03 ottobre 2009

Nasce con Latinoamerica una rete internazionale di controinformaz

Nasce con Latinoamerica una rete internazionale di controinformazione

Il numero 108 della rivista Latinoamerica, in uscita in questi giorni, propone un’interessante novità, il sito rinnovato, promotore di una rete di controinfomazione internazionale, alla quale collaborano i prestigiosi intellettuali da sempre al fianco della rivista: dal premio Nobel della Pace Adolfo Péerez Esquivel al teologo della liberazione Frei Betto, dal prestigioso linguista nordamericano Noam Chomsky al sociologo e ricercatore Bruce Jackson, dal poeta argentino candidato al Nobel Juan Gelman fino a Eduardo Galeano e Luis Sepulveda, collaboratori storici di Latinoamerica, insieme a tanti voci libere del mondo.
Uno sforzo in un’epoca dove molti pensano sia d’obbligo resistere all’informazione negata.
Il numero 108, per esempio, è centrato sulla lezione politica che viene dall’Honduras. Una nazione senza identità, una volta base operativa delle “guerre sporche” di Ronald Reagan in centro America e ora simbolo dell’ambiguità di parte della politica estera dell’attuale governo di Washington che, nonostante le promesse di Obama di cambiar metodi in America latina, vuole riavere il controllo di quello che fino agli anni ’90 era il “cortile di casa”.
Latinoamerica 108 sottolinea questa contraddizione con una conversazione virtuale di Adolfo Pérez Esquivel proprio con il nuovo presidente degli Stati Uniti al quale probabilmente in questa occasione, come spiega subito dopo in un saggio Juan Gelman, il vecchio apparato militare di Bush J. ha confezionato e lasciato in eredità una polpetta avvelenata.
Nella sezione “Analisi” l’argomento è trattato anche dal sociologo colombiano Frank Molano Camargo e dallo scrittore uruguaiano Raúl Zibechi, che inquadra gli eventi in corso in Honduras in un panorama dove il tentativo di restaurare i vecchi equilibri di potere in America latina comprende anche i massacri degli indigeni in Perù, assolutamente elusi dalla grande stampa occidentale.
Il numero 108 di Latinoamerica propone anche un articolo del teologo della liberazione Frei Betto, sorpreso perchè il primo presidente nero degli Stati Uniti non abbia ancora liberato i cinque agenti dell’intelligence cubana che dieci anni fa smascherarono le centrali terroristiche, coperte dalla Cia, in Florida e in New Jersey, attive nell’organizzare attentati a Cuba.
Il numero in uscita è arricchito anche dalla testimonianza di Harry Villegas, detto Pombo, sopravvissuto al Che in Bolivia, e da un ricordo di Alessandra Riccio del poeta uruguaiano Mario Benedetti e di Bruna Gobbi, intrepida fondatrice, trent’anni fa, della rivista e recentemente scomparsi.

01 ottobre 2009

Byoblu.Com - Memorie di un partigiano

1 ottobre 2009 - 10.04

Memorie di un partigiano


  Il futuro non c'è ancora. Tutto quello che abbiamo è il passato. La storia ci ha fatti come siamo. La storia ha creato i nostri pensieri, ha deciso perfino il nostro nome. Eppure, la storia non interessa a nessuno. Forse per questo stiamo perdendo il senso delle cose. Se non sappiamo più chi eravamo, come possiamo capire chi siamo?

  Molti di noi si definiscono partigiani della rete. Ma chi erano davvero i partigiani? Cosa pensano dell'Italia di oggi, loro che l'hanno costruita con le loro stesse mani? E cosa pensano della Costituzione, loro che l'hanno vista scrivere con i loro stessi occhi?
 
  Il blog ha intervistato Massimo Rendina, presidente dell'ANPI, l'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia.

MEMORIE DI UN PARTIGIANO
Intervista di Helene Benedetti

H.B. «Buonasera Massimo Rendina, ci vuole raccontare per un partigiano cos'è stata la guerra?»

M.R. «Io pensavo che la guerra partigiana fosse perduta, che vincessero i tedeschi, che Hitler avesse veramente l’arma segreta. Per poco non l’ha avuta perché, perseguitando una ricercatrice di fisica ebrea, che fu fatta scappare dalla Germania, si privò della possibilità di avere la bomba atomica prima degli americani. Il nostro destino era un destino che vedevamo segnato. Avevamo detto: “Beh, vinceranno, ci uccideranno. Cerchiamo di non farci torturare.”. Dicevamo ai nostri garibaldini: “Se vedete che io casco nella mani dei tedeschi sparatemi addosso, perché io non voglio essere torturato!». Procedevano con sistemi talmente barbari e disumani nei confronti dei prigionieri, che tutti noi avevamo questo senso della disperazione, in qualche misura. Nello stesso tempo non potevamo dirlo, perché dovevamo rassicurare i nostri garibaldini e la popolazione civile. Dico garibaldini perché i miei partigiani erano garibaldini. Dovevamo rassicurarli che ci sarebbe stata questa vittoria, dare questa speranza, e quindi tenerci per noi l’ansia e la paura che questo non avvenisse.»

H.B. «Quanti anni aveva lei quando siete partiti?»

M.R. «Avevo 23 anni.»

H.B. «Durante la guerra, si aveva il tempo di avere paura?»

M.R. «Beh… La paura è connessa alla guerra. Il problema è che se tu hai delle responsabilità, cioè se sei un comandante di reparto, anche di quello più piccolo, non puoi mostrare di averne. Anzi: ci montavamo, io facevo anche un po’ lo spaccone per non dimostrare di avere paura. Guai se tu mostri ai tuoi sottoposti di avere paura. Devi essere sicuro di quello che fai, e sicuro di quello che fai fare a loro. E delle volte, quando poi i soldati muoiono, quando dei garibaldini, dei partigiani morivano, e sono morti in tanti, ti viene un’angoscia spaventosa, perché pensi che avresti potuto agire diversamente. Pensi che forse doveva toccare a te piuttosto che a loro, a dei ragazzi che nella guerra partigiana avevano 15 o 16 anni addirittura. Li ho visti morire e sono ancora davanti a me. Uno, tra l’altro medaglia d’oro, mi fece ripiegare. Volle stare alla mitragliatrice e farci sganciare, cioè rientrare nel nostro territorio di fronte ad un attacco nazista. C’era poi un soldato tedesco, non giovane, avrà avuto una quarantina d’anni, anzi noi lo qualificavamo molto anziano. Non sapevamo neanche il suo nome, lo chiamavamo il tedesco. Era venuto con noi, era un disertore. Mi ricordo che fummo attaccati al bivio del Gallareto, in Piemonte, da un reparto di SS tedesche. Lui aveva il suo fucile e non voleva sparare contro i tedeschi. Diceva “Questi sono i miei fratelli”. Io ero indignato, gli dissi che era un vigliacco, che era una carogna, glielo dissi anche in tedesco. Lui mi disse: “No, io non sono un vile. Ti mostrerò come sa morire un tedesco”. Si alzò in piedi e gli andò incontro urlando: “uccidete un tedesco per la libertà”. E morì in quel modo. Non saprò mai come si chiamava perché non avevamo i suoi documenti e il suo nome vero.
Questi sono piccoli episodi che possono però dimostrare quale era il nostro sentimento. Qual era questa guerra molto personale. La guerra partigiana è una guerra fatta di piccole storie di ciascuno, che si uniscono per questa idea di dignità della persona e della libertà. Senza tanto pensare a un futuro, anzi: ci difendevamo da questa idea di immaginare un futuro politico del nostro paese, anche perché i comunisti – e ce n’erano tra noi, ma non così tanti come si dice – temevano che si potesse accostare la loro ideologia a quella sovietica, mentre i cattolici pensavano che si potesse definirli clericali. Ognuno pensava realmente a un futuro soprattutto di libertà e di dignità della persona, che poi ritroviamo nella stessa Costituzione. La Costituzione tiene conto proprio di queste aspirazioni non definite. Noi non sapevamo neppure se sarebbe stata repubblica o monarchia, e ci fu chi – soprattutto tra gli azionisti lombardi – nell’ultimo periodo prima della guerra di liberazione diceva: “ma perché non continuiamo un po’ con questa esperienza del comitato di liberazione nazionale, in modo che ci sia un avvio lento alla democrazia, quando saremo veramente sicuri che ci potrà essere una responsabilità civile delle persone?». Invece i comunisti e i democristiani dissero: “no, diamolo al popolo questo potere. Sarà il popolo che deciderà, attraverso un organismo – che poi diventerà la Costituente”. Vinsero questa battaglia ideologica per poter affidare alla gente il proprio futuro. Questo lo troviamo nella Costituzione, laddove c’è scritto che la sovranità è del popolo

H.B. «Il valore della Costituzione: molti ragazzi non riescono a capirlo

M.R. «La Costituzione dopo tanti anni è ancora un documento straordinariamente attuale, anche perché non è stata del tutto attuata. Quindi occorre realmente pensare alla sua attuazione, al diritto al lavoro per tutti, a un’uguaglianza non utopistica. Il mondo è fatto di differenze, anche tra le persone. L’uguaglianza deve essere soprattutto un’uguaglianza di opportunità: dare a ciascun bambino che nasce la stessa opportunità al di fuori del fatto che sia una famiglia ricca o povera. Il diritto allo studio per tutti, il diritto di affermazione, il diritto di sopravvivenza, con una remunerazione decente. Queste sono le grandi battaglie. Forse per questo mi dicono comunista, ma non so se questo sia comunismo o non forse pensare al Vangelo, come penso io che sono cattolico.»

H.B. «A noi ragazzi, che siamo molto preoccupati per tutto quello che sta succedendo in Italia, per il governo, per tutto quello che non abbiamo più - non abbiamo più una Costituzione, perché anche se è scritta non viene più rispettata - cosa consiglia lei?»

M.R. «Dobbiamo fare una riflessione sul pericolo che ci sia domani non più un governo parlamentare, ma un governo di élite. Questo è il sogno del presidente del Consiglio, di Berlusconi, che non è solo suo: si allaccia si Bush, si allaccia a una situazione di politica internazionale. I governi devono essere diretti da persone capaci, che hanno dato dimostrazione nell’industria, nella finanza e così via di essere capaci. Per cui, ecco il governo azienda, con il capo dell’azienda che può nominare, licenziare, stabilire le remunerazioni, dare i premi… Siamo veramente in uno stato azienda, ma un’azienda che non rispetta i diritti della persona umana. Nel momento in cui siamo in una crisi così profonda del capitalismoper carità, io non voglio fare un discorso contro o pro capitalismo –, decidiamo di salvare un capitalismo che ha dato queste prove, di farlo in modo soft, riformista solo di alcuni lati mentre il problema è globale. Bisogna invece assumersi delle responsabilità di cambiamento che deve essere un cambiamento radicale. Non parliamo mai o quasi di quello che sta accadendo nel mondo. Un terzo dell’umanità vive in una situazione straordinaria di benessere, anche se ci sono delle sacche di povertà, mentre tre quarti dell’umanità sta soffrendo, e moltissimi muoiono di fame, tanti bambini, i più deboli… Allora il discorso della globalità va visto anche in questo senso, non soltanto come globalità di comunicazione, di cultura o finanziaria. Poi c’è anche il problema della risorse: abbiamo risorse sufficienti per stabilire uno standard di vita così elevato in tutto il mondo? Gli economisti dicono di no. C’è proprio una scuola di economisti della decrescita che dicono che non si può più dissennatamente sfruttare le risorse di un pianeta perché ce ne vorrebbero quattro, di pianeti, per elevare lo standard di vita di tutti. Allora stiamo assistendo a un neo-colonialismo molto grave e pesante, come se questi tre quarti dell’umanità dovessero stare in soggezione per sempre.
Siamo di fronte a una società dominata dalla politica teatrale, imposta anche da questo governo attraverso i sistemi audiovisivi di massa, che sono assolutamente deleteri perché fanno diventare reale una società che non è reale. Per esempio, questi giochi di prestigio di certi spettacoli che mostrano situazioni, anche sessuali, esasperate, che non sono nella normalità ma che fanno diventare normali. L’automobile simbolo, il vestiario simbolo, la marca. E’ tutto un mondo sfacciatamente bugiardo che la televisione accredita come vero, naturale e praticato da tutti, e che tutti devono praticare: chi non lo pratica è fuori, diventa assolutamente emarginato da una sottocultura alla quale non opponiamo una cultura seria di solidarietà, e anche di crescita della persona umana. La persona umana ha anche bisogno proprio di una nuova filosofia, mi pare. La filosofia sta diventando storia della filosofia, e non sta diventando un dibattito etico sull’avvenire, sui perché che ancora ci tormentano: chi siamo, perché viviamo, perché moriamo. Queste grandi domande sembrano assolutamente essere rinchiuse in un privato e non essere elemento di meditazione collettiva

H.B. «E a chi dice “Scendiamo in piazza per protestare”, cosa dice?»

M.R. «Io credo che sia una cosa giusta. Io sono contro il populismo, influenzato anche dai mass-media ecc. La piazza, però, assume un valore di testimonianza: l’essere insieme. Diamo voce a chi non ha voce, e a chi non si sa servire della voce diciamogli che deve servirsene. Dobbiamo avere questa compartecipazione di gruppi, di una società che probabilmente non conosciamo, perché passiamo sempre per i partiti politici, per i sindacati, per le associazioni culturali, però non sappiamo che la società vera è anche un’altra. la piazza si dimostra in questo momento come un elemento essenziale di protesta, perché con una stampa così malata come è la nostra, che è sempre stata malata fin dal dopo guerra, perché in mano ai gruppi economici che se ne sono serviti come ricatto, o come appoggio, con tutt’altro scopo – sono stati i giornalisti che hanno dato dignità alla stampa, francamente non il sistema – con una stampa così malata, la società ha perso potere. Io mi ricordo che non molti anni fa, quando Camilla Cederno scrisse delle cose che probabilmente non erano vere sui figli del presidente della Repubblica, il presidente della Repubblica si dimise. Quando si parò del delitto Montesi, il povero Piero Piccioni non c’entrava assolutamente niente. Fu dimostrato. Ciononostante il padre si dimise da vicepresidente del Consiglio. Oggi puoi dire qualsiasi cosa, non si dimette nessuno. Questo è anche grazie all’opinione pubblica, che è diventata un’opinione pubblica malata, come sono malati i giornali. Ringraziamo che ci sia qualche giornalista, che nel bene e nel male fa sentire una voce dissidente, e che si cerca di opprimere fino in fondo, adeguando la stampa ai desideri di un potere che poi è un potere scollacciato, un potere anche volgare, un potere che finisce nelle alcove e nell’uso della cocaina. Con tutta franchezza, che lezione diamo ai nostri nipoti, ai nostri bambini che crescono e che sanno tutte queste cose, perché capiscono molto di più di quello che pensiamo che sia possibile capire a una certa età. Che cosa diciamo loro? Qual è l’esempio, il modello che noi offriamo alle nuove generazioni? Ecco perché dico che i giovani hanno una responsabilità enorme anche in questo, nell’aggregarsi tra di loro, nell’esprimersi, nel fare politica e dare alla politica un nuovo senso. Quando i ragazzi dell’Onda sfilano per le strade, giustamente, contro dei provvedimenti assurdi, sbagliati, di un Ministro della Pubblica Istruzione, dicendo “non vogliamo sapere niente dei partiti”, è un gravissimo errore. Lo capisco anche, ma è un gravissimo errore. Modifichiamo i partiti, però è attraverso le aggregazioni politiche che esprimiamo la democrazia, attraverso il confronto democratico, come diceva Moro il quale non pensava assolutamente al compromesso storico ma al confronto tra due forze rivali che si univano nel bene del paese.

Questa era la strada: rimanere quello che si è, però trovare insieme quei motivi per il bene comune, ed è una cosa che vale per i cattolici ma anche per i laici, francamente.»


www.byoblu.com

Diffondere, Divulgare, Diramare

Le Tre D che salveranno il mondo!

30 settembre 2009

Delitto Versace - Il sorriso della medusa

Documentario con il quale si mette in dubbio la versione ufficiale sull'omicidio di Gianni Versace ed il suicidio di Andrew Cunanan. METTE SOTTO ACCUSA LA POLIZIA DI MIAMI Realizzato da Chico Forti, in carcere a vita negli USA dopo un ingiusto processo senza uscita. Rai 3. Filmato intero: http://mariorossinet.ning.com/video/il-sorriso-della-medusa

29 settembre 2009

Intervista a Michael Moore

Realizzata a Venezia durante il Festival del cinema 2009 da Francesco Gatti http://www.youtube.com/watch?v=HciDkVXGtDs

26 settembre 2009

Agende Rosse - 26 settembre 2009

"Da ogni parte mi stanno chiedendo di organizzare a Settembre una grande manifestazione a Roma. Non dobbiamo dare tregua agli assassini ed ai loro complici. Dobbiamo farla di Sabato, in un giorno non lavorativo, Roma è il punto più facile da raggiungere da ogni parte d'Italia e dovremo esserci tutti, da Milano, da Palermo, da Napoli, dalle Marche, dall'Emilia, da ogni parte d'Italia. La data che ho indivduato per questa manifestazione che sarà la continuazione ideale di quella che abbiamo fatto il 20 luglio davanti al palazzo di Giustizia in sostegno di quei magistrati che, a rischio della propria vita, stanno combattendo per arrivare alla Verità sulle stragi del '92 e del '93 è il 26 Settembre. Questa data è abbastanza lontana per permettere di poterla preparare in modo adeguato e abbastanza vicina da non essere superata dal ritmo degli avvenimenti che si stanno susseguendo in maniera sempre più incalzante. Sarà una giornata dli lotta ed è per questo che ho preferito non sovrapporla ad un'altra giornata, il 12 settembre, che sarà invece di festa per l'elezione fortmente voluta e sostenuta da tutti noi, di Sonia Alfano e Luigi De Magistris al Parlamento Europeo. Ci saremo tutti, tutti quelli che abbiamo salito sotto il sole le rampe che portano al Castello Utveggio portando un pezzo di Paolo dentro il nostro cuore, tutti quelli che eravamo in Via D'Amelio quando all'ora della strage per un interminabile minuto si sono sentiti solo i battiti dei nostri cuori, tutti quelli che abbiamo percorso le vie di palermo che ci portavano alla Magione levando in alto le nostra agende rosse e tutti quelli che abbiamo gridato la nostra rabbia e la nostra voglia di Verità davanti al palazzo di Giustizia. E ci saranno tanti altri ancora, tutti quelli che in tante piazze d'Italia hanno urlato insieme a noi e avremo ancora in mano la nostra agenda rossa, un'agenda rossa che ora fa paura a tutti. Mobilitiamoci tutti, ognuno di noi si impegni a far venire quante altre persone può, in una catena che non deve avere fine.Adesso hanno paura e si stanno muovendo, cominciano a muovere le loro pedine, Rutelli, Violante, il PG Barcellona, noi dobbiamo agire più rapidamente di loro, impedire che fermino Sergio Lari, Antonio Ingroja, Nino Di Matteo, non lasciamoli soli, impediamo che chiudano la bocca a Massimo Ciancimino, che si muova il CSM, facciamogli capire che dovranno passare sui nostri corpi, che dopo 17 anni non ci lasceremo strappare ancora una volta la verità. Il nostro grido di RRRESISTENZAAAAA deve essere un urlo nelle loro orecchie, un urlo gridato da vicino, sotto le finestre di quei palazzi in cui sono in tanti a sapere ed ad avere occultato la verità. Il 19 luglio in via d'Amelio abbiamo fatto scoccare la scintilla, ora è necessario l'incendio." Salvatore Borsellino

25 settembre 2009

Manifestazione delle Agende rosse - 26 settembre 2009

Ragazzi, il 26 Settembre, tutti a Roma! A Roma si rinnoverà la marcia dell’agenda rossa, vicino a quei palazzi del potere dove stanno quegli uomini che probabilmente, grazie a quella strage, grazie al sangue di quei martiri innocenti, sono riusciti a stravolgere e a cambiare i destini dell’Italia. Il 26 Settembre ricordiamo a costoro che l’Italia ha bisogno di verità e ha bisogno di giustizia. Hanno ucciso in un solo istante quelle vittime innocenti, per 17 anni hanno ucciso la verità, dandoci da bere delle false verità, creando falsi pentiti, costruendo dei processi-farsa che sono serviti solo a dimostrare che era stata una strage di mafia, come se solo la mafia avesse potuto concepire quei tragici attentati. Il popolo italiano e i giovani stanno crescendo, hanno capito che la mafia non ha mai agito da sola e ha sempre operato al fianco di uomini delle istituzioni, di referenti politici, che poi sono stati quelli che, mungendo la mafia, hanno fatto le loro fortune. Il 26 Settembre saremo tutti con Salvatore Borsellino, e quindi non mancate! Capisco che per molti di voi è un grosso problema affrontare un ulteriore viaggio, spendere altri soldi, perchè sappiamo che i giovani onesti italiani appartengono a famiglie che probabilmente non hanno grandi possibilità economiche. La vostra presenza, con i sacrifici che questo comporta, è una testimonianza di quanto grande sia l’attesa e l’aspirazione di giustizia che si leva da tutte le parti d’Italia. Grazie alla rete, grazie a internet, grazie a questi meravigliosi strumenti di democrazia, porteremo alta la nostra voce, per affermare ancora una volta questo nostro desiderio di giustizia, che è un desiderio di libertà, al grido di RESISTENZA.

22 settembre 2009

11 settembre, nuove rivelazioni: l’America mentì su tutto

11 settembre, nuove rivelazioni: l’America mentì su tutto


«Sono trascorsi 8 anni da quel tragico 2001 e ancora non conosciamo la verità su quello che accadde l’11 settembre». Lo afferma Giulietto Chiesa, autore del bestseller “La guerra infinita” (Feltrinelli) e del documentario “Zero”, accolto con interesse in tutta Europa. «Chi come noi dubitò fin dall’inizio delle versioni ufficiali – scrive, in un lungo reportage per “Megachip” – fu bollato come antiamericano e complottista: cioè furono definiti complottisti quelli che cercavano di smascherare il complotto, non quelli che lo costruirono. Malgrado tutto, comunque, la verità avanza». Clamorose rivelazioni, confessioni, libri: si disegna lentamente il più colossale depistaggio della storia.

«I nostri dubbi, miei e del 53% degli americani, stando ai sondaggi – scrive Chiesa - non solo non sono stati dissipati, ma sono col tempo diventati una serie 11-settembre1di certezze, mentre altri dubbi e interrogativi sono emersi in gran numero su cose che prima non sapevamo, non avevamo visto, non sospettavamo neppure». Tutto questo, grazie a «punti di rilevazione, di analisi e raccolta dati», che «continuano incessantemente a funzionare e a comunicare ciò che scoprono».

Giulietto Chiesa si riferisce in particolare ai nuovi dati emersi dopo il lavoro della commissione istituita con legge speciale nel 2002 (vincendo l’aspra resistenza di Bush, Cheney, Rumsfeld e Rice) e che emise «il suo ridicolo e al tempo stesso gravissimo verdetto – adesso lo sappiamo con assoluta certezza – alla fine dell’estate del 2004». “The commission”, il libro del reporter investigativo Philip Shenon (del New York Times) ora tradotto in Italia da Piemme, col titolo “Omissis. Tutto quello che non hanno voluto farci sapere sull’11 settembre”, per Chiesa è un «tardivo riconoscimento» delle tesi formulate dai “complottisti” all’indomani della strage.

Altri due libri in cima alle classifiche, non ancora usciti in edizione italiana, sono “Against all Enemies” di Richard Clarke, che guidò la caccia a Bin Laden dai tempi di Clinton e fu poi liquidato da Condoleezza Rice, e “Without Precedent”, di Lee Hamilton, ossia uno dei due presidenti dell’organismo d’inchiesta che produsse il definitivo «e sbalorditivo» rapporto finale della commissione. Afferma Giulietto Chiesa: «Proprio Hamilton, democratico, denuncia ora, a giulietto-chiesamisfatto compiuto, come la commissione sia stata fuorviata da “informazioni non attendibili”, e sia stata impedita nell’accesso a documenti essenziali all’indagine», come i verbali degli interrogatori di Khaled Sheikh Mohammed.

Come potevamo essere certi, scrive Hamilton, che Mohammed stesse dicendo la verità? «Adesso, nel 2009, sappiamo che quella confessione fu estorta con la tortura e dunque che essa non ha alcuna validità, di fronte a nessun tribunale, nemmeno di fronte a un tribunale militare americano». Ma anche nella sua palese invalidità di principio, aggiunge Chiesa, quella confessione contiene una presunta “verità” alla quale gli inquirenti della Cia hanno detto di credere, probabilmente dopo averla inventata.

«Questa “verità” contraddice platealmente l’attribuzione della paternità degli attentati dell’11 settembre a Osama Bin Laden», visto che Mohammed confessa la paternità di questa e di una trentina di altre operazioni terroristiche in ogni parte del mondo. «Nello stesso tempo – continua Giulietto Chiesa – Osama, il “most wanted terrorist”, non è accusato dall’Fbi per gli attentati dell’11 settembre, ma solo di quelli delle due ambasciate americane in Africa, del 1998. E, in ogni caso, nessun procedimento penale è mai stato aperto nei suoi confronti. E sono passati undici anni!».

Eppure, nonostante questa massa di incongruenze, il rapporto della commissione lo indica come il responsabile dell’11 settembre. «Hamilton, nel suo libro, tace completamente sull’intera questione». Sulla quale, racconta Chiesa, il deputato democratico giapponese Yukihisa Fujita gli ha inviato una lettera con esplicite domande, su questa e altre faccende concernenti incongruenze e omissioni, senza però ottenere alcuna risposta.

Tra i quesiti di Fujita, il ruolo giocato dal direttore esecutivo della commissione, Philip Zelikow. Shenon, l’autore di “The commission”, ha intervistato quasi due terzi degli 80 commissari, ma imbattendosi sempre in fonti anonime, coperte: funzionari della Cia e del Pentagono che avrebbero rischiato il posto, se si fosse scoperto che avevano parlato con il giornalista. Domanda ricorrente: come mai nessuno ha “parlato”? «Poiché l’operazione di insabbiamento e falsificazione è sempre parte integrante dell’insieme , come in philip-zelikowtutte le operazioni di terrorismo di Stato – risponde Chiesa – possiamo affermare che la risposta corretta nega la domanda. Infatti c’è un sacco di gente che “ha parlato”, eccome ha parlato!».

«Decine di testimoni hanno parlato, ma sono stati cancellati», continua Chiesa. «E altre decine di testimoni a conoscenza dei fatti non hanno potuto parlare perché qualcuno ha deciso di non ascoltarli. Così il grande pubblico non ha saputo nulla: perché molto è stato eliminato dal pubblico discorso prima ancora di venire pronunciato, ma anche perché attorno alle dichiarazioni di coloro che, accidentalmente, hanno potuto parlare, è stato innalzato un muro di silenzio, che il “mainstream” informativo ha rispettato scrupolosamente».

Nella clamorosa ricostruzione di Shanon, l’ingegnere esecutivo delle manovre di depistaggio è Philip Zelikow, nominato alla guida della commissione violando la legge che la istituiva, la quale escludeva categoricamente tutti coloro che avessero avuto conflitti d’interesse, cioè che potessero essere collegati con la Casa Bianca. «La commissione avrebbe dovuto indagare in quella direzione, ma non indagò». Al contrario, protesse «coloro che avrebbero dovuto essere obbligati a dare le informazioni essenziali e non le diedero».

Zelikow aveva «un mare di conflitti d’interesse». Da Shenon, veniamo a sapere che non rivelò, o nascose, i suoi stretti rapporti con Condoleezza Rice: scrisse un libro insieme a lei, fu suo consigliere nella transizione al nuovo Consiglio per la condoleezza-riceSicurezza Nazionale, e per lei scrisse nel 2002 il documento che tracciò le linee della nuova strategia della sicurezza nazionale Usa, includendovi l’idea dell’attacco preventivo usato da Bush per giustificare la guerra contro l’Iraq.

Malgrado le promesse, Zelikow non interruppe mai i rapporti con la Rice, Karl Rove e Dick Cheney. Prima ancora che la commissione sull’11 settembre cominciasse i lavori, Zelikow aveva già scritto un proprio schema per il rapporto finale, anticipando le conclusioni dell’inchiesta e tenendo i commissari all’oscuro di tutto. Secondo il libro di Hamilton, «era Zelikow a decidere su cosa si doveva e su cosa non si doveva investigare», mentre da Shenon sappiamo che lo stesso Zelikow riscrisse personalmente tutti i capitoli del documento, «dall’inizio alla fine».

Sulla base di tutto questo, Shenon esprime un giudizio personale: Zelikow «era una talpa della Casa Bianca, che passava informazioni all’Amministrazione sulle scoperte della commissione», di cui si servì «per promuovere la guerra contro l’Iraq». Sempre da Shenon, continua Giulietto Chiesa, veniamo a sapere che «lo staff della commissione sapeva che la Rice aveva mentito, per quasi un anno», sul contenuto del briefing presidenziale del 6 agosto 2001 nel quale la Cia – un mese prima dell’11 settembre – annunciava «a breve» un devastante attacco terroristico.

Resta il mistero di come sia possibile che qualcuno, ancora, creda alla sincerità del rapporto emesso dalla commissione. «Basti pensare – annota Chiesa – che nessun mandato formale di comparizione fu spiccato fino al 14 ottobre 2003», e che «nessuno dei più alti responsabili dell’Amministrazione fu sentito sotto giuramento». Tutti accettarono i limiti imposti da Bush e Cheney, tramite Zelikow, sul rilascio dei documenti essenziali. «Nessuno stupore», dunque, se il Comitato dei familiari delle vittime conclude che «la commissione ha seriamente compromesso la possibilità di condurre un’indagine indipendente, completa e libera».

Ma ancora non è tutto. Hamilton scrive che ufficiali del Norad (sicurezza militare) in pubbliche udienze della commissione «diedero una descrizione falsa dell’11 settembre», che «confinava con l’intenzione di voler ingannare». Si noti la delicatezza di quel “confinava”. «In realtà risulta che il Norad mentì platealmente alla commissione dopo averle nascosto, per mesi, le registrazioni di cui disponeva e che erano assolutamente essenziali per capire la dinamica donald-rumsfelddegli avvenimenti». Oltre alle evidenti operazioni di depistaggio, Zelikow era inoltre amico di Steven Cambone, a sua volta «l’aiutante più vicino a Donald Rumsfeld». Malgrado ciò, la commissione prese per buoni – senza sospettare che fossero stati falsificati – i nastri forniti del Norad per scagionare il Pentagono, dai quali si evinceva che la Difesa non sarebbe stata informata per tempo dalla Federal Aviation Administration.

«La lista delle menzogne dimostrate dai documenti ma accettate come fatti dalla commissione e finite direttamente nel rapporto scritto da Zelikow e firmato dai presidenti  Kean e Hamilton è lunga e dettagliata», continua Chiesa. «Una di queste riguarda i movimenti di Donald Rumsfeld quella mattina». Secondo Richard Clarke, il ministro della difesa stava partecipando ad una video-conferenza alla Casa Bianca, cominciata alle 9.15. Il rapporto sostiene invece che, in quei minuti, Rumsfeld era nel suo ufficio e andò alla Casa Bianca solo dopo le 10. Il rapporto ignora la versione di Clarke, ovvero: Zelikow non crede a Richard Clarke, ma rifiuta di esaminare le registrazioni di quella video-conferenza, che avrebbero dimostrato qual era la verità. Tutto inspiegabile, se non con la volontà di coprire Rumsfeld.

Stessa manovra per i movimenti del generale Richard Myers, a capo della difesa aerea. Clarke racconta che Myers partecipò alla video-conferenza e cita addirittura le sue parole: «Otis ha lanciato due uccelli verso New York. Langley sta cercando ora di mandarne in volo altri due». Di tutto questo non c’è traccia nel rapporto, che afferma invece che Myers era in quel momento in Campidoglio, a colloquio con uno dei futuri membri della commissione, il democratico Max Cleland. «Il mondo di Washington è piccolo. Sarebbe bastato chiedere conferma al commissario Cleland per sbugiardare Richard Clarke. Ma Zelikow non ha perso tempo. Clarke è stato cancellato senza fare alcuna verifica: né interrogando Cleland, né esaminando la registrazione della video-conferenza».

Identica operazione per quanto concerne i movimenti del vice presidente Dick Cheney. «Il Rapporto contraddice qui non solo Clarke ma anche il segretario ai Trasporti Norman Mineta, e perfino quanto Cheney in persona raccontò a “Meet the Press” cinque giorni dopo l’11 settembre». Yukihisa Fujita, nella citata lettera a Hamilton, espone con precisione tutte le incongruenze temporali contenute nel rapporto. E domanda: come mai Hamilton e Kean, data la dick-cheneycomprovata disonestà di Zelikow (che essi, come emerge dal libro di Shenon, già perfettamente conoscevano), non solo non hanno rivisto il rapporto ma, dopo la sua pubblicazione, non hanno reso pubblico il loro eventuale dissenso?

«A queste domande non è venuta, per ora, alcuna risposta», conclude Giulietto Chiesa, riassumendo tuttavia ciò che emerge dalle rivelazioni. «Zelikow ha intenzionalmente oscurato le posizioni e i movimenti delle tre figure chiave dell’Amministrazione e della Difesa degli Stati Uniti in quel momento a Washington: Cheney, Rumsfeld e Myers».

Infine, resta il giallo delle telefonate via cellulari partite dagli aerei dirottati: due chiamate in tutto o molte di più? Il rapporto della commissione sull’11 settembre crede alla seconda versione (molte telefonate), ignorando «un documento dell’Fbi che afferma che furono “soltanto due” le telefonate da cellulari dai quattro aerei dirottati». Entrambe dal volo UA-93, quello che “cadde in Pennsylvania”: una effettuata da una hostess e l’altra da un passeggero che chiamò il numero 911.

Il rapporto dell’Fbi, reso pubblico nel 2006, è ora su Internet. Nel 2004 la commissione ne era al corrente? Secondo il giapponese Fuijta, la commissione aveva ricevuto quel documento già nel 2004, come si evince da un report dello staff, datato 26 agosto. Se il report è arrivato all’indomani della chiusura della commissione, scrive Fuijta ai presidenti Kean e Hamilton, «perché non rendeste nota una vostra pubblica dichiarazione in merito a questa rilevante nuova circostanza?». L’ennesimo episodio di autocensura, «o si tratta di un altro pezzo di informazione che vi fu sottratto da Philip Zelikow?».

«La faccenda delle telefonate – osserva Chiesa – è più clamorosa e rivelatrice di quanto possa sembrare a prima vista, perché moltiplica il numero dei bugiardi e dei falsi testimoni: che dovrebbero essere nuovamente interrogati, questa volta sotto giuramento e, se del caso, incriminati. Uno di questi è, con ogni evidenza, Ted Olson, marito di Barbara Olson, il quale raccontò a stampa e televisioni di avere ricevuto ben due telefonate dal cellulare della moglie, a bordo del volo AA-77». Il rapporto ufficiale prende tutto per buono, ma l’Fbi è categorico: non 11-settembre-2ci fu alcuna telefonata da cellulare dal volo AA-77 (quello del Pentagono). Barbara Olson tentò una sola chiamata che, in base ai tabulati, risultò disconnessa. La sua durata fu infatti di zero secondi.

«Tutto quanto fin qui scritto – commenta Giulietto Chiesa – non è farina del sacco dei “complottisti”, a meno di non considerare tali Richard Clarke, o lo stesso Hamilton, per non parlare di Philip Shenon», di cui Chiesa apprezza la meticolosità d’indagine, malgrado «l’ingenuità» e la «prudenza» con cui descrive «i calcoli cinici dei protagonisti», da Zelikow a Hamilton. Forse è autocensura, «per non dover poi affrontare le domande più gravi che sgorgano dalla sua stessa documentazione». E’ chiaro, aggiunge Chiesa, che il reporter del New York Times «sostiene la tesi della tremenda incompetenza delle diverse amministrazioni che ebbero a che fare con l’11 settembre, e non intende andare oltre. Ma quello che scrive è comunque sufficiente per gettare nel cestino l’intero rapporto di Philip Zelikow. E sarebbe sufficiente anche per l’apertura di una serie di procedimenti penali».

Se il libro di Shenon costituisce un contributo prezioso alla verità, per contro denuncia «i limiti del giornalismo americano d’inchiesta», come si evince dalla storia dei due “piloti presunti” del volo AA-77, Nawaf al-Hazmi e Khalid al-Mindhar. Risultavano schedati come  “potenziali terroristi”, sulla lista in possesso delle compagnie aeree americane. Eppure erano entrati negli Usa con i loro nomi e vi avevano vissuto per quasi un anno. «Come possa essere accaduto, Shenon non se lo chiede. Forse sarebbe stato utile chiederlo alla Cia, segnatamente agli addetti dell’agenzia che facevano entrare terroristi negli Usa a partire dal Consolato americano di Jedda, in Arabia Saudita».

Ma anche qui si arriva all’assurdo, alla farsa: i due avevano vissuto a San Diego, California, nell’appartamento di uno “storico informatore” dell’Fbi. Già sospettati di terrorismo, non solo entrano con i loro nomi negli Stati Uniti, ma vanno a finire in casa di Abdusattar Sheikh, che Shenon, in un altro passaggio del suo libro, definisce «informatore di lungo corso dell’Fbi». E’ ancora possibile parlare, come fa Shenon, di “incompetenza”? E’ sufficiente questa “incompetenza” per spiegare il silenzio dell’Fbi prima e dopo l’11 settembre? Ce n’è abbastanza per aprire un procedimento penale contro Shaikh? Ma non fu nemmeno convocato: l’Fbi si oppose al suo interrogatorio.

Su altri versanti risulta che il senatore Bob Graham, del Comitato del Senato per l’intelligence, aveva svolto indagini (passate sotto silenzio) dalle quali emergeva che «alcuni funzionari del governo saudita avevano avuto un ruolo nell’11 settembre». Erano 28 pagine di un rapporto assai dettagliato che però «rimasero secretate per motivi di sicurezza nazionale». La commissione non chiese neppure di vederle.

Michael Jacobson, ex legale dell’Fbi e funzionario dello staff agli ordini di Philip Zelikow, aveva scopero che i due “dirottatori” non si nascondevano neppure: «Il nome, l’indirizzo e il numero di Hazmi si trovavano nell’elenco telefonico di San Diego». Dagli archivi locali dell’Fbi è emerso che i due erano sotto controllo, furono ricevuti e ricevettero denaro da un “misterioso” espatriato saudita, Omar al-Bayoumi. Neppure costui fu mai sentito dalla commissione. «Sempre Jacobson – conclude Chiesa – scoprì che l’Fbi sapeva che i soldi per i due terroristi arrivavano direttamente dalla principessa Haifa al-Faysal, moglie dell’ambasciatore saudita a Washington. Ma nel rapporto della commissione non c’è traccia di tutto questo» (info: www.megachip.info).