece un colpo di Stato contro Fatah e proclamò l’autonomia della Striscia di Gaza [7]. Nel 2012 la direzione politica di Hamas, in esilio a Damasco, si trasferì improvvisamente a Doha, in un Paese, il Qatar, che finanziava i jihadisti contro la Siria. Hamas si dichiarò «Branca palestinese dei Fratelli Mussulmani», partito politico vietato in Siria. Uomini di Hamas e agenti del Mossad israeliano entrarono nella città siriana di Yarmuk per assassinare i rivali marxisti del Comando generale dell’FPLP [Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina]. L’esercito siriano accerchiò la città con il sostegno del presidente palestinese Mahmud Abbas.
È assurdo che gli Occidentali vogliano distruggere l’Asse della Resistenza, che essi stessi vollero e contribuirono a creare, solo perché ne hanno perso il controllo. Basta aspettare, l’Asse della Resistenza si sta disgregando da sola.
Gli iraniani sono amici fedeli, tuttavia hanno culturalmente tendenza a coinvolgere gli amici nei propri affari. I siriani non espelleranno mai gli iraniani, che li proteggono dall’espansionismo israeliano e grazie ai quali non hanno ceduto all’inizio della guerra (2011-2014). Ma se gli iraniani fossero davvero amici dei siriani si ritirerebbero dalla Siria e lascerebbero il posto alla Russia, così da permettere agli Stati Uniti di riconoscere la legittimità di Bashar al-Assad. Gli iraniani invece approfittano delle truppe stanziate in Siria per provocare Israele e tirare razzi contro il suo territorio.

I tre consiglieri nazionali per la Sicurezza

John Bolton (USA), Meir Ben-Shabbat (Israele) e Nikolai Patrushev (Russia), consiglieri per la Sicurezza dei rispettivi Paesi, svolgono le medesime funzioni ma non provengono dalle stesse esperienze.
Bolton crede nella superiorità ontologica del proprio Paese sul resto del mondo. Ha esperienza in relazioni internazionali, acquisita prima con i negoziati per il disarmo, poi, e soprattutto, quando era ambasciatore al Consiglio di Sicurezza (2005-2006). Benché prenda iniziative eclatanti, è comunque capace di tirarsi indietro se si accorge di aver sbagliato. Del resto è proprio per la sua capacità di farsi carico degli errori del proprio campo che il presidente Trump continua ad avvalersi della sua collaborazione.
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Meir Ben-Shabbat
Meir Ben-Shabbat è uomo di fede, convinto di appartenere a un popolo eletto, però maledetto. Non viene dalla carriera diplomatica, ma dal controspionaggio. Tuttavia, quando era a capo dello Shin Bet ha dimostrato reale acutezza sia nel combattere Hamas sia nel manipolarlo e, nel caso, negoziare con esso. L’eccellente conoscenza delle molteplici forze in campo in Medio Oriente gli permette di distinguere immediatamente quel che potrebbe durare da ciò che è invece effimero.
Infine Nikolai Patrushev: è altolocato personaggio della funzione pubblica russa. Dei tre è sicuramente quello che ha una più alta visione dello scacchiere mondiale. Quando ha preso il posto di Vladimir Putin a capo dell’FSB ha dovuto affrontare tentativi di siluramento dei suoi direttori da parte di Stati Uniti e Israele. Alla fine, dopo anni di turbolenza è riuscito a riprendere in mano la macchina. Ha poi dovuto affrontare la destabilizzazione dell’Ucraina a opera di Stati Uniti e Unione Europea, conclusasi alla fine con l’adesione della Crimea alla Federazione di Russia. Non negozierà un dossier in cambio di un altro, ma baderà alla coerenza dell’insieme delle decisioni.
Questi tre strateghi stanno per definire l’ambito di distribuzione delle carte, dove poi i diplomatici dovranno negoziare. Il loro ruolo è concepire un accordo durevole a lungo termine; quello dei diplomatici sarà invece compensare le perdite dei soccombenti al fine di rendergli l’accordo accettabile.

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