Nelle cantine di un edificio adibito a deposito armi di al-Qaeda, ad Aleppo-Est, l’anno scorso avevo ritrovato i documenti di accompagnamento di armi che provenivano da una fabbrica di mortai in Bosnia, dove, su ogni pagina, vi era la firma di uno dei loro dirigenti, Ifet Krnjic. [Questi documenti] erano arrivati dai Balcani nel gennaio 2016, insieme ad un carico di 500 mortai da 120 mm. Ed ora, nel cuore boscoso della Bosnia Centrale, ho ritrovato il sig. Krnjic, che [in persona] mi ha riferito che era stata la sua azienda ad inviare le armi all’Arabia Saudita.
Seduti sul prato di casa sua, a sud della cittadina di Novi Travnik, un centro manufatturiero di armi, Krnjic scorre con il dito la prima pagina del documento che gli ho mostrato. “Questa è la mia firma! Si, è la mia!”, esclama ad alta voce. “E’ la garanzia di un mortaio da 120 mm., questo è uno standard NATO. Il carico era andato in Arabia Saudita. Faceva parte di una spedizione di 500 mortai. Ricordo bene quella spedizione per l’Arabia Saudita. [I Sauditi] erano venuti nel nostro stabilimento per controllare le armi, all’inizio del 2016.”
Questo è stupefacente. Non solo Krnjic, il sessantaquattrenne neo-pensionato, responsabile del controllo armi nello stabilimento della BNT-TmiH di Novi Travnik, riconosce la sua firma, ma afferma anche di ricordare la visita dei rappresentanti ufficiali sauditi e del loro personale militare, venuti ad ispezionare i mortai prima del loro imbarco per Riyadh, e sottolinea che queste vendite erano in perfetta regola con i certificati di destinazione finale che la sua azienda richiedeva a tutti gli acquirenti, in cui si precisava che le suddette armi potevano essere utilizzate solo dalle forze armate della nazione acquirente.
Cinquecento mortai sono un carico notevole di armi, la maggior parte degli eserciti europei non ne ha in magazzino un simile quantitativo, e, almeno alcuni di essi, sembra siano finiti nelle mani dei nemici di Bashar al-Assad, il Fronte Islamico al-Nusra e al-Qaida, nel nord della Siria, neanche sei mesi dopo il loro trasferimento dalla Bosnia, distante quasi 2.000 km. Dal momento che i mortai avevano lasciato la Bosnia il 15 gennaio 2016, con una garanzia di 24 mesi rilasciata dalla fabbrica BNT-TmiH (n° 779, numero di serie per le armi da 3677), i documenti attualmente in possesso dell’Independent dovevano essere arrivati ad Aleppo prima della fine di luglio 2016, quando le truppe del governo siriano avevano completamente circondato l’enclave controllata dalle varie fazioni armate, comprendenti al-Nusra, l’Isis ed altri gruppi etichettati come “terroristi” dagli Stati Uniti.
Quando The Independent aveva chiesto alle autorità saudite una spiegazione riguardante la documentazione in suo possesso e sul perchè fosse stata rinvenuta ad Aleppo-Est, l’ambasciata saudita a Londra aveva replicato dicendo che il Regno non aveva mai fornito “assistenza pratica o di altro tipo ad alcuna formazione terrorista [comprese quindi al-Nusra e l’Isis] in Siria o in altre nazioni” e definiva le accuse lanciate dall’Independent come “vaghe ed infondate.” Aveva poi asserito che l’Arabia Saudita manteneva “un ruolo guida nell’ambito della comunità internazionale nella ricerca di una soluzione diplomatica al conflitto siriano, collaborando allo stesso tempo con i paesi confinanti e con gli alleati per contrastare la crescita delle forze estremiste.” Non faceva commenti sui registri, sui certificati di garanzia delle armi e sulle fotografie che l’Independent aveva chiesto loro di esaminare.
In ogni caso, è chiaro che è stato il fanatico credo wahabita dell’Arabia Saudita ad ispirare al-Nusra, l’ISIS e le altre formazioni islamiche violente in Siria. L’Arabia Saudita è stata spesso accusata di armare i ribelli in Siria e gli opuscoli di propanda religiosa di Riyadh sono stati ritrovati nelle città occupate in precedenza dai gruppi islamici. Inoltre, l’Arabia Saudita si è sempre espressa per il rovesciamento di Bashar al-Assad e del suo governo di Damasco.
Nel 2016, durante le ultime fasi dell’assedio di Aleppo, le truppe siriane e russe erano state condannate dall’Occidente per i bombardamenti quotidiani dei quartieri civili di Aleppo-Est e venivano costantemente diffusi video e immagini di morti e feriti, uomini, donne e bambini. Però, nello stesso periodo, i difensori islamisti della città, la maggior parte dei quali avrebbe in seguito lasciato la zona con la promessa di un lasciapassare per la regione di Idlib, controllata dagli Jihadisti, sparavano salve di mortaio nella zona occidentale di Aleppo, tenuta dai governativi.
Nelle settimane seguite alla resa dei ribelli ad Aleppo-Est, a metà dicembre, numerosi chilometri quadrati di macerie erano ancora infestati da mine e trappole esplosive. C’erano interi quartieri transennati, quando, nel febbraio 2017, ero entrato in tre ex caserme dei gruppi islamici, con le macerie che a volte bloccavano il passaggio; pietre, mattoni, pezzi di metallo e schegge di granata in strada e all’interno degli edifici, danneggiati e pericolanti ma ancora in piedi. Dentro uno di questi, seminascosti da frammenti metallici e bende da campo avevo trovato pile di documenti abbandonati, con le istruzioni per l’uso di mitragliatrici e mortai, tutte in inglese.
C’erano anche bolle di carico e libretti di istruzioni di armi provenienti dalla Bosnia e dalla Serbia, con le pagine ancora umide per le piogge invernali, alcuni macchiati da impronte. Ne aveva infilati più che potevo nella tracolla che porto sempre con me in zona di guerra; più tardi avevo trovato, in un altro edificio, una bolla di carico bulgara per proiettili di artiglieria. Nella cantina profonda di un terzo edificio nel quartiere di Ansari, con la scritta Jaish al-Mujaheddin (esercito dei guerrieri sacri) maldipinta, ma ancora chiaramente visibile all’ingresso, con i piani superiori che portavano i segni dei bombardamenti dei jet siriani e russi, c’erano decine di casse vuote di armi anticarro, tutte con il marchio del produttore, la Hughes Aircraft Company, California. Le casse erano etichettate “Guided Missile Surface Attack” [missili guidati per attacchi di superficie] con numeri di serie che partivano da “1410-01-300-0254.”
Questi documenti, molti dei quali in mezzo a fucili rotti e frammenti di schegge, costituiscono la più affascinante traccia cartacea mai scoperta sui produttori delle armi finite nelle mani dei più feroci oppositori islamici di Assad e su come esse siano arrivate ai ribelli in Siria, attraverso nazioni “alleate” dell’Occidente. Mentre, nel suo ufficio, asseriva di dover “cercare” la documentazione riguardante la destinazione finale della spedizione di mortai del 2016, Adis Ikanovic, il direttore generale della fabbrica di Novi Travnik, mi aveva confermato che la maggior parte delle esportazioni della sua azienda erano destinate “probabilmente all’Arabia Saudita.” Una e-mail di sollecito ad Ikanovic, sei giorni dopo il nostro incontro, con la richiesta di poter avere in copia la documentazione sulla destinazione finale della fornitura di mortai, non ha mai avuto risposta.
Milojko Brzakovic, direttore generale della fabbrica di armi Zastava, in Serbia, sfoglia i manuali delle armi che avevo ritrovato ad Aleppo, compreso un documento di 20 pagine con le istruzioni della mitragliatrice pesante Coyote MO2, fabbricata dalla sua azienda, e mi dice “non c’è una sola nazione del Medio Oriente che, negli ultimi 15 anni, non abbia acquistato armi della Zastava.” Concorda sul fatto che le pubblicazioni che gli ho mostrato (compreso il manuale di 52 pagine della sua mitragliatrice media M84 da 7,62 mm., anch’esso rinvenuto fra le rovine di Aleppo, nelle cantine di un palazzo bombardato, contraddistinto dalla scritta in arabo “al-Nusrah” sul muro) erano state stampate in Serbia per conto della Zastava e che l’Arabia Saudita e gli Emirati erano fra i loro clienti.
La descrizione di Ifet Krnjic della spedizione dei mortai da parte della BNT-TmiH in Bosnia è precisa e dettagliata. “Quando i Sauditi erano venuti a fare un sopralluogo nel nostro stabilimento, all’inizio del 2016, c’era un ‘ministro’ saudita…ed erano arrivati anche degli ufficiali sauditi per controllare le armi prima della spedizione. Gli ufficiali erano in abiti civili. Il ministro aveva la tunica. Tutta la nostra produzione dopo la guerra [in Bosnia] è sotto il controllo degli Americani e della NATO, che vanno e vengono in continuazione…sanno esattamente quanti pezzi della nostra produzione escono dalla fabbrica.”
Krnjic, che vive nel piccolo villaggio di Potok Krnjic (i villaggi bosniaci alle volte portano il nome delle famiglie allargate), a sud di Novi Travnik, mi descrive come faceva a riconoscere gli ufficiali della NATO in visita alla fabbrica, uno era un “ufficiale canadese, un tipo di colore di nome Stephen.” Ikanovic, il direttore della BNT-TmiH, mi conferma che tutte le spedizioni, comprese quelle all’Arabia Saudita, erano controllate dall’European Union Force Althea (EUFOR), la missione militare dell’UE che ha sostituito quella dalla NATO (SFOR), in conformità agli accordi di Dayton del 1995, che avevano posto fine alla guerra in Bosnia. Ikanovic mi dice che le ispezioni alla fabbrica vengono condotte da un generale austriaco e, con l’aiuto di alcuni impiegati dello stabilimento, riesco a capire che si tratta del Maggiore Generale austriaco a due stelle Martin Dorfer, il comandante dell’EUFOR. Krnjic afferma che le armi di loro produzione vengono esportate dall’aereoporto di Tuzla o da quello di Sarajevo.
I Sauditi, mi riferisce Krnjic, “non si lamentavano mai, perché è ormai molto tempo che godiamo di buona reputazione, non solo per la qualità delle armi, ma anche perché abbiamo tempi di consegna più rapidi… Lo so che non dovrei dirlo, ma la NATO e l’UE ci avevano dato il via libera per farlo. Il nostro è l’unico mortaio che può sparare dall’asfalto. Ogni mortaio ha un piatto-base, ma gli altri piatti-base [dei mortai di altre nazioni] si rompono, si possono usare solo su terreno soffice. I nostri possono anche essere portati nei sacchi, tre proiettili e un tubo, spari a un edificio e sparisci. Solo i mortai cinesi sono migliori dei nostri, li ho visti in Iraq.”
Si scopre che, anche se Krnjic non è mai stato in Siria, aveva lavorato in una fabbrica di armi che la BNT-TmiH aveva costruito in Iraq nel 1986, durante la guerra degli otto anni fra Iraq ed Iran. “Lavoravo all’interno della fabbrica in Iraq, non facevo di certo la guerra laggiù,” mi dice. “Lo stabilimento era più moderno del nostro [a Novi Travnik], eravamo a Fallujah e a Ramadi. All’epoca costruivamo i lanciamissili da 260 mm. per Saddam, ho visto Saddam tre volte.”
Ma le fortune di Novi Travnik erano andate in declino con l’inizio, nel 1992, della guerra in Bosnia; da una forza lavoro di 10.000 persone si è passati, al giorno d’oggi, a meno di 900. La maggior parte dell’area dello stabilimento è invasa dalla vegetazione, con i macchinari che arrugginiscono nei capannoni. Krnjic, un membro del Partito Socialdemocratico bosniaco e veterano della guerra civile, era andato in pensione alcuni mesi prima della nomina di Ikanovic a direttore generale.
“Non possiamo esportare niente senza un nullaosta approvato, qui in Bosnia, da cinque ministeri differenti e [il contratto] deve essere supervisionato dalla NATO,” mi aveva detto Ikanovic. “Possiamo vendere solo alle nazioni che sono sulla ‘lista bianca’ della NATO.” Come già avevano fatto Krnjic e Brzakovic in Serbia, afferma che la sua azienda deve ottenere, per ogni esportazione di armi, una certificazione di ultimo impiego internazionalmente riconosciuta, ma conviene che gli esportatori non hanno l’obbligo e neanche i mezzi per impedire il trasferimento delle proprie armi a terze parti, dopo il loro arrivo alla destinazione iniziale.
Robert Fisk