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Era indispensabile avere sotto controllo il canale dell'informazione, era di vitale importanza. Tra fantasmi e affari da stringere il bisogno di distorcere e persuadere poteva significare vincere o perdere non la partita, ma la guerra. La regia occulta non poteva stare ferma a guardare. Piero Ottone dal 1972 al 1977 assunse la direzione del Corriere della Sera e con la famiglia Crespi condivideva la necessità di manifestare altre opinioni, ricercando voci meno conformiste, meno tradizionali. Così il Corriere della Sera decideva di ospitare sulle sue pagine la più pungente delle penne, Pier Paolo Pasolini. Insidiosi, velenosi, cocenti i suoi articoli raccolti, dal 1973 al 1975 passati alla storia come – gli scritti corsari. -
Articolo di Pasolini del 14 novembre 1974
Io so.
Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato "golpe" (e che in realtà è una serie di "golpe" istituitasi a sistema di protezione del potere).
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.
Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di "golpe", sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli "ignoti" autori materiali delle stragi più recenti.
Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).
Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l'aiuto della Cia (e in second'ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il '68, e in seguito, sempre con l'aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del "referendum".
Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l'altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l'organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari.
Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero.
Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell'istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio "progetto di romanzo", sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il '68 non è poi così difficile.
Tale verità – lo si sente con assoluta precisione – sta dietro una grande quantità di interventi anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è per sua natura il mio. Ultimo esempio: è chiaro che la verità urgeva, con tutti i suoi nomi, dietro all'editoriale del "Corriere della Sera", del 1° novembre 1974.
Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi.
Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi.
A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale.
Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi.
Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi – proprio per il modo in cui è fatto – dalla possibilità di avere prove ed indizi.
Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere), compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi.
Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi.
Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia.
All'intellettuale – profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana – si deferisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici.
Se egli vien messo a questo mandato viene considerato traditore del suo ruolo: si grida subito (come se non si aspettasse altro che questo) al "tradimento dei chierici" è un alibi e una gratificazione per i politici e per i servi del potere.
Ma non esiste solo il potere: esiste anche un'opposizione al potere. In Italia questa opposizione è così vasta e forte da essere un potere essa stessa: mi riferisco naturalmente al Partito comunista italiano.
È certo che in questo momento la presenza di un grande partito all'opposizione come è il Partito comunista italiano è la salvezza dell'Italia e delle sue povere istituzioni democratiche.
Il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico. In questi ultimi anni tra il Partito comunista italiano, inteso in senso autenticamente unitario – in un compatto "insieme" di dirigenti, base e votanti – e il resto dell'Italia, si è aperto un baratto: per cui il Partito comunista italiano è divenuto appunto un "Paese separato", un'isola. Ed è proprio per questo che esso può oggi avere rapporti stretti come non mai col potere effettivo, corrotto, inetto, degradato: ma si tratta di rapporti diplomatici, quasi da nazione a nazione. In realtà le due morali sono incommensurabili, intese nella loro concretezza, nella loro totalità. È possibile, proprio su queste basi, prospettare quel "compromesso", realistico, che forse salverebbe l'Italia dal completo sfacelo: "compromesso" che sarebbe però in realtà una "alleanza" tra due Stati confinanti, o tra due Stati incastrati uno nell'altro.
Ma proprio tutto ciò che di positivo ho detto sul Partito comunista italiano ne costituisce anche il momento relativamente negativo.
La divisione del Paese in due Paesi, uno affondato fino al collo nella degradazione e nella degenerazione, l'altro intatto e non compromesso, non può essere una ragione di pace e di costruttività.
Inoltre, concepita così come io l'ho qui delineata, credo oggettivamente, cioè come un Paese nel Paese, l'opposizione si identifica con un altro potere: che tuttavia è sempre potere.
Di conseguenza gli uomini politici di tale opposizione non possono non comportarsi anch'essi come uomini di potere.
Nel caso specifico, che in questo momento così drammaticamente ci riguarda, anch'essi hanno deferito all'intellettuale un mandato stabilito da loro. E, se l'intellettuale viene meno a questo mandato – puramente morale e ideologico – ecco che è, con somma soddisfazione di tutti, un traditore.
Ora, perché neanche gli uomini politici dell'opposizione, se hanno – come probabilmente hanno – prove o almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici, dei comici golpe e delle spaventose stragi di questi anni? È semplice: essi non li fanno nella misura in cui distinguono – a differenza di quanto farebbe un intellettuale – verità politica da pratica politica. E quindi, naturalmente, neanch'essi mettono al corrente di prove e indizi l'intellettuale non funzionario: non se lo sognano nemmeno, com'è del resto normale, data l'oggettiva situazione di fatto.
L'intellettuale deve continuare ad attenersi a quello che gli viene imposto come suo dovere, a iterare il proprio modo codificato di intervento.
Lo so bene che non è il caso – in questo particolare momento della storia italiana – di fare pubblicamente una mozione di sfiducia contro l'intera classe politica. Non è diplomatico, non è opportuno. Ma queste categorie della politica, non della verità politica: quella che – quando può e come può – l'impotente intellettuale è tenuto a servire.
Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo di Stato e delle stragi (e non al posto di questo) io non posso pronunciare la mia debole e ideale accusa contro l'intera classe politica italiana.
E io faccio in quanto io credo alla politica, credo nei principi "formali" della democrazia, credo nel Parlamento e credo nei partiti. E naturalmente attraverso la mia particolare ottica che è quella di un comunista.
Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia (anzi non aspetto altro che questo) solo quando un uomo politico – non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma piuttosto per creare la possibilità di tale momento – deciderà di fare i nomi dei responsabili dei colpi di Stato e delle stragi, che evidentemente egli sa, come me, non può non avere prove, o almeno indizi.
Probabilmente – se il potere americano lo consentirà – magari decidendo "diplomaticamente" di concedere a un'altra democrazia ciò che la democrazia americana si è concessa a proposito di Nixon – questi nomi prima o poi saranno detti. Ma a dirli saranno uomini che hanno condiviso con essi il potere: come minori responsabili contro maggiori responsabili (e non è detto, come nel caso americano, che siano migliori).
Questo sarebbe in definitiva il vero Colpo di Stato. 14/11/1974 Corriere della Sera.
Cefis, a cui si attribuisce la nascita della P2 e l'omicidio di Enrico Mattei non ci sta e si scatena contro il Corriere della Sera colpevole di pubblicare gli articoli di Pasolini. Pasolini non parla, straparla, soprattutto insinua strane storie sul petrolio.
L'ultimo lavoro letterario del Poeta è stato Petrolio. Nelle pagine del libro mai concluso le complicate vicende dell'Eni, le azioni criminali di Cefis e di quella parte occulta che siede al governo. Pochi giorni dalla sua morte qualcuno entrerà nella sua casa portando via gran parte dei documenti su Petrolio. Un mistero che rafforza l'idea si sia trattato di un omicidio politico. Non si può non tener conto del capito 21 del libro; l'ampi su l'Eni. Un capitolo che non c'è, sparito, un capitolo di cui resta solo il titolo e sul quale Pasolini rimanderà spesso il lettore nei capitoli successivi. Un'ossessione quella sull'oro nero che lo porterà alla morte. Come non tener conto del lavoro investigativo di un Pasolini svolto attingendo notizie e indizi nella malavita romana, la combriccola armata dei centri di estrema destra colpevoli anche dello stupro politico a danno di Franca Rame compagna di Dario Fo. "Io non posso fare nemmeno un movimento. E' perché sono come congelata. E perché ora quello che mi sta dietro non tiene più il suo ginocchio contro la mia schiena. S'è messo più comodo. Mi tiene tra le sue gambe, dal di ditero, come si faceva anni fa quando si toglievano le tonsille ai bambini." Franca Rame, attrice, comica, intellettuale, sequestrata e stuprata la notte del 9 marzo 1973 da un branco di uomini, legati ad ambienti di destra e al traffico d'armi. Durante lo stupro sarà insultata e seviziata: come Pasolini durante il linciaggio; " sporco comunista, frocio ". I responsabili erano giovani legati alla destra neofascista dell'epoca: Angelo Angeli, Biagio Pitarresi, "un certo Muller" e "un certo Patrizio".
Solo dopo la conclusione del processo del 1998 si saprà che lo stupro era stato 'ispirato' da alcuni alti ufficiali della divisione di Carabinieri Pastrengo. Non si scherza, chiunque si dimostri rivoluzionario, chiunque tenti di portare a galla verità scottanti sulla linea politica di quel tempo paga, con la morte o con lo stupro. È talmente tutto così sporco di sangue in quegli anni. Ma torniamo a Pasolini, a Petrolio, all'articolo sul Corriere della Sera – Io so. Pasolini sapeva ma non aveva le prove, evidentemente le cercherà e le troverà e per questo verrà brutalmente, vigliaccamente ucciso nel corpo e nell'anima. Nel corpo a suon di mazze di ferro, nell'anima con la storia dell'omicidio a sfondo sessuale, un frocio che voleva violentare Pelosi. Un ragazzino, un marchettaro di diciassette anni. Nato e cresciuto nell'ignoranza e nel degrado, frequentatore di bische malavitose. Scippatori, ladri di stereo, estremisti di destra chiamati talvolta a compiere il lavoro sporco, ma da chi? Dagli ideatori della " strategia della tensione ". Poco importa il motivo che farà incontrare Pasolini con Pelosi, che siano le pizze del film rubato, che sia un appuntamento amoroso. Non importa. Importa che Pelosi assiste all'omicidio, e se è vera la sua versione, cioè che ignorava sarebbe finita così, qualcosa non torna. Troppe cose non tornano. Se davvero Pelosi ignorava il plotone di esecuzione allora deve dirci come, quando e chi, visto che è stato fermato subito dopo l'omicidio, gli ha detto di farsi i – cazzi suoi -, chi lo ha minacciato, chi lo ha convinto ad attribuirsi tutta la responsabilità. Dovremmo pensare sia stata la stessa questura? Qualcuno al suo interno? Qualcuno che aspettava la conferma dell'omicidio avvenuto? Qualcuno già ingaggiato pronto ad intervenire? Potrebbe essere una spiegazione e se pensiamo ai fitti intrecci politici di quei tempi, se pensiamo che in ogni ambito vivevano le cellule di quella regia occulta, potrebbe essere andata proprio così. Anche perchè le indagini furono svolte con il preciso compito di perdere, smarrire, prove e indizi, a partire dalla scena del delitto diventata sin dalle prime ore terra di sabotaggio. Per non parlare dell'auto lasciata senza controllo fuori dal parcheggio giudiziario. Senza contare le testimonianze raccolte all'idroscalo e mai prese in considerazione, senza parlare di Jonny Lo Zingaro, del plantare rinvenuto nella macchina e non appartenente né a Pelosi, né a Pasolini, ma forse a Jonny Lo Zingaro, ferito ad un piede da una pallottola tempo prima. Oppure Pelosi sapeva dal principio quello che sarebbe avvenuto e per questo uscì ad urinare, per lasciare Pasolini in macchina da solo in quell'idroscalo. Per permettere alle ombre saltate fuori dal nulla di prenderlo e trascinarlo fuori dall'auto ammazzandolo di botte. Trasformandolo in una maschera di sangue e fango, riducendogli il corpo in un grumo rotto di sangue e ossa. Quindi anche la fuga nell'auto del poeta da parte di Pelosi poteva essere una messa inscena, senza annullare l'ipotesi che quella pattuglia era là a posta pronta ad intervenire. Però questa seconda ipotesi spiegherebbe poco il cambio degli avvocati per la difesa di Pelosi. Al principio lo difenderà un avvocato di ufficio, in seguito lo seguiranno avvocati e periti iscritti alla P2. In tutto questo marasma convulso e indigesto si riaprono le indagini. Più volte, poi concluse con sempre più dubbi e domande e con meno verità; nel tempo, il tempo, ingoia ricordi importanti. A marzo 2010 una notizia clamorosa; Dell'Utri dichiarerebbe di possedere il capitolo 21 di Petrolio, " 'ampi sull'Eni ".
Dice di aver partecipato ad una mostra o una inaugurazione, poco importa, e che in quel mentre un anziano signore lo avrebbe raggiunto per dirgli di possedere quel capitolo in casa sua, ma che non avrebbe in seguito più voluto mostrarglielo impaurito dal clamore mediatico suscitato. Marcello Dell'Utri è un senatore della Repubblica per il partito Popolo della Libertà. Un senatore condannato per mafia a sette anni. Fondatore di Forza Italia, il tribunale non lo ha condannato per le stragi del 1992 non perchè non colpevole, ma in quanto – troppo – antecedenti. Altrimenti sarebbe stato ergastolo. Marcello Dell'Utri è cresciuto con Silvio Berlusconi, una coppia inscindibile fin dagli anni ottanta, ma anche prima; amicizia, affari, collaborazioni al limite della legalità. Laureatosi in giurisprudenza conoscerà Berlusconi Silvio nel 1961, nel 1964 a 23 anni gli farà da segretario siglando la prima collaborazione. Nel 1965 si trasferirà a Roma e per un paio di anni dirigerà il Gruppo Sportivo Elis nel quartiere Tiburtino – Casal Bruciato, il quartiere di Pasolini. Il quartiere ispiratore di poesie e della sua morte. È il Centro internazionale per la gioventù lavoratrice, nato nel 1964 per volontà di Papa Giovanni XXIII e gestito dall'Opus Dei. Molte altre cose farà Dell'Utri nel corso della sua spregiudicata vita, ma questo periodo è importante. Importante in considerazione dell'assassinio politico a Pasolini, maturato proprio in quel quartiere e in considerazione della dichiarazione del senatore sempre proposito del capitolo 21 del libro incompiuto Petrolio. La politica si agita, Veltroni interroga il governo, scrive al ministro Alfano, si riaprono le indagini. Indagini che non scopriranno niente, non è un voler essere pessimisti, ma un voler restare con i piedi a terra. Alcuni tra i responsabili dell'assassinio si Pasolini oggi sono ancora vivi e potenti. La dichiarazione di Dell'Utri solo un messaggio per pochi.
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