15 febbraio 2018

Associazione Antimafie Rita Atria: solidarietà a Nadia Furnari

Il 15 febbraio, Nadia Furnari, come accade ormai da quasi 10 anni, dovrà comparire davanti al tribunale di Messina per la chiamata in giudizio promossa dall'ex Prefetto di Messina, Stefano Scammacca, contro l'Avvocato Repici che, in due lettere rivolte al Presidente del Consiglio dei Ministri nel 2007, denunciava fatti e circostanze che coinvolgevano lo stesso ex prefetto. Lei, in particolare, è stata citata nel procedimento per una richiesta di risarcimento danni, in quanto accusata di essere, attraverso il sito www.ritaatria.it, l'organo divulgatore delle lettere.
Da Presidente dell'Associazione che mi onoro di avere fondato insieme a lei, e della quale lei è il pilastro portante, mi auguro che questa incresciosa accusa venga nuovamente respinta, come già è successo in primo grado, innanzitutto perché la pubblicazione delle lettere costituisce legittimo diritto di cronaca e in secondo luogo perché la denuncia civile e sociale contro ogni forma di illegalità, dovrebbe essere sostenuta e non perseguita.
Il silenzio è connivenza e isolare, puntando sul silenzio dei cittadini, è la vera arma di chi vuole fare i propri affari in barba a qualunque principio di convivenza civile, ed è per questo che tutelare e sostenere persone come Nadia è un dovere morale che ognuno di noi dovrebbe sentire fortemente.
Chiedo, pertanto, a tutti coloro che combattono ogni giorno controcorrente per restituire dignità e legalità a questo Paese, di unire la sua voce alla mia, a quella del Direttivo e a quella di tutti i nostri soci, e a divulgare questo appello, perché sostenere Nadia significa condividere la sua lotta e il suo sacrificio, la sua Resistenza.
Ringraziamo l'Avv. Nino La Rosa che da anni, così come tutti i nostri avvocati, ci segue a titolo completamente gratuito.
Santina Latella

14 febbraio 2018

EMMA BONINO / L’ENDORSEMENT PRO BILDERBERG. PROSSIMO SUMMIT A TORINO ?



Emma Bonino for Bilderberg. L'entusiastico endorsement va in scena all'epilogo di Otto e mezzo, davanti ad una sbigottita Lilli Gruber. "Non è mica il Ku Klux Klan", inneggia la storica leader  radicale. E stando alle news il prossimo super summit potrebbe svolgersi a Torino, ma anche Venezia ha buone chance: comunque sarà in Italia, ossia in un paese europeo, come previsto dall'ultrasessantennale ruolino di marcia che vede alternarsi una città statunitense ed una del vecchio continente quale sede del meeting sempre avvolto da una cortina di segretezza.
Torniamo al salotto di Otto e mezzo. L'ospite Bonino, al termine della rituale intervista, chiede la parola per una piccola appendice e in un paio di minuti tesse le lodi del super club dei potenti della Terra, ingiustamente attaccato – a suo parere – da alcuni media. Ed elenca nomi eccellenti dell'attuale nomenklatura di casa nostra, abituali ospiti dei Bilderberg: tra cui la stessa Gruber che, attonita, non sa quali pesci prendere.

COME DECIDERE GLI SPEZZATINI NEL MONDO 
Lilli Gruber. In apertura Emma Bonino
Lilli Gruber. In apertura Emma Bonino

Tant'è. Bonino è storica portabandiera di un Gruppo oggi certo più pericoloso di un ormai vetusto Ku Klux Klan: perchè i signori di Bilderberg si riuniscono una volta l'anno per decidere se quell'economia – ad esempio greca – va mangiata in un sol boccone oppure è meglio fare, come nel caso Italia, un gustoso spezzatino. Se una moneta va sostenuta oppure attaccata a botte di speculazione finanziaria. Se bisogna puntare i missili sulla Russia o si può ancora aspettare. Se i flussi migratori vanno controllati oppure lasciati al destino e farci business. Se una primavera araba va solo spalleggiata oppure pesantemente finanziata, come è successo nei bellicosi scenari mediorientali.
Tutto questo succede ogni anno, in genere nel mese di giugno, nelle sontuose magioni destinate ad ospitare, dal 1954 ad oggi, i simposi che per primo volle un colonnello che aveva fatto parte dei battaglioni nazisti, passando poi il testimone al numero uno delle economie a stelle e strisce di allora, David Rockfeller e alla sua vasta platea di fans: finanzieri, banchieri, mega imprenditori, politici di mezzo mondo.
E Rockfeller ha lasciato la sua impronta fino ad un anno e mezzo fa, prima di passare a miglior vita. Uno dei suoi ultimi viaggi ebbe come destinazione proprio l'Italia, in particolare Taormina, che aveva intenzione di scegliere come meta proprio per il summit di quest'anno. Soggiornò nella splendida località siciliana, infatti, per due giorni, il 23 e 24 ottobre 2016, in vista di una possibile location.

David Rockefeller
David Rockefeller

Ma la scelta è caduta a parecchi chilometri di distanza. Secondo le ultime indiscrezioni, infatti, l'opzione vincente è quella di Torino. Almeno stando ad una dichiarazione che il premier serbo, Ana Brnabic, si è lasciata sfuggire in un recente incontro con la stampa, dove ha fatto cenno all'invito che le sarebbe arrivato, destinazione Torino.
Di altro avviso un attivista britannico che segue ogni anno, come un autentico segugio, le manovre che portano all'annuale organizzazione del summit, tentando anche dei blitz nel corso dei lavori, regolarmente bloccato dall'ampio dispiegamento di security. Si tratta di Tony Gosling, secondo il quale, invece, la meta sarebbe Venezia. Ha infatti effettuato, Gosling, una meticolosa ricerca per verificare le prenotazioni degli alberghi sia all'ombra della Mole che in laguna durante il periodo in cui si svolgerà il meeting, dal 7 al 10 giugno. Pienone, già adesso, per Venezia, mentre ampi spazi di prenotazione per Torino, il cui nome – secondo Gosling – sarebbe stato speso solo per depistare reporter e attivisti anti Bilderberg.

I MENU' DEI POTENTI 
Ancora top secret, of course, il menù per i grandi tavoli di 'concertazione'. L'anno scorso, in occasione del vertice che si è svolto in Virginia, all'Hotel Marriott di Chatilly, il piatto forte è stata la Brexit, cui hanno poi fatto da abbondante contorno i due nuovi, strategici scenari aperti con l'ascesa al potere di Donald Trump negli Usa e di Emmanuel Macròn in Francia.
Nel 2016, al summit di Dresda, tennero invece banco la questione russa, con i missili europei puntati in direzione Putin, l'affare petrolio e la bomba migranti, tanto per gradire.

Romano Prodi
Romano Prodi

La Voce da anni segue i summit targati Bilderberg, a cominciare proprio dall'ultima convention che si è tenuta in Italia, a giugno 2004, sulle ridenti rive del lago Maggiore, a Stresa. Una cover story, all'epoca, titolata "Avanti miei Prodi", in onore di una delle star allora invitate, Romano Prodi, il padre dell'Ulivo ed ex presidente dell'Iri, che per primo inaugurò la stagione delle svendite dei nostri gioielli di Stato: una strategia battezzata a bordo del Britannia sotto il vigile sguardo di queen Elizabeth e dei potenti della terra.
Questo l'incipit di quell'inchiesta: "I loro rappresentanti siedono al tavolo della Trilateral, la Cupola segreta che regge i destini del pianeta. Sono il gruppo dei Bilderberg, lobby paramassonica internazionale che si riunisce una volta all'anno in un summit super segreto". Nella foto di apertura c'erano i volti di Prodi, di Mario Monti e di Emma Bonino.
Ma ecco, fior tra fiori, alcuni nomi dell'ultimo summit in terra italiana: Giovanni e Umberto Agnelli, Franco Bernabè, Rodolfo De Benedetti, Ferruccio De Bortoli, Mario Draghi, Claudio Martelli, Corrado Passera, Alessandro Profumo, Gianni Riotta, Carlo Rossella, Paolo Scaroni, Giulio Tremonti, Marco Tronchetti Provera, Valter Veltroni, Ignazio Visco.
E anche lei, la battagliera leader radicale pronta a soccorrere gli Ultimi della Terra. Ma anche per correre ai salotti dei Padroni della Terra.

VENT'ANNI SOTTO LE BANDIERE DEI BILDERBERG
La sua prima presenza ai vertici dei Bilderberg risale esattamente a 20 anni fa, quando l'incontro si tenne a Turnberry, in Scozia. Da allora ha mancato pochi appuntamenti. Come non ha mancato di far pervenire messaggi di stima e apprezzamento.
Così come non si è fatta sfuggire, l'intrepida radicale, non pochi incarichi in alcuni organismi di 'solidarietà' internazionale ispirati al Verbo di George Soros, il mega finanziere di origini ungheresi ma ormai americanizzato, vero burattinaio per le sorti economiche di tanti paesi, che può decidere di far cadere ad uno schioccar di dita.
Vediamo allora in rapida carrellata cosa spunta nel pedigree griffato Soros di lady Bonino.
Una perla su tutte. La presenza come "Global Board Member" nella corazzata umanitaria di casa Soros, quella che finanzia non poche Ong a caccia di migranti e di milioni: si tratta della arcimiliardaria Open Society Foundation. E lei, Emma, è l'unica presenza italiana a bordo del board.

George Soros
George Soros

Nel 1999 fece il suo ingresso nel board di un'altra creatura gemmata rigogliosa dal florido ventre di Open Society, l"International Crisis Group', una "organizzazione indipendente – come si autocelebra – che lavora per prevenire guerre e definire politiche che costruiscono un mondo più pacifico".
Ancora. L'Emma internazionale è co-presidente dell"European Council for Foreign Relations', un think tank europeo, tanto per cambiare massicciamente finanziato dalla Open Society. La quale provvede anche a sostenere, con altri organismi, vita e opere dell'Istituto di Affari Internazionali, nel cui comitato direttivo fa capolino la pasionaria radicale adesso gemellata sotto i vessilli di + Europa con l'ex Dc Bruno Tabacci (e tutti e due con il Pd renziano) in vista del voto di marzo.
Oggi alla ribalta, Soros, per le 400 mila sterline investite nelle campagne anti Brexit. L'uomo che vent'anni fa "sbancò la Banca d'Inghilterra", scrive di lui il 9 febbraio il Daily Telegraph: adesso impegnato a finanziare "il complotto segreto per fermare la Brexit".
Alcuni mesi fa l'acrobatico finanziere mangia-economie è stato ricevuto dal nostro premier Paolo Gentiloni, proprio quando sono cominciate le polemiche al calor bianco sugli affari delle Ong a base di migranti. Ma ufficialmente non è stata mai data una spiegazione a quella visita: coperta da totale riservatezza, come succede nei rituali meeting dei Bilderberg.
Eppure Palazzo Chigi non è un salotto privato.

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5 giugno 2015

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13 febbraio 2018

Moby Prince. Troppa «nebbia» nelle indagini: 140 morti ancora senza un perché


Perizie sbrigative, testimoni chiave ignorati, interrogatori frettolosi, prove scomparse nel nulla, documenti mai cercati che sono tornati alla luce per il lavoro della commissione parlamentare d’inchiesta che, di fatto, ha riaperto il caso. Un altro «mistero» d’Italia, come Ustica o il caso Moro.

La storia del Moby Prince ha un posto nella buia galleria dei misteri d’Italia. Come Ustica. Come il caso Moro. Ventisette anni senza sapere perché. Perché centoquaranta morti e nessun colpevole. Bugie, omertà, insabbiamenti, errori. La Giustizia italiana quando vuole nascondere la verità ci riesce benissimo. Perizie sbrigative, testimoni chiave ignorati, interrogatori frettolosi, prove scomparse nel nulla, documenti mai cercati che sono tornati alla luce per il lavoro della commissione parlamentare d’inchiesta che, di fatto, ha riaperto il caso. O quanto meno ha riaperto la coscienza collettiva sul caso.
Mi viene in mente la morte del povero David Rossi, precipitato da una finestra del Monte di Paschi a Siena.  Il prezzo più alto pagato allo scandalo del Monte dei Paschi. Ora si capisce che l’inchiesta senese è stata una collezione di negligenze, probabilmente premeditate, di testimoni ignorati e di prove decisive scomparse nel nulla. Forse la faticosa mobilitazione contro il muro di gomma dell’istituzione, e a sostegno della famiglia, potrà far riaprire ancora una volta le indagini, rapidamente archiviate per nascondere sospetti scomodi che minimamente facessero pensare che non si era trattato di un banale suicidio.
Tutto questo non contribuisce a farci credere nella Giustizia, che dovremmo sentire un’alleata solida, se non infallibile, per la nostra serenità di cittadini. Invece non siamo per niente sereni. Perché siamo assediati dagli interrogativi che, badate bene, non chiamerei dietrologie ma autentici buchi neri, di una storia che non può avere incertezze, soprattutto per il rispetto delle centoquaranta vittime e dei loro familiari.
Entrare nel merito delle ipotesi su quello che è successo la notte del 10 aprile 1991 nel mare di Livorno, significa aprire scenari da film di spionaggio, che tuttavia rischiano di essere molto vicini alla realtà. Molteplici tesi che ripercorrono le inconfessate scie di misteri che ancora oggi avvolgono, in parallelo, il disastro del Dc9 di Ustica.
Quello che indigna di più, però, sono i tempi infinitamente lunghi e soprattutto i depistaggi grossolani, perfino goffi per dare una spiegazione preconfezionata e scontata, dunque non meritevole di essere approfondita. Da subito le autorità hanno cercato di sostenere la presenza della nebbia in quel tratto di mare nel momento dell’impatto fra il traghetto e la petroliera dell’Agip Abruzzo, quando era facilmente verificabile che la nebbia non c’era, elemento che oggi sta diventando addirittura un ingrediente di novità.
Fa sorridere amaro che ora si decida di cercare nelle acque del mare i pochi resti (che cosa può essere rimasto?) per provare quello che si poteva verificare con maggiore chiarezza, nei giorni successivi al disastro: cioè la localizzazione esatta delle due imbarcazioni. Ma forse era proprio quello che non si doveva scoprire, infatti i relitti furono spostati velocemente, come se si volesse confondere alla svelta la scena dell’incidente.
Il motivo? La petroliera non doveva trovarsi lì dov’era e dove la impattò il traghetto.
Che ci sia stato un traffico illegale di greggio dalla petroliera alla bettoline che si trovavano in rada; che i soccorsi siano arrivati in ritardo perché impegnati in una operazione della quale non si doveva sapere, sta di fatto che c’era qualcosa o tante cose da nascondere. Come per Ustica, come per la morte misteriosa di David Rossi, come per il delitto di Moro, come per la scomparsa di Emanuela Orlandi. Come per altri misteri mai chiariti che pesano sulla storia d’Italia. Tragedie inghiottite dalla fretta di archiviare come incidenti, che spariscono dai radar dell’informazione ma che con il tempo e con fatica si rileggono sotto una lente decisamente diversa, più vera e più inquietante.
Per restare a questi giorni e all’ultimo disastro nazionale, quello del treno deragliato a Pioltello la settimana scorsa: che cosa dobbiamo pensare dei quattro operai delle Ferrovie trovati a fare rilievi nell’area messa sotto sequestro? Dobbiamo credere che sia uno sbaglio perché il divieto non era ben segnalato? O dobbiamo insospettirci, visto che già si parla di «rattoppi in legno», non previsti dalla normativa tecnica, utilizzati sul binario che ha provocato il deragliamento? C’è un grande manto che spesso copre gli interessi più grandi ma soffoca il diritto del cittadino di sapere.
Le conclusioni della commissione parlamentare d’inchiesta sul disastro del Moby Prince hanno smentito, di fatto, le sentenze di assoluzione già emesse nei processi di primo grado e d’appello. Che non sono riusciti a individuare colpevoli nemmeno nel comportamento della Capitaneria di porto di Livorno, che per negligenza o per altre ragioni  ignote, non si accorse  della gravità dell’incidente e del fatto che nello scontro con la petroliera, non era coinvolta una bettolina ma una nave passeggeri. Eppure dal porto di Livorno era partito, quella sera, solo il Moby Prince, dunque era evidente che poteva esserci il rischio che proprio il traghetto carico di persone potesse essere al centro dell’incidente.
Ma c’è un altro elemento inquietante che emerge dalle conclusioni della commissione d’inchiesta: cioè che la prima inchiesta sommaria su ciò che era accaduto, venne affidata alla Capitaneria, ossia a un ente direttamente coinvolto. In sostanza l’impianto accusatorio delle indagini e le responsabilità vennero orientate sul personale di guardia del Moby Prince che, a causa della nebbia (che non c’era) non aveva visto la petroliera.
La terribile conclusione che ci resta, ammesso che il disastro non potesse essere evitato, è che quasi certamente i passeggeri potevano essere salvati.
C’è un cumulo di dubbi e ombre che non può giacere negli archivi di un tribunale. E, pensiamo, nemmeno nella coscienza di chi determinò le sentenze di assoluzione collettiva. Ormai gli anni passati non contano, ma ritrovare la verità potrà essere almeno di conforto a chi ha già perso troppo in quel disastro.
Moby Prince. Troppa «nebbia» nelle indagini: 140 morti ancora ...   Toscana Oggi

12 febbraio 2018

Kenya, ucciso con una coltellata il "cacciatore" dei trafficanti d'avorio


Kenya, ucciso con una coltellata il "cacciatore" dei trafficanti d'avorio

Il geografo americano è stato trovato ucciso nella sua casa di Nairobi da una ferita mortale al collo. Il 76enne Esmond Bradley Martin, noto conservazionista, era considerato tra più grandi investigatori al mondo sul commercio illegale d'avorio
BRADLEY MARTIN è stato trovato morto domenica mattina nella sua casa di Nairobi. Una coltellata al collo lo ha ucciso all'istante. Le indagini, per ora in alto mare, ipotizzano una rapina finita male. Lascia perplessi e fa pensare una singolare coincidenza: neanche cinque mesi fa, un altro grande conservazionista, Wayne Lotter, sudafricano e attivo in Tanzania dove viveva da sempre, è stato brutalmente ucciso in strada nella notte, da tre criminali che gli hanno teso un'imboscata davanti casa. Anche qui, le indagini non hanno ancora portato a niente.

Ex inviato speciale Onu per la tutela del rinocerente e geografo di fama mondiale, Mr Bradley era appena tornato a casa in Kenya dopo un viaggio di ricerca in Myanmar. La sua determinazione a scovare i mandanti del traffico di avorio lo aveva convinto che il metodo più efficace per stanarli era lavorare sotto copertura. Lo ha fatto per tutti questi anni mettendo a repentaglio la sua stessa vita, recandosi in casinò cinesi frequentati da gangster e trafficanti e riuscendo a fotografarne incontri, documenti e vendite illegali. Si fingeva un ricco compratore con lo scopo di verificare i prezzi dell'avorio al mercato nero. Un mercato che ha conseguenze devastanti sulla sopravvivenza degli elefanti africani, il cui numero si è ridotto nell'ultimo secolo da cinque milioni a circa 400 mila. I rinoceronti sono invece ormai meno di 30 mila. E si tratta di numeri che continuano a diminuire di anno in anno. Il suo lavoro non si è mai solo concentrato sulla Cina, ma anche su Laos, Vietnam e Myanmar. Ed è proprio da quest'ultimo Paese che il 76enne conservazionista era appena ritornato. Stava lavorando alla stesura del suo rapporto e di quello che aveva scoperto, quando è stato ucciso.

Arrivato in Kenya negli anni '70 con la moglie, Esmond si è raccontato a lungo nel corso di un' intervista dello scorso ottobre al magazine Nomad, il settimanale dell'Africa orientale, pubblicato da una delle più importanti compagnie di safari al mondo, la Nomad appunto, impegnata da sempre nell'ecosostenibilità e nella lotta al bracconaggio.  "Sono arrivato in Kenya per indagare sul commercio illegale a bordo dei dhow (le tipiche imbarcazioni a vela latina). Fu proprio in quel periodo che io e mia moglie abbiamo scoperto che la maggior parte dei corni di rinoceronte dell'East Africa erano diretti in Yemen. In quei tempi si stava compiendo un vero massacro anche di elefanti. Le mie indagini mi hanno portato a comprendere che non era la Cina a utilizzarli per motivi afrodisiaci, ma lo Yemen. Se vuoi capire il mercato, la prima cosa da individuare è capire dov'è il mercato e combatterlo". E a proposito del Myanmar, su cui stava indagando negli ultimi mesi, ebbe a dire: "La Cina usa l'avorio per tazze e gioielleria e lo compra in Vietnam e Myanmar".

"Esmond era un'autorità mondiale sul traffico di avorio e corni di rinoceronte", ha scritto su Twitter Paula Kahumbu, ecologa kenyana esperta di elefanti e Ceo di Wildlife Direct, ricordando che Martin era "in prima linea per portare allo scoperto il traffico di avorio negli Usa, in Congo, Nigeria, Angola, Cina, Hong Kong, Vietnam, Laos e più di recente in Myanmar".


Il conservazionismo ha perso in poco tempo due grandi combattenti, reduci da notevoli successi nel campo del traffico illegale dell'avorio. Bradley Martin era riuscito a contribuire a spingere la Cina a vietare il commercio del corno di rinoceronte neglli anni '90, e le vendite di avorio, il cui bando è entrato in vigore proprio quest'anno con la chiusura dell'ultimo laboratorio e la messa al bando della sua lavorazione. Wayne Lotter invece, con il suo capillare lavoro d'intelligence, aveva messo in ginocchio i mandanti del commercio illegale d'avorio, contribuendo all'arresto di 2000 bracconieri e trafficanti, compresa la "regina dell'avorio", la cinese Yang Feng Glan e a far finalmente risalire il numero degli elefanti presenti in tutto il territorio.

11 febbraio 2018

Io, monsignor Angelini e l'Africa nera


ANSA
Era il 1976, e il Kenya era una specie di proprietà privata del presidente Mzee Jomo Kenyatta e della terza moglie Mama Ngina, una delle "regine dell'avorio". Nei parchi circolavano ancora parecchi cacciatori bianchi col cappellaccio alla Hemigway, che facevano liberamente strage di ogni specie di animali. E il mitico treno Mombasa-Nairobi impiegava un giorno per percorrere 500 chilometri, ma alla stazione venivi accolto col tappeto rosso e un leggìo su cui erano scritti a mano i nomi dei passeggeri, il numero della carrozza e della cabina in cui avrebbero alloggiato in un viaggio che al mattino prevedeva ben tre colazioni: prima, durante e dopo l'alba.
Fu in quell'estate, seguendo la migrazione circolare di milioni di Gnu che si muovevano dal Kenya all'Uganda alla Tanzania, inseguendo l'erba che le grandi piogge facevano crescere davanti ai loro occhi, la stessa estate in cui Idi Amin Dada col cervello bruciato dalla sifilide si divertiva a sparare con la contraerea ai jet di linea della East African Airways dal terrazzo del palazzo presidenziale di Entebbe, che incontrai Fiorenzo Angelini. Allora solo vescovo, ma già eminenza grigia della sanità cattolica con le mani in pasta in cinque ospedali di Roma, quattrocento immobili e ottomila ettari di tenute agricole intorno alla capitale. Il Giulio Andreotti del Vaticano, di cui era amico fraterno.
Lo incontrai a Kisima o Baragoi, non ricordo bene. Comunque, sulla strada (si fa per dire) che conduceva a Loiyangalani, sulle sponde del Lago Rodolfo. Sbucò tra le bouganville di un lodge con una camicia, un paio di bermuda color kaki e una cinepresa in mano. Fate conto Alberto Sordi in Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l'amico misteriosamente scomparso in Africa. Preciso. E dopo essersi presentato, chiese due informazioni: dove convenisse fare un buon cambio al mercato nero e se l'avorio di contrabbando a trentamila lire al chilo fosse un prezzo accettabile. Sembrava uno scherzo.
Nel pomeriggio di quel giorno, incontrai un missionario italiano che viveva lì da dieci anni e lo trovai coi capelli dritti in testa, sconvolto. Mi raccontò che il monsignore gli aveva chiesto di battezzare un bambino nero, così, per fare un filmino ricordo insieme ai suoi amici. Allargando le braccia, il missionario gli aveva detto che non c'erano bambini da battezzare. Ma lui non aveva fratto una piega: Embé? Ne ribattezziamo uno già battezzato, magari ci diventa santo.
Fui invitato alla cerimonia, ma declinai. Volevo raggiungere Loiyangalani prima del tramonto. Anche lì incontrai un missionario. Aveva organizzato una specie di trattoria sotto un capannone dove il piatto forte del menu erano le chicken balls, le polpette di pollo. Ordinai e mi arrivò una scodella di mezze maniche al ragù. Ottime, a quella latitudine. Così lo ringraziai e gli anticipai che forse il giorno dopo avrebbe visto arrivare il monsignore con la truppa dei suoi amici armati di cinepresa. Lui si rabbuiò, indicò l'unico tronco d'albero che si stagliava contro il cielo sopra una decina di capanne di indigeni turkana fatte di fango e sterco e sentenziò: Se si presenta, lo attacco a quell'albero. Il fatto era che dopo una pressante richiesta di vestiti usati da distribuire alla gente del lago, il monsignore gli aveva fatto recapitare due scatoloni di guanti da neve e giacche a vento. Utilissimi, a quaranta gradi all'ombra che non c'era.
Questo ricordo di Fiorenzo Angelini, cardinale di Santa Romana Chiesa. E adesso posso raccontare che il monsignore che ho scritto e Ivo Garrani ha interpretato in Nel continente Nero di Marco Risi era proprio lui. Né più, né meno. Anzi, a quel tempo molto meno del potente cardinale che poi sarebbe apparso ne Il Divo di Paolo Sorrentino, a braccetto con quel Franco Evangelisti passato alla storia per quel "A fra', che te serve?", sintesi suprema dei vizi e inciuci della nostra Prima Repubblica. Ora leggo che papa Bergoglio in persona andrà a benedire la sua salma. E mi sembra giusto. Come ha detto Andrea Agnelli a proposito di Luciano Moggi (op.cit.): "Rappresenta comunque una parte importante della nostra storia. Siamo il Paese del cattolicesimo e del perdono. Lo possiamo anche perdonare". Ma sì, "Un sigaro e una medaglia non si negano a nessuno" (Winston Churchill).
Andrea Purgatori

10 febbraio 2018

Angelini, il Richelieu delle medicine...

ROMA - Era un giorno d' estate di un anno fa, il due luglio. Tramontava mestamente il sole e, nella Chiesa di San Sebastiano fuori le mura, sull' Appia antica, Sua Eminenza il cardinale Fiorenzo Angelini, arcivescovo di Messene, benediceva le nozze sfarzose di Claudia Cirino Pomicino, figlia di o' ministro, con Antonio Tropeano detto Totito. Certo non intuiva, Sua Sanità, che quello che stava celebrando era forse l' ultimo matrimonio "di regime". Il vecchio establishment era al completo: Andreotti in quarta fila con Cristofori, il presidente dell' Iri, Nobili, con moglie, l' ex ministro degli Esteri De Michelis e, sul fondo della chiesa, Gava e De Lorenzo... Scandiva monsignor Angelini le parole dell' atto penitenziale: ... Riconosciamo di essere peccatori e invochiamo con fiducia la misericordia di Dio... Dio onnipotente abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna... E loro, i politici, a sussurrare Signore pietà, Cristo pietà, Signore pietà... Son cambiati, i tempi, da allora. Anche per il cardinale Fiorenzo Angelini, questi son giorni tristi. Sua Eminenza, presidente del Pontificio consiglio della pastorale per gli operatori sanitari, ossia ministro della Sanità della Santa Sede nel mondo, ha confessato ai pochi amici fidati di essere "molto, ma molto amareggiato" per quanto è successo. Duilio Poggiolini, quello del tesoro in lingotti, l' ingrato discepolo filo-democristiano ormai finito nella polvere, l' ha tirato in ballo. Ai giudici ha detto: "Tutti avevano paura di monsignor Angelini, del suo potere immenso... Raccomandava i suoi, segnalava certi imprenditori farmaceutici, pretendeva per loro un trattamento di riguardo, condizionava, dettava legge, lo faceva attraverso i suoi referenti, nella Cuf, la Commissione unica del farmaco, e nel Cip farmaci...". Brutta immagine, ritratto poco lusinghiero, a dar retta a Poggiolini e ad alcuni industriali pentiti ("Facevamo offerte ad Angelini per i suoi congressi, per l' attività del Pontificio consiglio, pagavamo per paura di rimaner tagliati fuori, per paura di ritorsioni...". Tangenti dagli effetti miracolosi per gli accusatori, "oboli, soltanto oboli" per l' indignatissimo portavoce della Santa Sede, Joaquin Navarro Valls. Saranno i giudici a dire l' ultima parola. Ma intanto, di fronte alla volgarità dello scandalo, Sua Eminenza preferisce il silenzio dei forti (Dal Vangelo secondo Matteo: "... Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sopra la roccia...". "Io sono solo un prete, vivo da semplice prete - va ripetendo in queste ore il settantasettenne cardinale ai fedelissimi riuniti negli uffici di via della Conciliazione - ricevo chiunque abbia bisogno, dalla donnetta con la borsa della spesa al professore della clinica universitaria...". Un prete "semplice", appartamento diviso con la sorella, "edilizia popolare", aggiungono gli amici, un prete dal potere immenso. "Soldato" senza gradi nel 1940, vescovo dal ' 56, cardinale dal ' 91, (unico, autentico cardinale romano de' Roma), fondatore dell' Associazione dei Medici Cattolici, punto di riferimento e nume tutelare dei Farmacisti Cattolici, dall' 85 alla guida di un impero immenso, quarantamila istituzioni sanitarie legate alla Chiesa, tremila solo in Italia. Soprannomi conosciuti: uno. Casereccio e lievemente irriverente: "Monsignor due stanze". Con Angelini amico, difficile non trovare posto in una clinica. Un prete "semplice" tifoso della Roma, sotto la talare i calzettoni giallorossi, pupillo dei papi, soprattutto di papa Pacelli, ma anche di Wojtyla. Oggi i giornali parlano delle confessioni pelose di Poggiolini, di maneggi poco sublimi sul prontuario farmaci, ieri riportavano l' aneddotica ufficiale, quasi vicina all' agiografia. Ecco il giovane Angelini che, fra le macerie della guerra, vede arrivare la macchina di Pio XII e la ferma, le braccia aperte, giusto in tempo per dribblare la bomba. Ecco il giovane prete farsi coraggio davanti a Pacelli che vuol distribuire aiuti in denaro direttamente ai sopravvissuti: "Santità, le vere vittime sono sotto le macerie. Qui ci potrebbe essere qualcuno che ne approfitta. E' meglio dare i soldi ai parroci, loro conoscono la povera gente da soccorrere". Ecco Angelini, assistente nazionale degli uomini di Azione Cattolica, guadagnarsi un Longines d' oro, omaggio di De Gasperi, per la sua lotta contro il "pericolo comunista". E ancora, in data più recente, si narra che il cardinale, proprio lui, abbia proibito ai Medici cattolici di fare pubblicità ai farmaci sulla loro rivista "Orizzonte medico"... Carriera fortunata, amici fedelissimi, come Giulio Andreotti, definito anche in tempi difficili "uomo giusto ed esemplare", nemici più recenti come Sbardella e certa parte di Comunione e Liberazione, come lo stesso De Lorenzo, se non proprio nemico, considerato comunque gran rompiscatole laico, geloso del suo orto. Un' attività frenetica. Ogni anno un congresso, e che congressi. Il cardinale chiamava e, per la Conferenza internazionale sulla droga e l' alcolismo, tanto per fare un esempio, ecco che arrivavano i ministri della sanità di 30 paesi, la regina Sofia di Spagna, il segretario generale dell' Onu, il presidente della Bolivia, duemila specialisti della materia di cento Paesi. Intervento del papa, tavola rotonda con 14 ambasciatori presso la Santa Sede... Manifestazioni imponenti, di grande richiamo scientifico, temi scottanti come: "L' Aids; L' umanizzazione della medicina; Longevità e qualità della vita; la mente umana...". Costi imponenti sostenuti con il contributo "volontario" degli estimatori. Macché tangenti, sussurrano i più contigui al cardinale. Sua Eminenza ha schedato tutto. Semmai ce ne sarà bisogno, tirerà fuori le carte. Tre anni fa , nel ' 90, l' Organizzazione mondiale della sanità, gli consegnò un trofeo da trentamila dollari. Come sono stati spesi? Per iniziare la costruzione di un ospedale a Mosca. Tutto scritto. Ad ogni contribuente, una letterina: "La ringraziamo per la sua donazione che è servita per...".
di ALESSANDRA LONGO


09 febbraio 2018

RADAR nato con licenza di uccidere

Sos Marche – La provincia di Macerata, in particolare Potenza Picena, registra un macabro primato italiano: un numero record di tumori, morbo di Crohn, ictus,
cardiopatie ischemiche, suicidi, interruzioni di gravidanza, sterilità maschile, nascita di bambini con patologie congenite, convulsioni senza febbre, sclerosi, cataratte e disturbi psicosomatici.

"Aiutateci a non morire. Siamo assediati da un nemico invisibile e silenzioso: un super radar militare che uccide lentamente con i suoi impulsi a microonde". Mentre l'Aeronautica si trincera dietro il segreto militare, Giovannella Maggini Mazzarella, insegnante in pensione, ha raccolto le prove del disastro. Una vicenda che un membro della New York Academy of Sciences, Gianfranco Valsè Pantellini, ha definito "la strage degli innocenti". I radar militari operano in deroga alle normative di protezione sanitaria ed ambientale, nonostante i rapporti scientifici dell'Istituto Superiore di Sanità che 30 anni fa segnalavano i pericoli. Uno studioso italiano, il dottorFranco Sarto, già nel 1978 aveva documentato danni al Dna, esaminando il caso di numero radaristi militari. Tant'è che il Ministero della Difesa da allora ha inibito al medico di proseguire le sue ricerche cliniche.

Nel 1982 la Circolare 69 del Ministero della Sanità avverte che «quelle dei radar sono le sorgenti elettromagnetiche più pericolose per l'organismo umano». In barba al principio di precauzione, lo Stato non prende alcuna contromisura. «Il numero dei radar attualmente impiegati è elevato ed in continuo aumento» prosegue il documento ministeriale «Non sono disponibili dati precisi, perché segreti, sui radar militari, ma è nota la continua richiesta di sempre nuovi e più sofisticati dispositivi di questo tipo». 

Quella marchigiana è una storia dimenticata per anni sulle scrivanie dei Ministeri della Sanità, dell'Ambiente, della Difesa, del Tesoro e delle Finanze, del Presidente della Repubblica, della Magistratura, dei Carabinieri, dell'Enea, dell'Ispesl, del Parlamento Europeo, della Prefettura, dell'Autorità Sanitaria Locale e perfino di onorevoli e governanti Verdi (Pecoraro Scanio).