Nel 1810 in Messico si dichiarò
l’indipendenza dalla Spagna (nella foto il celeberrimo murales di José
Clemente Orozco). Nel 1910 scoppiò la Rivoluzione zapatista. Alla vigilia del
2010, secondo la Conferenza Nazionale Contadina (CNC), il paese è al bordo
della fame di massa.
Per i fagioli, i frijoles, si teme un
meno 80% nel prossimo raccolto, una tragedia che potrebbe tradursi in migliaia
di morti di fame nel prossimo anno. Solo un po’ meno peggio va per
l’altro architrave dell’alimentazione di cento milioni di
messicani, il mais, meno 50%.
E proprio la fame potrebbe
essere il punto più triste d’inflessione di un modello fallito di paese
che a 200 anni dalla nascita ha bisogno di un nuovo inizio.
di Gennaro Carotenuto
Il PIL intanto
quest’anno cadrà del 9%. L’industria
sta perdendo solo quest’anno un milione di posti di lavoro. La guerra
civile dei narcos,
ormai la prima industria nel paese come in Colombia negli anni ‘80,
supererà la soglia dei 10.000 morti ammazzati nel 2009. La metà di questi è a Ciudad Juárez. La
città, 1.5 milioni di abitanti, alla frontiera con il Texas vive in un contesto
di violenza, non endemica ma causata dalla crisi, peggiore di quella di
Baghdad. Un governo senza altra ricetta che quella neoliberale risponde
tagliando salute ed educazione per far cassa oppure mandando l’esercito a
reprimere e farsi complice del precipizio.
La Confindustria messicana
dal canto suo, in sinergia con il ministro dell’Economia Agustín
Carstens, uno degli ultimi “Chicago
boy” con tanto di dottorato sulla piazza continentale,
vuole lacrime e sangue sotto forma di IVA su medicine e alimenti. Nel loro delirio
sostengono ancora che così si potrebbero ridurre le tasse ai ricchi e far da
volano all’economia. Qualcuno sperava in Barack Obama, ma il presidente
democratico elude ogni richiesta d’aiuto di Felipe Calderón a cominciare
dall’alleviare le misere condizioni di vita di milioni di migranti che
quest’anno, secondo il BID, invieranno vari miliardi in meno in rimesse.
Le politiche neoliberali
dei governi del PAN, le conseguenze sempre più intollerabili del Trattato di
Libero Commercio del Nordamerica (NAFTA) del 1994 e la siccità causata dal
cambio climatico si abbattono così sul Messico come le bibliche piaghe
d’Egitto. La siccità, la peggiore degli ultimi 70 anni, mette in grave
crisi 3.5 milioni di contadini e 7 milioni di ettari di terre coltivate in 23 dei
32 stati del paese. Inoltre l’80% dei capi d’allevamento sta
soffrendo la sete e una percentuale identica del territorio agricolo messicano
è a rischio erosione. Senza fagioli né mais, le due principali sostanze della
dieta del paese nordamericano, cosa mangeranno milioni di persone, soprattutto
quelli di campagne sempre più desolate?
E’ strano che sulla
bancarotta fraudolenta di una delle economie del G20, forse la più
compiutamente neoliberale tra tutte, non vi sia alcuna analisi nei giornali
italiani e ben poco in quelli occidentali che dovrebbero ammettere che il
Messico, come già l’Argentina un decennio fa, sono lo specchio più fedele
del fallimento pieno del modello post-coloniale imposto nel dopoguerra dal
Fondo Monetario Internazionale.
Nell’immediato
l’unica soluzione a disposizione del governo messicano per evitare la
fame di massa è continuare a svenare il paese nell’importazione di
alimenti. Questi proverranno ancora una volta dall’agricoltura
iper-assistita degli Stati Uniti, infinitamente meno liberale di quella
messicana e perciò più solida. E’ un paradosso che non consola perché
invece sarebbe urgentissimo ripensare completamente la politica agraria dello
Stato messicano e rinegoziare il Trattato di Libero Commercio del Nord America.
Questo dal 1994 ad oggi ha obbligato all’esodo dalle campagne oltre dieci
milioni di contadini senza che l’industria uscisse da una crisi
ultraventennale e nonostante l’azzeramento di diritti sindacali imposto
nell’arcipelago gulag delle maquiladoras dove 1.2 milioni di lavoratrici
e lavoratori consumano la vita per pochi spiccioli e nulla apportano
all’economia del paese. Dalle maquiladoras infatti partono il 47% delle
esportazioni lasciando in Messico un controvalore pari ad appena il 3% del PIL.
E’ un modello da buttare che Calderón non vuole, non sa e non può
cambiare.
In questo contesto, col
sistema educativo allo sfascio e (come la sanità) sottoposto a continui tagli
dal governo, e non più in grado di creare opportunità e perequazione sociale,
ai giovani e meno giovani messicani resta l’emigrazione (per dove se
neanche il Canada li accoglie più?) oppure affiliarsi al narcotraffico e
candidarsi a diventare un numero nella statistica dei morti ammazzati o dei
sicari.
Oppure, lo desiderano gli
ottimisti, lo temono gli oligarchi di sempre, l’implosione messicana sarà
risolta dall’esplosione di un nuovo conflitto sociale, una ribellione
aperta contro lo Stato liquido neoliberale che ha sostituito quello
clientelar-assistenziale instaurato dal PRI e che è manifestamente fallito.
Fatto sta che ogni cent’anni il Messico esplode. Nel 1810 fu dichiarata
l’indipendenza dalla Spagna e cent’anni dopo, nel 1910, scoppiò la
grande Rivoluzione zapatista, l’evento fondante del Messico moderno. In
entrambi i casi ci volle più di un decennio di guerre, carestie e turbolenze
per uscirne.
Giunti al tratto finale del
2009 quello che è certo è che il paese è nuovamente allo stremo. Il regime
neoliberale farà la fine della corona spagnola al tempo dei lumi e del
porfiriato un secolo dopo? E’ difficile dirlo. Sarà la divisa sinistra
politica a condurre la rivolta? I sindacati? Oppure i movimenti sociali? O
forse ancora un nuovo zapatismo che faccia ritrovare rappresentatività agli
ultimi degli ultimi? Oppure i tempi dell’implosione del Messico saranno
dettati da una caotica esplosione di violenza che prenderà magari la forma di
saccheggi nei supermercati, una jaquerie premoderna che promuoverà un caos
dagli esiti imprevedibili, forse perfino un ritorno dell’eterno PRI?
Forse nulla di tutto questo succederà. Forse succederà qualcosa di
completamente nuovo. Ma di sicuro nel Messico alla fame qualcosa dovrà
accadere.
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