Le verità di Gioacchino Genchi sulla strage di via D'Amelio e il ruolo giocato da Arnaldo La Barbera, l'ex capo del pool investigativo della polizia e poi questore a Palermo. Le ha raccontate davanti alla Commissione Antimafia dell'assemblea regionale siciliana presieduta da Claudio Fava, al lavoro dopo le motivazioni del Borsellino quater, per cercare di far luce su un giallo ancora irrisolto.
Ma chi è Genchi? Un ex poliziotto, per anni diventato il braccio destro di parecchi magistrati di prima linea. Lo fu, in particolare, di Luigi de Magistris, l'attuale sindaco di Napoli e una dozzina d'anni fa impegnato come pm in Calabria, autore delle famose inchieste "Why not " e "Poseidon", che gli vennero "scippate" dall'allora guardasigilli Clemente Mastella (giorni fa è arrivata la sentenza che considera illegittimo quello scippo: ma è ormai troppo tardi…). Genchi svolgeva un ruolo ben preciso: quello di super perito informatico, per passare ai raggi x migliaia e migliaia di intercettazioni telefoniche. I due, Genchi e de Magistris, vennero accusati, allora, di voler spiare mezza Italia.
OCCORREVA "VESTIRE IL PUPO"
Torniamo alla strage di via D'Amelio. Genchi faceva parte del ristrettissimo pool di fidati collaboratori di La Barbera, quel "sinedrio" – come oggi lo definisce – per scoprire killer e mandanti dell'eccidio. Genchi, però, a un certo punto esce dal gruppo. Quando? "Quando La Barbera decise di 'vestire il pupo'", dichiara. E cioè di inventare di sana pianta il killer, di 'impupazzare' un mafioso qualunque di periferia trasformandolo nell'assassino perfetto. Organizzando, in questo modo, "il più grande depistaggio della storia italiana", come ha confermato la sentenza del Borsellino quater.
Genchi racconta di una lunghissima conversazione con La Barbera, dalle 19 del 4 maggio 1993 alle 6 del 5 maggio. Una maratona notturna. "Alla fine La Barbera piangeva", commenta Genchi.
Il quale riporta le parole che La Barbera gli avrebbe detto: "Ormai è fatta, due più due fanno quattro, la strage non può che essere responsabilità di Cosa nostra. Noi qui dobbiamo trovare qualche 'elemento minimale', addebitiamo tutto alla Cupola. Così poi io divento questore, tu vieni promosso per meriti straordinari e poi fra 3 o 4 anni diventi questore pure tu". Semplice come bere un biccher d'acqua.
L'"elemento minimale" – secondo la ricostruzione di Genchi – sarebbe stata una nota del Sisde, che metteva insieme il profilo giudiziario di Vincenzo Scarantino – il pupazzo killer – e ne dettagliava tutti i rapporti familiari e le amicizie all'interno delle cosche. La nota è datata 10 ottobre 1992, e a quanto pare la sua stesura sarebbe stata coordinata da Bruno Contrada. Da rammentare che anche La Barbera non solo era un pezzo grosso della polizia, ma era anche uomo dei Servizi, nome di battaglia "Rutilius".
Eccoci alla dichiarazione finale di Genchi: "Hanno individuato falsi colpevoli non per fare carriera o chiudere le indagini, ma per evitare di incastrare i veri autori della strage di via D'Amelio. I veri mandanti".
Invece, nelle precedenti ricostruzioni, si raccontava della smania di La Barbera di diventare questore (cosa che poi accadde) e di sbattere un mostro in prima pagina, far vedere ai cittadini che il colpevole era stato incastrato.
La Barbera, comunque, a questa montagna di fatti e circostanza non può rispondere, perchè è morto il 19 dicembre 2002. Per cui è facile, ora, scaricare tutto su di lui. E parlare solo di lui.
TUTTE LE DOMANDE NON FATTE
C'è un domandone che nessuno, in commissione antimafia, ha fatto a Genchi: ma La Barbera agiva di testa sua, lui e il suo pool? E' normale che un pur potente vertice della polizia possa prendere inziative da solo, caso mai parlando con un amico del Sisde, e poi provvedere in modo del tutto autonomo?
Fino a prova contraria, si trattava di un'inchiesta, che qualche magistrato doveva pur coordinare. Perchè nessuna domanda a Genchi sul ruolo svolto dai magistrati? Poniamo un'ipotesi: La Barbera ha fatto tutto da solo, di sua precisa iniziativa, per motivi misteriosi. Ma allora, cosa ci stavano a fare i magistrati? A prendere la tintarella a Taormina? Semplici soprammobili?
Ipotesi numero due: i magistrati hanno lavorato in "sinergia", come le prassi indicano, con gli investigatori. A questo punto Scarantino è stato scelto di comune accordo, come del resto fa pensare l'immediata presa di posizione di Ilda Boccassini, che inviò una dettagliata e dura missiva ai magistrati inquirenti, mettendoli in guarda dal dare credibilità e affidabilità a Scarantino come pentito.
Come mai nessuno ha dato retta al parere di una toga che di mafia se ne intendeva e se ne intende, come la Boccassini?
Dicevamo: come mai nessuna domanda sui magistrati, tre in tutto, che hanno partecipato alle indagini? E cioè Anna Maria Palma, Carmine Petralia e Nino Di Matteo. Quest'ultimo tende a defilare la sua presenza, sostenendo che è arrivato a inchiesta già iniziata: sì, sei mesi dopo.
L'unica a chiedere con forza quale preciso ruolo hanno avuto i tre magistrati nel taroccamento del pentito Scarantino è Fiammetta Borsellino, la quale – a proposito di Di Matteo – osserva: "Se era inesperto e alle prime armi perchè lo hanno messo ad indagare su mio padre?".
Ancora. Come mai nessuna domanda all'informatissimo Genchi sul ruolo svolto dall'allora procuratore capo Giovanni Tinebra?
Non è finita. Perchè allo 007 di casa nostra non sono stati chiesti ragguagli circa la storia dell'agenda rossa di Paolo Borsellino, a quanto pare passata di mano in mano, da Giuseppe Ajala a Giovanni Arcangioli, il carabiniere inquisito, processato e scagionato da ogni accusa? E – come racconta la giornalista d'inchiesta Roberta Ruscica, autrice de "I Boss di Stato" – passata anche tra le mani di Anna Maria Palma?
E poi. Come mai Genchi, dopo tanto parlare, non dice qualcosina in più su quei killer o mandanti che La Barbera avrebbe voluto proteggere? Possibile che in quella notte di rimembranze, confidenze & lacrime non gli sia sfuggito qualcosa? E lui stesso, Genchi, una qualche idea se la sarà pur fatta…
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