03 gennaio 2020

In visita a Julian Assange, prigioniero politico nel Regno Unito


Sono partito da casa all’alba. Belmarsh, la prigione di Sua Maestà  si trova nel pianeggiante entroterra del sud-est di Londra, una serie di muri e di reti senza orizzonte. In quello che viene chiamato Centro visitatori, ho lasciato passaporto, portafoglio, carte di credito, carte mediche, soldi, telefono, chiavi, pettine, penna, carta.
Io uso due paia di occhiali, pertanto ho dovuto scegliere quale mi serve di più e ho lasciato gli occhiali da lettura. Da qui in poi, non potevo più leggere, proprio come Julian non riusciva a leggere durante le sue prime settimane di detenzione. Gli occhiali che gli avevano mandato, inspiegabilmente, ci hanno messo mesi prima di arrivare.
Al centro visitatori ci sono grandi schermi e la TV è sempre accesa e, a quanto pare, il volume è sempre alto. Giochi, spot, pubblicità di automobili, di pizza e di funerali, perfino i talk-show sembrano perfetti per una prigione: servono come il valium, per gli occhi.
Mi sono messo in fila con persone tristi e preoccupate, per lo più povere donne, bambini e nonne. Alla prima scrivania, mi hanno preso le impronte digitali, se si possono ancora chiamare così i test biometrici.
“Poggi tutte e due le mani e spinga forte!” Mi hanno detto e subito ho visto il mio file sullo schermo.
Adesso potevo attraversare il cancello principale, che si trova nelle mura esterne della prigione. L’ultima volta che sono stato a Belmarsh per vedere Julian, pioveva forte e, oltre il centro visitatori, non è permesso portare l’ombrello, così dovetti scegliere se bagnarmi tutto o correre come un pazzo. Stessa cosa dovevano fare anche le nonne.
Arrivato alla seconda scrivania, un impiegato mi disse: “Che cos’è quello?”
“Il mio orologio da polso”, risposi con un senso di colpa.
“Lo lasci nella sala precedente”, così dovetti correre di nuovo sotto la pioggia e ripassare per il test biometrico prima di tornare e fare la scansione completa del corpo e la perquisizione fisica completa dalla testa ai piedi incluso l’interno della bocca.
Ad ogni fermata, il nostro gruppetto silenzioso e obbediente si trascinava in una fila obbligata, stretta dietro una linea gialla. Peccato per chi soffre di claustrofobia. Una donna stava con gli occhi chiusi. Poi ci ordinarono di entrare in un’altra sala di attesa, di nuovo con porte di ferro che si chiudevano rumorosamente davanti e dietro di noi.
“In fila dietro la linea gialla!” Diceva una voce impersonale, poi si dischiuse un’altra porta elettronica e tutti saggiamente esitarono. Faceva venire i brividi ogni volta che si apriva e si richiudeva. Altra sala di attesa, altra scrivania, altra voce che ripeteva  “Mostrare il dito!”
Entrammo in una grande stanza con dei quadrati sul pavimento dove dovevamo metterci uno in ogni quadrato, poi arrivarono due uomini con i cani da fiuto che ci annusarono davanti e didietro.
I cani ci annusarono il culo e ci sbavarono le mani. Altre porte ancora e un nuovo ordine “Mostrare il polso!”
Un marchio laser era il biglietto che ci permise di entrare nella grande sala, dove i prigionieri sedevano in silenziosa attesa, davanti a sedie vuote. Dall’altra parte della sala c’era Julian, che portava una sciarpa gialla sui vestiti della prigione.
Come prigioniero in custodia cautelare Julian avrebbe diritto a indossare i propri abiti, ma lo scorso aprile quando quei teppisti della polizia lo andarono a prendere per trascinarlo fuori dall’ambasciata dell’Ecuador, gli impedirono di prendere la sua borsa. I vestiti glieli avrebbero mandati dopo, dicevano, ma come per gli occhiali da lettura, andarono misteriosamente persi.
Per 22 ore al giorno, Julian è confinato nella “healthcare”. Non è proprio l’ospedale della prigione, ma un posto dove può restare in isolamento, essere curato e spiato. Lo spiano ogni 30 minuti, quando si vede qualcuno che guarda dallo spioncino della porta. E’ una procedura che si chiama  “suicide watch”.
Nelle celle vicino ci sono gli assassini, e più giù un malato di mente che urla tutta la notte. “Questo è il mio unico volo sul nido del cuculo”, mi ha detto Julian. Come “terapia” qualche volta può giocare a Monopoli. Una volta a settimana può vedere qualcuno se va a messa. Il prete, un uomo gentile, è diventato suo amico. L’altro giorno, nella cappella del carcere un prigioniero è stato colpito con un pugno in testa. Gli è arrivato da dietro mentre si cantavano i salmi.
Appena arrivato, nel salutarlo, gli ho sentito le costole, le braccia non hanno più muscoli, da aprile scorso deve aver perso dai 10 ai 15 chili. Quando l’ho visto qui, per la prima volta a maggio scorso, la cosa più scioccante è stata vederlo tanto invecchiato.
“Penso che sto andando fuori di testa”, mi ha detto.
“No, stai tranquillo -gli ho risposto – guarda quanto sono spaventati loro e quanto sei potente tu”. L’intelligenza, la resilienza e il cinico senso dell’umorismo di Julian – tutto inutile per la povera vita a cui è condannato – credo che servano a proteggerlo. Sta molto male, ma non diventerà pazzo.
Mentre chiacchieriamo, lui tiene la mano sulla bocca per non far capire quello che dice, intorno ci sono le telecamere, all’ambasciata eravamo abituati a parlare scrivendoci dei bigliettini per non farci vedere dalla telecamere. Quando c’è un Grande Fratello, tutti hanno sempre paura.
Alle pareti ci sono slogan happy-clappy che esortano i prigionieri a “continuare ad andare avanti”, “a essere felici, avere speranza e ridere spesso”.
L’unico movimento che può fare Julian è fare su e giù, dentro una piccola macchia di asfalto in mezzo a mura alte  con altri happy-clappy che dicono di godersi “i fili d’erba sotto i piedi”. Però lì l’erba non c’è.
Ancora gli negano un laptop o un software con cui preparare la sua difesa contro l’estradizione, non può ancora chiamare il suo avvocato in America o la sua famiglia in Australia.
L’opprimente meschinità di Belmarsh ti si attacca addosso come sudore. Se ti avvicini troppo al prigioniero, una guardia ti ordina di sederti. Se levi il coperchio dalla tazza del caffè, una guardia ti ordina di rimetterlo al suo posto. Si possono portare £ 10 da spendere in un piccolo caffè gestito da volontari. “Vorrei qualcosa di sano”, mi ha detto Julian e si è divorato un panino.
Dall’altra parte della stanza, un prigioniero e una donna che era andata a trovarlo stavano litigando: quello che potremmo chiamare un litigio “domestico”. È intervenuta una guardia e il prigioniero ha detto  “vaff ….”.
Questo è stato un segnale per le guardie, uomini e donne in gran parte sovrappeso e pieni di voglia di saltargli addosso e di tenerlo a terra, poi l’hanno portato fuori di peso. In quell’aria stantia aleggiava un senso di soddisfazione violenta.
Allora le guardie hanno cominciato a urlare che era ora di andare per tutti, così insieme a donne, bambini e nonne, ho ripercorso il lungo viaggio attraverso il labirinto di sale chiuse, di linee gialle e di controlli biometrici, fino al cancello principale. Mentre lasciavo lo stanzone delle visite, mi sono guardato indietro, come faccio sempre e Julian stava ancora là, seduto da solo e teneva alto un pugno chiuso.
John Pilger
comedonchisciotte.org traduzione Bosque Primario

30 dicembre 2019

Il fantasma Edoardo Agnelli, le non-indagini sulla sua fine

Edoardo Agnelli Edoardo Agnelli, figlio del presidente della Fiat, è morto il 15 novembre del 2000. Come? Esattamente, non si sa. Il suo fantasma, invece, si aggira senza pace da ormai 19 anni, senza il conforto di una messa di suffragio, di un pietoso necrologio. Strano fantasma, Edoardo Agnelli: uscito di scena poco prima della morte dell’Avvocato, e dopo l’improvvisa investitura di John Elkann. Morto dopo aver detto che – da erede di un terzo dell’impero industriale – avrebbe messo il naso nei bilanci. Quel 15 novembre, l’irrequieto Agnelli junior (anomalo, imprevedibile, idealista) era già un fantasma: uscito di casa non si sa come, perso di vista dalla scorta. Secondo gli inquirenti avrebbe guidato la sua Croma senza però lasciare tracce: non un’impronta digitale, nemmeno sul volante. Non indossava guanti: nel caso, li avrebbero trovati insieme a tutto il resto, ai piedi del fatale viadotto sulla Torino-Savona dove emerse il corpo, 78 metri più in basso. Strano ritrovamento: era riconoscibile, non sfracellato, senza sfondamento della cassa toracica. Le bretelle allacciate, le scarpe non stringate (mocassini) ancora ai piedi, gli occhiali rimasti sul naso. Dopo un volo di quasi cento metri? Ebbene sì, e caso chiuso: suicidio.
Il primo a non credere alla versione ufficiale è un cronista di razza come Gigi Moncalvo, per un semplice motivo: nessuno svolse vere indagini. E ha dell’incredibile la trascuratezza di chi avrebbe dovuto ricostruire le ultime ore di Edoardo Agnelli. Un ragazzone di 46 anni, a lungo celebrato dall’Iran come “martire dell’Islam”. «Sulla sua morte, il governo di Teheran ci ha pedalato parecchio», dice Moncalvo, autore del libro-inchiesta “Agnelli segreti“, che alla tragica fine di Edoardo dedica 8 capitoli, fondati sul fascicolo della Procura di Mondovì. La tesi degli ayatollah: Edoardo, che aveva aderito all’Islam, sarebbe stato ucciso da un complotto sionista, ordito per mettere le mani sulla Fiat manipolando l’ebreo John Philip Jacob Elkann, allora giovanissimo. Obiettivo: scongiurare il rischio che ci finisse “un musulmano”, a controllare i conti della Fiat. A far paura era la caratura di Edoardo, che aveva dichiarato guerra alla produzione di armamenti, «come le mine antiuomo che la Fiat metteva sul mercato, tramite la consociata Valsella».
Moncalvo è un veterano dell’informazione italiana: profetico innocentista sul caso Tortora, redattore al “Giorno” e al “Corriere”, fautore dei primi Tg berlusconiani, infine dirigente Rai. E autore prolifico di saggi coraggiosi (e subito scomparsi dalle librerie) come quelli dedicati alle dinastie Agnelli e Caracciolo. «Non dico che Edoardo non si sia ucciso, né che “sia stato suicidato”», ribadisce a “Forme d’Onda“, trasmissione web-radio. «Dico solo che, a 19 anni dal decesso, non sappiamo come sia morto: se si è tolto la vita, se è stato ucciso. Se è uscito di casa da solo, oppure no. Se è stato deposto già cadavere ai piedi di quel viadotto. L’unica certezza è questa: Edoardo è morto». Riparlare della sua fine, osserva il giornalista, sembra sempre una cosa sgradevole, «come se si volesse rivangare il passato e non lasciare in pace un signore che è morto a 46 anni, in circostanze che sono ancora oggi misteriose, anzi misteriosissime». Stranezze: «Dopo 19 anni, il fascicolo presso il tribunale di Mondovì è ancora secretato, nonostante ci siano state inchieste, e nonostante io e alcuniMoncalvoavvocati abbiamo inviato alla Procura di Mondovì il mio libro “Agnelli segreti”, dove sono indicati 48 punti che rivelano come non sono state fatte le indagini, come si è voluto nascondere una serie di responsabilità notevoli».
Niente complottismi: solo fatti documentati. «Una massiccia campagna di stampa orchestrata dall’ufficio pubbliche relazioni della Fiat, quindi per ordine della famiglia, ha sempre voluto far credere che Edoardo si fosse suicidato». Chiariamoci, premette Moncalvo: «Tutte queste voci attorno alla sua morte si sono diffuse proprio a causa della mancata chiarezza fatta da chi aveva il potere e il dovere di intervenire: il primis il procuratore capo di Mondovì, Riccardo Bausone, ora in pensione». Edoardo «poteva dare fastidio, pur nella sua irrequietudine», nonostante «le trappole in cui era caduto». Per esempio, nel ‘90, l’incidente di Malindi, in Kenya: fermato dalla polizia per possesso di stupefacenti. «Un arresto avvenuto con accompagnamento di telecamere, cioè in una maniera che destava molti sospetti sulle modalità e sugli scopi di quella vicenda». La storia poi accelera di colpo nel ‘97, quando si spegne (a soli 33 anni) il cugino Giovannino, cioè Giovanni Alberto Agnelli, figlio di Umberto, dipinto dai giornali, erroneamente, come ipotetico delfino dell’Avvocato. Al suo posto, nel Cda Fiat, anziché Edoardo viene inserito stranamente l’imberbe John. Per protestare, il primogenito chiama Paolo Griseri, affidando al “Manifesto” la più clamorosa delle interviste: non creda, mio padre, di sbarazzarsi di me.
Attenzione: «Edoardo era considerato una sorta di lebbroso, un ragazzo da evitare. Per offenderlo, screditarlo e diffamarlo, si diceva: Edoardo è matto, drogato e sbalestrato, impregnato di teorie e filosofie confuse, piene di astrattismi e di utopie». Obiettivo: isolarlo. Griseri, oggi redattore di “Repubblica”, violò l’embargo. Incontrò il giovane Agnelli al convento dei cappuccini di Torino, una sera di nebbia. Ne uscirono frasi lapidarie. Un avvertimento: come erede, mi spetterà un terzo dalla Fiat, della Exor, dell’Accomandita Giovanni Agnelli e soprattutto della Dicembre, la società strategica che domina tutto. «Una dichiarazione che a qualcuno fa tremare i polsi: non si illuda, mio padre – precisa Edoardo – di scrivere o di disporre che quel terzo di diritto che mi spetta, delle azioni, mi venga liquidato convertendolo in denaro. No: io voglio le azioni, come mio diritto. Voglio verificare i bilanci della società, controllare i prodotti della Fiat». Edoardo lo mette proprio in chiaro: non Il giovane Edoardo con il padreaccetterà di essere messo alla porta con una buonuscita zeppa di milioni. Vuole poter pesare, dire la sua. Per questo, esigerà un terzo della partecipazione azionaria.
Prende anche le distanze da John Elkann: mi meraviglia, dice, che mio padre lo abbia nominato. E’ stato un grosso errore: la cooptazione di “Yaki” è stata decisa contro le perplessità di mio padre, che infatti all’inizio non voleva dare il suo assenso. «Come se (e qui fa una rivelazione importante) Gianni Agnelli fosse stato in qualche modo convinto, forzato, costretto a nominare John nel Cda?». Edoardo dice che “qualcuno” ha spinto il padre ad agire in quel modo. Moncalvo pensa a Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens, che definisce «i due “consiglieri della corona”, i due Richelieu della real casa torinese». Quasi ci fosse la seguente configurazione: intanto prepariamo il terreno a ciò che accadrà dopo la morte dell’Avvocato, all’epoca in precarie condizioni, reduce da 6 operazioni al cuore e tormentato da un tumore alla prostata (si spegnerà quasi 5 anni dopo, il 24 gennaio 2003). Quindi, “qualcuno” – per mantenere il potere – manovrò perché venisse fatto fuori, sul piano azionario, il figlio di Agnelli, per mettere al suo posto un soggetto come il ragazzino John, molto più controllabile, addomesticabile, condizionabile?
La domanda di Moncalvo resta in sospeso, fino alle deduzioni più recenti, dopo la guerra familiare scatenata dalla sorella di Edoardo, Margherita Agnelli, sull’eredità dell’Avvocato. E se Edoardo fosse stato ancora vivo, alla morte di suo padre nel 2003? «La vedova, Marella, ha donato tutto a suo nipote John Elkann irritando la figlia, Margherita. Vivo Edoardo, alleato con sua sorella, la madre non avrebbe potuto fare quello che ha fatto, a favore di John». Quindi, ragiona Moncalvo, «la scomparsa di Edoardo ha facilitato il disegno di coloro che volevano mettere le mani sulla Fiat, o ufficialmente o dietro le quinte, o comandando attraverso un giovanotto pallido, imberbe e inesperto». Costoro, aggiunge sempre Moncalvo, se si fossero trovati sulla loro strada Edoardo Agnelli, come avrebbero potuto convincere “donna Marella” a donare la sua parte? «Come avrebbero potuto convincere John ad accoltellare sua madre, Margherita, portandole via la Dicembre e il controllo della società? E come Grande Stevens e Gabettiavrebbe potuto, la stessa “donna Marella”, accoltellare alla schiena sua figlia Margherita, rompendo l’unità familiare e mettendole contro il primogenito, John? Pensate che cosa avrebbe determinato, la sola presenza di Edoardo».
Solo ipotesi, naturalmente, perché Edoardo Agnelli è diventato ufficialmente un fantasma due anni e sette mesi dopo la famosa intervista al “Manifesto”. E qui Moncalvo, autorizzato da Margherita Agnelli a consultare le carte giudiziarie, spalanca il libro della vergogna. Il 15 novembre 2000, la famosa Fiat Croma viene avvistata da un addetto alla sicurezza autostradale, in sosta sul ponte che sovrasta il fiume Stura di Demonte, nel territorio di Fossano. Il corpo di Edoardo è rinvenuto, quasi intatto, 78 metri più in basso, ai piedi del viadotto. L’esame necroscopico è sommario, grossolanamente superficiale: il medico legale (non quello di turno, ma un medico chiamato apposta dal procuratore) sbaglia il peso e l’altezza del cadavere, togliendoli 20 chili e 20 centimetri. Dieci anni dopo, a “La storia siamo noi”, Giovanni Minoli farà una sua ricostruzione, “L’ultimo volo”, che cita le versioni alternative ma poi accredita la tesi del suicidio. Gli esperti in studio, si esaspera Moncalvo, «arriveranno a dire che è normale, se uno cade in piedi, che possa accorciarsi e diventare quasi nano».
Gigi Moncalvo insiste sui primi istanti del ritrovamento. La polizia stradale di Cuneo, subito sul posto, viene rimpiazzata dalla polizia torinese, accorsa in forze. Il questore, Nicola Cavaliere, ha accompagnato personalmente il padre, Gianni Agnelli, sconvolto, a riconoscere quel che resta di suo figlio. Il procuratore Bausone fa due annunci, a caldo. Primo: non si esclude nessuna ipotesi. Secondo: sarà fondamentale l’esito dell’autopsia. Peccato però che l’autopsia non verrà mai eseguita, e che l’unica ipotesi in campo sarà quella del suicidio. L’esame autoptico, chiarisce Moncalvo, sulla carta era rischioso: se per caso nel corpo di Edoardo fossero emerse tracce di stupefacenti, sarebbe scattata d’ufficio una imbarazzante indagine parallela, a Torino, sul mondo dello spaccio eventualmente frequentato dalla vittima. Ma l’autopsia mancata, secondo Moncalvo, è solo uno degli aspetti, neppure il peggiore, della clamorosa non-indagine. La Croma era parcheggiata in modo perfetto, allineata al guard-rail, e Edoardo Agnelli non sapeva posteggiare in retromarcia. Pesava 119 chili, ed era claudicante: si aiutava col bastone, per i Il luogo del ritrovamento del corpopostumi di una caduta. In quelle condizioni, con un fisico come il suo (un metro e novanta di statura) sarebbe sgusciato dall’auto e si sarebbe arrampicato sul parapetto, alto un metro e mezzo, per poi lanciarsi sotto. E senza essere visto da nessuno, lungo un’autostrada percorsa da quasi 70 veicoli al minuto.
Per la Procura di Mondovì, la prova regina dell’ipotetico suicidio è rappresentata dal Telepass trovato a bordo della Croma, che registra ogni spostamento. Quella mattina: l’ingresso a Torino in direzione Savona, l’uscita a Marene, il rientro in autostrada fino al viadotto di Fossano. Coincide coi percorsi dei tre giorni precedenti: segno, per gli inquirenti, che Edoardo Agnelli vagasse in cerca di un ponte da cui gettarsi. Peccato, dice Moncalvo, che la vettura su cui era installato il Telepass viaggiasse a 150 all’ora: non certo la velocità ideale, per chi si sta guardando attorno in cerca del punto adatto in cui farla finita. Non solo: il Telepass non prova che Edoardo fosse alla guida della Croma. E non essendo collegato alla targa, non dimostra nemmeno che fosse installato su quella berlina: l’aggeggio infatti può essere benissimo trasferito da una vettura all’altra. Per giunta, la Croma disponeva di un navigatore Gps: quello sì, avrebbe rivelato con certezza i movimenti della Croma. «Ma il Gps non è stato controllato. Invece il Telepass, incredibilmente, è diventato l’unica prova su cui fondare l’ipotesi del suicidio». Del resto, meglio non dire: si stenta a credere – insiste Moncalvo – che ci si sia davvero rifiutati di indagare.
Eppure, visitata Villa Sole, la casa di Edoardo sulla collina torinese, la Digos – dice sempre Moncalvo – evita di sequestrare i filmati delle telecamere di sorveglianza: sarebbe stato il primo passo, elementare. Avrebbe svelato a che ora Edoardo era uscito di casa, se era solo o accompagnato, se era ancora vivo. E se indossava già – come poi si è accertato, sotto il tragico viadotto – il suo pigiama a righe, sotto l’abito blu. E non è tutto: in casa ci sono quattro telefoni, ma nessuno chiederà alla Telecom i tabulati. Resteranno muti anche i due computer. «Erano protetti da password, dissero gli inquirenti. Per superare l’ostacolo, però, bastava un hacker di vent’anni». E la scorta di Edoardo? Se c’era, dormiva: «Dissero che si era allontanato senza che ne accorgessero, nonostante avessero avuto l’ordine di sorvegliarlo ovunque: la famiglia sperava che la presenza della scorta lo tenesse lontano dalla droga o da incontri con persone particolari». Cade dalle nuvole, il personale di sicurezza: dice che Villa SoleEdoardo se n’era andato a spasso, con la sua Croma, anche nei tre giorni precedenti. La cosa strana, osserva Moncalvo, è che la polizia non fa altre domande: anzi, si accontenta di un memoriale consegnato loro dai vigilantes, evidentemente preparato dalla società, la Orione, che gestisce la security del mondo Fiat.
Moncalvo si domanda cos’abbia potuto rendere così accondiscendenti gli agenti della Digos: il potere immenso della famiglia Agnelli, i rapporti personali del questore con l’Avvocato?Forse anche il miraggio di poter lasciare un giorno la divisa per un posto tra le guardie dell’Orione, dove si rischia meno e si guadagna il doppio? Ma quello che lascia maggiormente stupefatti, dice Moncalvo, è innanzitutto il comportamento della magistratura. «Dieci giorni dopo il ritrovamento – racconta il giornalista – al procuratore di Mondovì arriva una lettera anonima, proveniente da un carcere di massima sicurezza del Nord Italia». Si parla apertamente di omicidio, riguardo alla fine di Edoardo. La lettera l’ha scritta probabilmente un detenuto condannato per reati di mafia, dato che (in altre sue parti) contiene riferimenti precisi a una vicenda criminale molto grave. «Nella lettera vengono accusati alcuni magistrati». Nel momento in cui Bausone riceve la missiva, per dovere d’ufficio la trasmette alla Procura generale di Torino, allora retta da Giancarlo Caselli. «Bausone allega un proprio appunto, in cui dice: è arrivata questa lettera, anonima, che formula ipotesi sui mandanti e sul modo in cui è morto Edoardo Agnelli. Ma posso assicurare – aggiunge – che si tratta di un evidente caso di “precipitazione”».
Quindi, sintetizza Moncalvo, «a soli 10 giorni dalla morte, senza aver svolto indagini, Bausone ha già deciso che Edoardo Agnelli si è suicidato». E questo, nonostante il minuzioso rapporto della Polstrada di Cuneo: Edoardo Agnelli avrebbe guidato la sua auto fino a Fossano, ma come un fantasma, senza lasciare tracce. «Sulle superfici lisce della Croma non ci sono impronte. Volante, cambio, autoradio, radiotelefono, sedili, portiere, maniglie. E Edoardo non portava guanti». Senza impronte anche gli oggetti a bordo: una bottiglia d’acqua bevuta a metà, 11 scatole di fiammiferi, 8 confezioni di filtri David Ross, 11 confezioni di panni per la pulitura delle lenti. Non un’impronta neppure sui 5 bloc notes con fogli manoscritti: con scritto cosa, poi? Non lo si sa. Niente tracce sulle 5 cartine geografiche, sulle 2 mappe fotocopiate, sui 4 blocchetti di prelievo Lapo e John Elkann con Marella Agnellimateriale. Nessuna impronta digitale sui 2 telecomandi, sulla lampada di emergenza, sullo spolverino, sulle 5 audiocassette. Su quell’auto, Edoardo non aveva mai lasciato un’orma, nemmeno nei giorni precedenti?
L’assenza di impronte lascia sbalorditi, dice Moncalvo: «Morire che ci sia un poliziotto, un questore, un capo della Digos – ma soprattutto un magistrato – che non rimanga stupefatto come lo siamo rimasti noi». Logica deduzione: «Solo un’organizzazione criminale di altissimo livello arriva a “ripulire” perfettamente da ogni tipo di impronte ogni superficie, interna ed esterna, di un’automobile». MafiaServizi segreti? E chi lo sa. Nessuno ha incalzato la scorta, per capire come mai Edoardo fosse stato lasciato libero di allontanarsi. Nessuno ha mai chiesto nemmeno all’autogrill sull’autostrada, dice Moncalvo, se per caso, quel maledetto 15 novembre, qualche automobilista di passaggio non avesse intravisto un uomo alto quasi due metri, praticamente zoppo, arrampicarsi sul parapetto. «Di fronte a un sospetto suicidio – ricorda il giornalista – si indaga per induzione al suicidio: qualcuno potrebbe aver spinto il malcapitato alla disperazione, per qualsiasi motivo (di salute, finanziario, sentimentale), magari comunicandogli notizie false. Si tratta ovviamente di un reato gravissimo».
Quella fatidica mattina, risulta che Edoardo Agnelli abbia chiamato al telefono suo padre, per il quale nutriva una sorta di venerazione, restando però in linea solo per dieci secondi. Poi ha chiamato lo zio, Carlo Caracciolo, con cui era sempre stato in ottimi rapporti. Cosa si dissero? Non si sa, precisa Moncalvo: nessuno gliel’ha chiesto. «Normalmente, si interrogano le ultime persone con cui la vittima ha parlato, per appurare se trasparisse un suo eventuale stato di angoscia». Invece, in questo caso, «gli inquirenti non hanno sentito né il padre, né la madre, né lo zio, né la sorella». Alberto Bini, il procuratore di Edoardo, ha detto che quella mattina il figlio dell’Avvocato aveva chiamato il dentista, per disdire un appuntamento: per che motivo? Edoardo«La polizia – aggiunge Moncalvo – non ha sentito nemmeno il centralinista di casa Agnelli, giusto per verificare se ci fosse stata davvero, quella telefonata al padre. Né sono stati sentiti Gabetti e Grande Stevens». Ufficialmente, infatti, Edoardo lavorava all’Ifi, Istituto Finanziario Italiano, e quindi era un dipendente di Gabetti, «che avrebbe potuto dire se c’erano preoccupazioni, se Edoardo si trovava bene, o se magari creava lui stesso problemi».
In compenso, Margherita Agnelli rivela che, quella stessa mattina, Edoardo aveva telefonato a suo marito, Serge De Pahlen. A suo cognato, Edoardo disse: so che sei a Torino, vediamoci più tardi e andiamo a pranzo insieme. «Strano, per uno che sta per suicidarsi». A meno che, appunto, sul viadotto di Fossano non sia mai salito Edoardo Agnelli, ma solo il suo fantasma: un uomo invisibile, capace di guidare senza lasciare impronte. Zoppicante, ma agile come un gatto: lesto ad arrampicarsi – non visto da nessuno – su quel parapetto. Per poi finire 78 metri più in basso, coi mocassini ai piedi e gli occhiali ancora al loro posto. Insiste Moncalvo: restiamo ai fatti, tralasciando i complottismi (fioriti inevitabilmente a causa delle troppe reticenze). «L’unica verità accertata è che Edoardo è morto. Ma parlare ancora di suicidio, dopo 19 anni, mi sembra una vergogna». Curiosità: il tragico viadotto di Fossano è dedicato al generale dei carabinieri Franco Romano, scomparso due anni prima di Edoardo. Cadde in elicottero, «un incidente strano». Dopo una prima tappa in val d’Aosta, sarebbe volato fino al Sestriere per commemorare Giovannino Agnelli. Il generale sfortunato e il figlio dell’Avvocato: destini di morte, in qualche modo collegati a quel viadotto. E un’unica simbologia, la “precipitazione”: la caduta dall’alto, a troncare due vite che contavano molto.

28 dicembre 2019

Electronic Frontier Foundation: Help EFF save .ORG

Electronic Frontier Foundation (EFF)
Hi Supporter of Digital Freedom,
The .ORG domain registry—home to groups around the world working for the public good, many of which hold governments and corporations accountable—is on the verge of being sold off to a newly-formed private equity firm in a $1.1 billion deal.
We at EFF, with hundreds of other major organizations and over 18,000 individuals, have spoken out to oppose the .ORG registry's sale to the firm. Yet this is far from over. Will you donate to EFF this year and help us fight back?
The announcement came right after the registry was granted the authority to make major changes to how .ORG is run without consulting the .ORG community. With the new rules in place, the registry's sale means danger for the millions of individuals and organizations using a .ORG website, subjecting them to real threats of censorship and increased fees. But we won't let this happen quietly.
As a member of EFF, you have funded expert technical evaluation, legal analysis, and vocal advocacy to ensure threats to Internet rights don't go unanswered. And right now, any donation made by December 31 will help EFF receive special grants in our Year End Challenge—every supporter matters.
You can amplify our collective power and send the message that the nonprofit and NGO community is not for sale. Will you lend your support to EFF today?
For digital freedom,
Aaron Jue
EFF Development Director
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GIALLO BERGAMINI / TRASFERITO IL PM A UN PASSO DALLA VERITA’


30 anni dal giallo Bergamini, il calciatore del Cosenza assassinato il 18 novembre del 1989 senza che ancora sia stata fatta verità e giustizia.
Eugenio Facciolla, il pm che stava lavorando da 4 anni sulle nuove, concrete piste investigative, è stato incredibilmente e improvvisamente trasferito dal Csm alla Procura di Potenza.
Ora l’ennesimo appello dei familiari della (allora) giovane vittima.
Sottolinea la sorella di DenisDonata Bergamini. “Devo accettare che il nostro sistema giudiziario prevede tre gradi di giudizio e che anche per i peggiori reati esistono gli sconti di pena. Però chi ha ucciso mio fratello e chi ha mentito, ha beneficiato di trent’anni di impunità mentre la mia famiglia è stata punita nel modo più atroce e disumano. Sono veramente stanca di aspettare, ma nutro fiducia nel procuratore Facciolla”.
L’appello, ripreso dall’Avvenire lo scorso 18 novembre, ha subito ricevuto una risposta dalla giustizia di casa nostra: il Csm, infatti, ha trasferito in un baleno il procuratore scomodo, colui il quale stava tirando le fila della sua strategia investigativa.
Ecco come descrive la vicenda un sito calabrese. “Dopo tre decenni di insabbiamenti, assurdi depistaggi e falsità profuse in serie industriale, la giustizia stava facendo bene il suo corso, grazie al lavoro certosino intrapreso quattro anni fa dal procuratore di Castrovillari Facciolla, il quale aveva accolto la richiesta di riapertura delle indagini sulla morte di Bergamini avanzata dal legale della famiglia del calciatore, l’avvocato Fabio Anselmo”.
Lo stesso, combattivo legale che ha difeso la famiglia Cucchi per l’uccisione di Stefano.
Le indagini di Facciolla, viene precisato, “avevano accertato, una volta per tutte, che il ventisettenne centrocampista del Cosenza non si era affatto suicidato, alla vigilia della gara con il Messina (che mai avrebbe saltato per nulla al mondo), gettandosi sotto un camion che transitava sulla statale 106 in località Roseto Capo Spulico, ma vi era stato gettato dopo che mani ignote l’avevano ucciso”.
E ancora. “Assassini che lo avevano prelevato a forza dal cinema di Cosenza dove era andato a vedere un film assieme ai compagni di squadra (era sabato e quindi in ritiro)”.
Poi: “Questo e molto altro era ormai chiaro al procuratore Facciolla e ai suoi collaboratori che avevano proceduto ad indagare tre persone: due per concorso in omicidio, Raffaele Pisano (il camionista), Isabella Interno, ex fidanzata di Denis, e il poliziotto Luciano Conte (marito della Interno) accusato di favoreggiamento.
Sulla vicenda è stato appena pubblicato un libro, “Oltre l’indizio” scritto dalla giornalista Rita Cavaliere.

Nella foto Denis Bergamini

27 dicembre 2019

A Belfast avevo visto i primi scontri e i primi morti. Mi avevano preparato per il Medio Oriente


Rispetto al Medio Oriente, l’Irlanda del Nord era una destinazione tranquilla. Tragica, settaria, brutale, ipocrita; la piccola guerra civile, per quello che era, era ciò che quelli dell’intelligence militare britannica definivano un conflitto a “bassa intensità.” Noi giornalisti scrivevamo le nostre storie. Poi tornavamo nei nostri alloggi in affitto di Belfast. E vivevamo (o almeno così pensavamo) nel Regno Unito.
Ho assistito alle mie prime, vere battaglie in Falls Road e a Derry e ho corso per tutta Belfast nel Venerdì di Sangue, nel luglio 1972, e ho visto i resti di esseri umani, dopo che 20 bombe dell’IRA erano esplose in tutta la città, in un’ora e mezza. C’erano stati nove morti, cinque civili, la maggior parte di loro alla stazione degli autobus. L’IRA aveva affermato di aver avvisato. La polizia aveva detto di essere oberata di lavoro. Ero furioso quando avevo visto il risultato. Era stato quando avevo capito che la guerra non è una questione di vittoria o di sconfitta, ma di fallimento totale dello spirito umano, da entrambe le parti.
Sì, è a Belfast che ho visto i miei primi cadaveri: un soldato britannico che cadeva dal retro del suo veicolo blindato ad Andersonstown, il suo fucile che rimbalzava sull’asfalto, ucciso da un Provisional dell’IRA con i capelli molto lunghi che si nascondeva dietro una pattumiera; e un paramilitare protestante che giaceva nella bara, circondato da persone in lutto con la camicia bruna, che erano, come si sarebbe poi scoperto, i suoi assassini. Il padre aveva sollevato la mano del figlio morto per farmi vedere che gli avevano spezzato le dita.
Ma nell’Irlanda del Nord (in preparazione per quello che sarebbe poi successo in Medio Oriente, cosa che allora non avrei neanche potuto immaginare) c’era stata soprattutto l’esperienza di confrontarsi con i funzionari governativi e i colonnelli dell’esercito britannico, quando mentivano mentre cercavo di farli parlare. Se riportavo la notizia di soldati britannici che brutalizzavano i Cattolici, mi dicevano che ero “pro-IRA” o “filo-terrorista” (un’accusa quest’ultima a cui mi sarei tristemente abituato in Medio Oriente), mentre quando viaggiavo con le pattuglie dell’esercito britannico o della polizia mi stavo alleando con le “forze della Corona,” o ero malignamente accusato di essere un funzionario dell’intelligence.
E quando avevo scritto un articolo che aveva offeso l’ufficiale in capo delle truppe britanniche nell’Irlanda del Nord, ero stato bandito dai briefing dell’esercito, un boicottaggio che, in seguito, avevo a mia volta imposto all’esercito, quando avevano deciso di perdonare le mie trasgressioni. Rifiutarsi di parlare con i colonnelli era stata la decisione giusta, perché, dopo averla presa,  capitani e maggiori freschi di nomina mi affiancavano nelle strade di Belfast e mi consegnavano buste con istruzioni militari riservate che ritenevano moralmente discutibili.
Quando avevo ricevuto i documenti che indicavano che gli Inglesi intendevano ricattare i politici protestanti che non avevano intenzione di sostenere la loro politica nell’Irlanda del Nord, avevo pubblicato la storia. Due giorni dopo, tre detective si erano presentati a casa mia prima dell’alba per interrogarmi sulle mie fonti. Ero fuggito nella Repubblica Irlandese, mi ero registrato in un hotel di Dublino ed ero stato subito affrontato dal funzionario del MI6 dell’ambasciata britannica. Avevo minacciato di chiamare la polizia irlandese se non avesse smesso di molestarmi. Se n’era andato. All’epoca non era stato così divertente come sembra adesso. Ma era stata una lezione. Avevo poi pubblicato la storia dell’intrusione da parte del funzionario dell’ambasciata.
Mai, mai, non arrendersi mai, come aveva detto una volta Churchill (che non è mai stato un mio eroe, dovrei aggiungere, anche se il suo ritratto era appeso sopra il camino nella biblioteca di mio padre), ma, in questa sfida, l’uomo del 1940 aveva ragione. Non cedere mai all’autorità. Quando hai una grande storia e chi ha veramente il potere vorrebbe calpestarti (qualche volta con l’aiuto dei tuoi stessi colleghi), non scusarti mai. Rimani fedele alla storia. Avrei imparato anni dopo (quando ero a Beirut, in guerre in cui solo la mia esperienza di Belfast mi avrebbe aiutato a sopravvivere) che i documenti ricattatori che erano venuti in mio possesso e che avevo pubblicato erano solo una piccola parte di quello che sarebbe poi diventato lo scandalo di Kincora, una sordida storia in cui era coinvolta l’intelligence britannica, che avrebbe fornito bambini orfani a noti pedofili, per poi ricattarli a livello politico. Una feroce disputa su ciò che è accaduto a Kincora continua ancora oggi, con un’inchiesta governativa già respinta dalle vittime.
Molti di quelli che avevo intervistato a Belfast e a Derry (o Londonderry, come la chiamavamo allora), crudeli rappresentanti dell’UDA, spietati Provisional, uomini delle pubbliche relazioni governative, vecchi soldati, sono già morti. Ma è stato (pensandoci a mente fredda) un importante campo di allenamento per i tradimenti, i massacri e il cinismo del Medio Oriente. Noi giornalisti dobbiamo combattere i Trump così come i dittatori arabi, i lobbisti filo-israeliani e le fazioni mussulmane e, talvolta, certo, tollerare anche la rabbia dei nostri stessi colleghi.
Il passaggio da Belfast [al Medio Oriente] non è stato dalla padella alla brace. E’ stato da una violenza immaginabile ad una crudeltà inimmaginabile su larga scala. Sono grato per quegli anni nell’Irlanda del Nord. Penso che mi abbiano aiutato a sopravvivere in quelli successivi.
Torno ancora a Belfast, per tenere conferenze sul Medio Oriente o per stare con il mio vecchio amico David McKittrick, che era poi diventato il corrispondente dell’Independent a Belfast, e vorrei anche che ci fosse un Buon Venerdì per il Medio Oriente. Ahimè, non ci sarà. Gli accordi di pace non vanno molto lontano. Ma ora a Belfast, quando sono lì, vedo le vecchie inimicizie scongelate e riscaldate dal folle desiderio del Regno Unito di suicidarsi sulla Brexit. E temo che la creatura di Downing Street e i suoi nani di governo faranno a pezzi l’Irlanda del Nord. Io prego di no. Ma, se così fosse, lo vedrò standomene al sicuro in Medio Oriente.
Robert Fisk

26 dicembre 2019

Wall Street Journal: i soldi per i poveri restano in Vaticano

Obolo di San PietroMentre Papa Francesco predica contro i mali della disuguaglianza economica e i peccati del capitalismo, la Chiesa cattolica sottrae all’Obolo di San Pietro oltre 50 milioni di dollari l’anno per tappare i buchi del proprio bilancio ormai fuori controllo. E tutto questo, scrove Tyler Durden su “Zero Hedge”, dopo aver pagato, in diversi decenni, oltre 3 miliardi di dollari di risarcimenti nei processi contro i preti pedofili in tutto il mondo. Secondo il “Wall Street Journal”, la maggior parte dei circa 55 milioni di dollari che la Chiesa riceve ogni anno va a «colmare il buco nel bilancio amministrativo del Vaticano, mentre solo il 10% viene speso per opere di beneficenza». Questa assai poco pubblicizzata indiscrezione su come la Santa Sede spenda l’Obolo di San Pietro, «conosciuta solo da alcuni alti funzionari vaticani», secondo il quotidiano statunitense «sta suscitando tra alcuni leader della Chiesa cattolica il timore che i fedeli si sentano ingannati sull’utilizzo delle loro donazioni, cosa che potrebbe danneggiare ulteriormente la credibilità della gestione finanziaria vaticana di Papa Francesco». Eppure, l’Obolo di San Pietro – che raccoglie fondi ogni anno, a fine giugno – viene definito come una iniziativa per i bisognosi: un «gesto di carità, un modo per sostenere l’attività del Papa e della Chiesa Universale per favorire soprattutto i più poveri e le Chiese in difficoltà». È anche «un invito a conoscere e ad essere vicini alla nuove forme di povertà e fragilità».
Una sezione del sito web, dedicata alle “opere realizzate” descrive l’utilizzo delle sovvenzioni individuali. Esempio: 100.000 euro in aiuti di prima necessità ai sopravvissuti al terremoto del mese scorso in Albania, 150.000 euro per le persone colpite nel mese di marzo dal ciclone Idai nell’Africa sud-orientale. «Lo scopo della raccolta dell’Obolo di San Pietro è quello di fornire al Santo Padre i mezzi finanziari per rispondere a coloro che soffrono a causa di guerre, oppressioni, calamità naturali e malattie», secondo il sito web della Conferenza Episcopale statunitense. Solo che, negli ultimi cinque anni – scrive Durden, in un post tradotto da “Come Don Chisciotte” – solo il 10% del denaro raccolto (oltre 55 milioni di dollari nel 2018) è stato realmente destinato alle varie cause benefiche pubblicizzate per sollecitarne la raccolta. Lo affermano «persone che hanno familiarità con la questione», secondo cui «circa i 2/3 dei fondi vengono utilizzati per contribuire a colmare il deficit di bilancio della Santa Sede, in pratica l’amministrazione centrale della Chiesa Cattolica e la rete diplomatica mondiale della stessa Santa Sede». Per il 2018, si parla di un disavanzo di circa 78 milioni di dollari, su una spesa totale di circa 334 milioni.
La “riallocazione” delle donazioni di beneficenza – aggiunge Durden – arriva nel momento in cui la Santa Sede sta affrontando un deficit di bilancio in forte espansione che, nell’ammonimento del Papa ai cardinali, potrebbe avere un «grave impatto» sul La raccolta per l'Obolofuturo economico della Chiesa. Papa Francesco era stato eletto nel 2013 anche con il mandato di revisionare le finanze vaticane, «dopo le accuse di corruzione, sprechi e incompetenze», secondo il “Wall Street Journal”. La notizia della cattiva gestione finanziaria del Vaticano «non potrebbe arrivare in un momento peggiore», visto che la Chiesa è alle prese «con uno scandalo legato a dubbi investimenti immobiliari londinesi che hanno portato, nel mese di novembre, al licenziamento del suo principale gestore finanziario, René Brülhart». Scoppiato per la prima volta a ottobre, quest’ultimo scandalo è imperniato sui tentativi della Santa Sede di ottenere un prestito di 110 milioni di dollari) per l’acquisto di proprietà di lusso nel quartiere londinese di Chelsea. Per contro, «i regolamenti vaticani consentono al Papa di usare le donazioni come ritiene più opportuno, anche per sostenere la propria amministrazione». Il patrimonio dell’Obolo ammonta attualmente a circa 600 milioni di euro, «in calo rispetto ai circa 700 milioni dell’inizio dell’attuale pontificato», secondo Durden «in gran parte a causa di investimenti sbagliati».