Provate ad immaginare una cosa del genere: un cosiddetto esperto di storia presidenziale di un grande network pubblica un’intervista sul giornale più famoso del mondo con il cantautore più famoso del mondo, che ha appena scritto una appassionata canzone in cui acccusa il governo degli Stati Uniti di aver partecipato all’assassinio del più famoso presidente americano moderno e l’intervistatore non fa neanche una domanda al cantante sulle specifiche accuse presenti nella sua canzone, se non per chiedergli se fosse rimasto sorpreso del fatto che la sua canzone era la n°1 della classifica di Billboard e porgli altri quesiti di argomento musicale e culturale che non hanno niente a che vedere con l’assassinio [del presidente].
Smettete di immaginare. Perché questo è esattamente ciò che Douglas Brinkley, storico presidenziale della CNN, ha appena fatto nella sua intervista del 12 giugno 2020 con Bob Dylan, pubblicata sul New York Times. L’intervista chiarisce in maniera inequivocabile che Brinkley non è minimamente interessato a ciò che Dylan ha da dire sull’assassinio del presidente degli Stati Uniti John F.Kennedy, il cui barbaro omicidio rappresenta l’emblema dell’involuzione degli Stati Uniti e della loro trasformazione in quella che, attualmente, è una vera e propria cloaca. Brinkley ha un’altra agenda.
Introduce l’intervista parlando della sua relazione con Dylan e ci dice che, grazie ad essa, si era sentito “a suo agio” quando lo aveva contattato nel mese di aprile, subito dopo l’uscita della sua canzone sull’assassinio di JFK, “Murder Most Foul.” Cita all’uopo un pezzo del New York Times di John Pareles, in cui Pareles descrive l’uscita della canzone come una vera e propria sorpresa: “L’assassinio di John F. Kennedy è la sua essenza e il suo trauma emotivo principale (“l’anima di una nazione è stata strappata via / e sta iniziando a decadere lentamente”) mentre Dylan cerca di trovare risposte, o almeno indizi, nella musica.”