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26 marzo 2020

[Reseau Voltaire] Les principaux titres de la semaine 25 mar 2020


Réseau Voltaire
Focus




En bref

 
En Italie, le Covid-19 se répand uniquement dans les régions touchées par le paludisme
 

 
Delfraissy admet que « Le confinement n'est pas la bonne stratégie »
 
Controverses
Fil diplomatique

 
Adresse d'Emmanuel Macron aux Français à propos du COVID-19
 

 
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25 marzo 2020

Rete Voltaire: I principali titoli della settimana 25 mar 2020

Rete Voltaire
Focus




In breve

 
In Italia il COVID-19 si diffonde soltanto nelle regioni colpite da malaria
 

 
Delfraissy ammette che «l'isolamento non è la giusta strategia»
 
Controversie

 
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11 marzo 2020

La Turchia in cerca di potere, di Thierry Meyssan


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Plastico del complesso presidenziale di Ankara, il “palazzo bianco”. La Turchia compensa l’incapacità a darsi una definizione con una forma di delirio di grandezza.

Pur rallegrandosene, la stampa internazionale interpreta il voltafaccia della Turchia – ora nuovamente in contrasto con la Russia – come ulteriore prova del carattere imprevedibile del sultano Erdoğan. Secondo Thierry Meyssan è invece una dimostrazione della perseveranza di Ankara nel ricercare un’identità: non potendo scegliere il proprio destino, si adatta alla nuova situazione.

La Turchia attuale è l’erede delle orde di Gengis Khan, dell’impero ottomano, nonché dello Stato laico di Mustafa Kemal. Ha rifiutato la definizione dei propri confini del Trattato di Sèvres (1920) e ha imposto con la forza le modifiche del Trattato di Losanna (1923), ma ancora oggi si ritiene incompresa e amputata dei territori greci, ciprioti, siriani e iracheni, che non ha mai smesso di rivendicare. Persiste nel negare i crimini del passato, compreso il genocidio dei non-mussulmani.
Ormai da un secolo la Turchia non riesce a definirsi territorialmente; la sua politica estera è perciò una reazione ai rapporti di forza regionali e mondiali, che dà l’impressione, sbagliata, di una volontà erratica.
Il recente voltafaccia nei rapporti con la Russia non è il colpo di testa di un lunatico, ma la prosecuzione di una ricerca identitaria in un contesto instabile.

1 – La sparizione dell’URSS (1991)

Il 26 dicembre 1991, quando l’URSS fu sciolta, per la Turchia – che, imprevidente, non aveva pensato ad affermarsi come membro del campo dei vincitori della guerra fredda – venne meno la ragione della propria esistenza.
Ankara aveva preso in considerazione di modernizzarsi aderendo alla Comunità Europea; gli europei però non avevano intenzione di accoglierla e tiravano per le lunghe i negoziati (Stato associato dal 1963, candidato dal 1987). Una seconda possibilità era mettersi a capo del mondo mussulmano, seguendo le orme dell’impero ottomano; ma i sauditi, che presiedono la Conferenza Islamica, si opponevano. Si offriva una terza possibilità: riannodare i legami con le popolazioni turcofone di cultura mongola dell’Asia centrale, diventate indipendenti.
La Turchia esitò troppo e si lasciò sfuggire questa “finestra di uscita”. Comandando l’operazione Tempesta nel Deserto per liberare il Kuwait e convocando la conferenza di Madrid sulla Palestina (1991), il presidente Bush padre mise in atto un ordine regionale stabile, retto dal triumvirato Arabia Saudita/Egitto/Siria. Per conquistarsi spazio, la Turchia annodò una relazione privilegiata con l’altro orfano del Medio Oriente, Israele, che condivide le sue stesse fantasie irredentiste [1].

2 – L’11 Settembre 2001

Distruggendo i suoi principali nemici – Afghanistan e Iraq – il presidente Bush figlio permise all’Iran di riconquistare un ruolo nella regione. Teheran si mise alla testa di un’“Asse della Resistenza” di alcuni Paesi (Iran, Iraq, Siria, Libano e Palestina) contro gli altri, organizzati attorno ad Arabia Saudita e Israele. Contrariamente alle apparenze e alla lettura semplicistica dell’Occidente, non si trattava di un’opposizione pro o anti-USA, nemmeno di un contrasto fra sciiti e sunniti, bensì di un conflitto regionale fasullo, attizzato dal Pentagono, come l’inutile guerra decennale fra Iraq e Iran. Questa volta però l’obiettivo finale non era indebolire gli uni e gli altri, bensì far distruggere agli stessi abitanti tutte le strutture statali della regione (strategia Rumsfeld/Cebrowski).
Unico Stato della regione ad aver immediatamente capito il gioco, la Turchia scelse di tutelarsi, mantenendo buone relazioni con entrambi i campi e sollecitando uno sviluppo economico invece che esortare alla guerra civile regionale. Prese perciò le distanze da Israele.
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Mappa dello stato-maggiore USA, pubblicata dal colonnello Ralph Peters (2006): contrariamente a ogni previsione, gli Stati Uniti si apprestano a smantellare l’alleato turco creando sul suo territorio un “Kurdistan libero”.
Quando nel 2006 il colonnello Ralph Peters pubblicò la mappa dei progetti dello stato-maggiore USA, fu chiaro che anche la Turchia sarebbe stata distrutta dall’alleato USA, a favore di un “Kurdistan libero” [2], vagamente ispirato al Kurdistan disegnato nel 1920. Una parte degli ufficiali generali turchi rimise in discussione l’allineamento della Turchia a Washington e suggerì di stringere una diversa alleanza. Tastarono il terreno dalle parti di Beijing (Mosca non era ancora tornata a essere una potenza militare). Alcuni fecero il gran passo aprendo un canale di discussione e acquistando qualche arma. Furono arrestati nel 2008, insieme ai responsabili del Partito dei Lavoratori (İşçi Partisi) (kemalo-maoisti), nell’ambito dello scandalo Ergenekon. Quasi tutti gli ufficiali di stato-maggiore furono condannati a pesanti pene detentive, con la falsa accusa di spionaggio a favore degli USA; in seguito la verità venne a galla e tutte le sentenze furono invalidate.
Indispettita, Ankara acconsentì a creare un mercato comune con il vicino siriano, per proteggersi da un eventuale massacro in vista di un “Kurdistan libero”.

3 - Le “Primavere arabe” (2011)

Durante l’operazione delle “Primavere arabe”, con cui gli anglosassoni ambivano a issare al potere i Fratelli Mussulmani nell’intero Medio Oriente Allargato, la Turchia sperò di poter approfittare dell’appartenenza alla Confraternita del presidente Recep Tayyip Erdoğan e mettersi così al riparo dall’annunciato caos. Ankara ridestò quindi la tribù ottomana dei Misurata in Libia e aiutò la NATO a rovesciare il suo alleato Muammar Gheddafi. Entrò poi in guerra con il partner siriano. Furono due avventure che distrussero l’economia turca, fino a quel momento fiorente.
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Mentre si nasconde dai militari incaricati dalla CIA di ucciderlo, il presidente Erdoğan riesce a rivolgersi al popolo turco in televisione, per mezzo di un portatile retto dalla presentatrice. Il 15 luglio, in poche ore, ristabilisce la legalità costituzionale.
Quando la Russia entrò in scena e sconfisse Daesh, la Turchia decise di liberarsi degli Occidentali. Si avvicinò a Mosca, acquistò sistemi missilistici S-400 e la centrale atomica di Akkuyu, a Sochi e Astana s’impegnò per la pace in Siria. La CIA reagì manipolando l’organizzazione di Fetullah Gülen e finanziando l’HPD (Partito delle Minoranze) contro l’AKP (islamista). Fece abbattere un Sukhoï-24, tentò di assassinare il presidente Erdoğan, fallì un colpo di Stato, riuscì a uccidere l’ambasciatore russo Andreï Karlov, e altro ancora.
Stordita, la Turchia replicò con una grande caccia alle streghe: furono imprigionate circa 500 mila persone, sospettate di aver partecipato a un tentativo di assassinio in cui potevano al più essere implicate alcune centinaia di militari.
Ankara decise così di collocarsi a metà strada tra Washington e Mosca, perseguendo la propria indipendenza anche a rischio di essere schiacciata in ogni momento da un accordo tra i due Grandi. La Turchia cercò anche di posizionarsi in modo da sostenere e al tempo stesso intralciare i suoi due padrini: da un lato prese parte alla guerra contro la Siria, dall’altro sostenne l’Iran e installò basi in Qatar, Kuwait e Sudan.
Oltre all’impossibilità di sostenere a lungo una simile posizione, la Turchia si è trovata a inseguire cinque prede contemporaneamente: l’UE, con cui ha firmato un accordo sulle migrazioni; gli arabi, che ora asserisce di voler difendere da Israele; l’Asia Centrale, che tiene al riparo sotto la propria ala; la NATO, che non ha lasciato, e la Russia, che ha tentato di sedurre.

4 – L’assassinio del generale Soleimani (2020)

Il mondo intero ha creduto – a torto – che gli Stati Uniti, esausti, si ritirassero dal Medio Oriente Allargato e lasciassero campo libero alla Russia. In realtà, ritiravano le proprie truppe ma intendevano conservare il controllo della regione attraverso mercenari numerosi e addestrati: gli jihadisti.
Vista la volontà degli Stati Uniti di proseguire nel Nord Africa le distruzioni avviate nella parte asiatica del Medio Oriente Allargato, e considerando che è stato probabilmente il governo iraniano – e non Israele – ad aiutare il Pentagono a uccidere del generale Qassem Soleimani, Ankara ha ancora una volta modificato il proprio piano.
La Turchia è rientrata nell’orbita di Washington: Ankara, che il 13 gennaio a Mosca negoziava la pace in Siria, il 1° febbraio sfida brutalmente la stessa Russia, uccidendo ad Aleppo quattro ufficiali dell’FSB [3].
L’esercito turco, la tribù dei Misurata (Libia), nonché gli jihadisti di Idlib (Siria) – 5 mila dei quali trasferiti dai servizi segreti turchi in un mese e mezzo – hanno cominciato a dissanguare la Libia con la complicità, forse involontaria, del maresciallo Khalifa Haftar; non si fermeranno fino allo sfinimento completo delle parti in campo [4].

05 marzo 2020

Rete Voltaire: I principali titoli della settimana 4 mar 2020


Rete Voltaire
Focus




In breve

 
Pressioni USA per la liberazione di un torturatore libanese-israeliano-statunitense
 

 
Giornalisti russi fermati in Turchia
 

 
La Turchia dà battaglia alla Russia
 

 
Completamente liberata la principale autostrada della Siria
 

 
La Marcia Verde del Marocco fu un'idea di Henry Kissinger
 

 
Israele e Qatar contro l'Iran
 
Controversie

 
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02 marzo 2020

L’interpretazione della Shoah, di Thierry Meyssan


Alla fine della seconda guerra mondiale i nazisti massacrarono gli ebrei d’Europa e gli zingari. L’attuale interpretazione di uno di questi genocidi poggia sul disconoscimento della condizione umana e porta con sé moltissime passioni che, invece di evitarne la reiterazione, al contrario la favoriscono.

n questi giorni si celebra il 75° anniversario della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz, ove morirono oltre un milione di prigionieri. Lo abbiamo elevato a simbolo dei campi di sterminio, dei crimini nazisti e della Shoah.
I negazionisti tentano di riabilitare la Germania nazista contestando che avesse intenzione di sterminare intere popolazioni, di uccidere milioni di persone, e persino che avrebbe gasato i prigionieri. Una polemica abietta, che ha messo in secondo piano la necessità di capire quanto accaduto. Dopo il processo di Adolf Eichmann nel 1962, ha prevalso l’interpretazione offerta all’epoca dall’Agenzia ebraica: con la conferenza di Wansee l’antisemitismo nazista si è concretato in un piamo di annientamento (Shoah) degli ebrei d’Europa, che ha segnato una frattura nella storia. Eterni perseguitati, gli ebrei saranno definitivamente in salvo solo ricongiungendosi nello Stato d’Israele.
Come dimostrerò, quest’interpretazione non prende in considerazione dei fatti correlati.
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In poche settimane, nel 1994, in Ruanda furono massacrate con il machete circa 800 mila persone.

La lunga storia dei genocidi

Nei quattro secoli di colonizzazione del mondo da parte degli europei occidentali, numerosi Stati che si vantavano democratici compirono genocidi senza battere ciglio.
Un esempio: quando il presidente del consiglio del Regno d’Italia, Benito Mussolini, proclamò l’Impero, credette di poter fare dell’Etiopia una colonia per l’insediamento degli italiani. Ma la resistenza popolare fu così forte da costringerlo a ideare un piano di “pulizia etnica” per eliminare gli autoctoni di un’intera regione e sostituirli con gl’italiani. Ordinò al viceré Rodolfo Graziani di disperdere con aerei iprite sui villaggi ribelli.
I massacri di massa non sono però prerogativa degli europei occidentali, né dell’ideologia coloniale. Per esempio, il sultano Abdul Hamid II organizzò il massacro dei non-mussulmani (1894-1896), proseguito poi dai Giovani Turchi (in particolare nel 1915-16), che lo avevano rovesciato. Due regimi diversi che condividevano però una stessa ideologia, il panislamismo: l’identità turca è esclusivamente mussulmana. I più colpiti furono gli armeni, ma furono perseguitate anche tutte le altre confessioni non-mussulmane. I massacri avvennero nell’attuale Turchia, non nei territori conquistati dall’impero ottomano [1].
Questi massacri hanno perciò avuto origine da almeno due motivi distinti: – uno scopo militare: l’eliminazione delle popolazioni che fanno resistenza; – uno scopo ideologico: l’eliminazione di popolazioni considerate aliene.
La politica nazista li ha soddisfatti entrambi, ma lo sterminio degli ebrei europei ha invece ottemperato alla sola finalità ideologica.
I genocidi non sono necessariamente appannaggio dei più forti contro i più deboli, come dimostra il massacro in Ruanda dei tutsi da parte degli hutu. Hutu e tutsi erano popolazioni di pari rilevanza e il massacro è stato compiuto con il machete dalla popolazione hutu, non da miliziani.
Queste carneficine di massa sono “crimini contro l’umanità”. È a questo titolo – e a questo soltanto – che il Tribunale Internazionale di Norimberga ha giudicato il massacro degli ebrei d’Europa. Solo in seguito il concetto di “genocidio” è entrato nel diritto.
Sotto l’influenza di Raphaël Lemkin, il genocidio venne in seguito considerato una particolare forma di crimine contro l’umanità. Sfortunatamente, si è così introdotta una nozione di colpevolezza collettiva, contraria al principio di responsabilità individuale, nonché di ostacolo al fine perseguito. Passo dopo passo, il diritto statunitense ora considera genocidio l’uccisione di almeno due persone per quel che sono, non per ciò che avrebbero fatto.
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Gli Stati Uniti hanno affrontato la questione razziale prima della Germania. Invece di uccidere coloro che ritenevano di razza inferiore ne hanno raccomandato la sterilizzazione obbligatoria.

Perché i nazisti hanno cercato di sterminare gli ebrei?

Il programma dei nazisti era la ricostruzione dell’impero tedesco, di cui il Paese era stato privato con il Trattato di Versailles al termine della prima guerra mondiale. Ma invece di ritagliarselo in Africa, Asia o America Latina, continenti che già si erano spartiti Regno Unito e Francia, pensarono di conquistarlo in Europa Orientale.
I nazisti, eredi di Goethe e Beethoven, si credevano umanisti per natura. Conformemente all’ideologia coloniale occidentale, giustificavano la propria volontà di conquista con l’inferiorità culturale dei popoli che intendevano sottomettere. È quanto spiega Hitler in Mein Kampf, ove non parla mai di “sub-umani” (Untermenschen). Quest’espressione scaturisce dall’opinione scientifica dell’epoca: negli ambienti scientifici occidentali era diffusa la convinzione che le conquiste coloniali provassero l’esistenza di una gerarchia delle razze, alla cui sommità troneggiavano i colonizzatori. Cercavano perciò di definire le caratteristiche delle razze e di separarle [2]. Una nozione oggi invalidata dalla scienza, ma radicata in molti Paesi, anche negli USA, dove le statistiche ufficiali classificano le persone secondo questo concetto fantasioso [3].
Per i nazisti, primi fra i sub-umani erano gli slavi, che divennero perciò il loro prioritario bersaglio. Tuttavia, siccome il cancelliere Hitler giustificava la volontà di conquista di uno spazio vitale (Lebensraum) con la superiorità della razza cui apparteneva (concetto all’epoca largamente condiviso dai popoli d’Occidente, come visto), vi aggiunse anche gli zingari e gli ebrei, popoli nomadi o che comunque non possedevano terre. Naturalmente la condanna degli ebrei in quanto razza traeva alimento dall’antisemitismo europeo, che Hitler sviluppò; non è però in nome dell’antisemitismo che li classificò sub-umani. Del resto, non esisteva una cultura europea anti-zingari, eppure anche gli zingari furono classificati sub-umani.
La nozione stessa di antisemitismo non è strettamente correlata agli ebrei. Infatti i semiti sono arabi, alcuni dei quali di religione ebraica. Peraltro, la maggior parte degli ebrei d’Europa non discende da una popolazione della Palestina, bensì del Caucaso e si è convertita nel X secolo [4].
Alcuni nazisti inizialmente non erano così ostili agli ebrei tedeschi quanto si pensa oggi [5]. – Prima e dopo l’ascesa al potere dei nazisti, Leopold von Mildenstein organizzò viaggi di ufficiali nazisti nel Mandato britannico di Palestina, sotto l’autorità di Joseph Goebbels. Il NSDAP, il partito nazista, riteneva inaccettabile che gli ebrei non avessero uno Stato, quindi sosteneva il nucleo nazionale ebreo in Palestina. – Nel 1933, quando le leggi razziali contro gli ebrei erano già in vigore, il partito nazista negoziò con l’Agenzia Ebraica gli Accordi di Haavara, che autorizzavano gli ebrei a installarsi in Palestina [6]. – In seguito le cose presero una brutta piega. Nel 1938, ossia prima della guerra, il ministro degli esteri francese, Georges Bonnet, propose alla Germania nazista di trasferire gli ebrei francesi e tedeschi nella colonia francese del Madagascar. Nella commissione preparatoria del piano, che non fu mai realizzato, a Germania e Francia si aggiunse la Polonia – come non ha mancato di ricordare il presidente Vladimir Putin [7].
Fu soltanto a fine 1941, una volta esaurite tutte le possibili opzioni e l’invasione dell’Unione Sovietica tramutata in incubo, che i nazisti pensarono alla “soluzione finale”: l’omicidio di massa.
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Rudolf Höss depone al processo di Norimberga

Il caso Rudolf Höss

Come le altre grandi potenze europee, prima della prima guerra mondiale anche la Germania possedeva un impero. Il militare Franz Xaver Höss fu inviato nell’Africa sud-occidentale (l’attuale Namibia). Qui partecipò al primo genocidio del XX secolo: il massacro degli herero e dei nama.
Durante la prima guerra mondiale, il figlio di Franz Xaver Höss, Rudolf, si arruolò molto giovane nell’esercito imperiale. Fu mandato a dar manforte all’impero ottomano. Nelle sue memorie afferma di aver combattuto i britannici in Palestina [8]. Si trovava in realtà nell’attuale Turchia, dove partecipò al massacro dei non-mussulmani perpetrato dai Giovani Turchi. Vent’anni dopo aderì alle SS e nel 1940 divenne direttore del complesso penitenziario di Auschwitz, che all’inizio era un campo di concentramento, simile ai campi britannici della guerra boera (Africa del Sud). A fine 1941 venne aggiunto un campo di sterminio (Auschwitz-Birkenau) e, a metà 1942, un campo di lavori forzati (Auschwitz-Monowitz), in cui il banchiere statunitense Prescott Bush (padre e nonno dei due presidenti) investì con notevole profitto [9].
Rudolf Höss ha sempre affermato di essere un uomo normale. Per quanto scioccante possa sembrare, non vedeva niente di anomalo nell’assassinare armeni ed ebrei, dal momento che il padre aveva assassinato herero e nama.
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Il professore Konrad Lorenz, padre dell’etologia e premio Nobel, era un nazista convinto. Si spese affinché gli omosessuali fossero estirpati dalla società, allo stesso modo di un’ablazione chirurgica.

Lo “sterminio” degli omosessuali

I nazisti, seguendo il pensiero scientifico dell’epoca, cercarono di preservare la “razza” (sic) germanica vietando i matrimoni interrazziali. Non erano poi così originali: la Germania, nonché molti altri Paesi occidentali, lo facevano già dal 1905, dunque anteriormente alla prima guerra mondiale.
Non si trattava però soltanto di prevenire la nascita di meticci, andava anche preservato il patrimonio genetico della razza. L’Istituto Kaiser Guglielmo (equivalente del CNRS francese – Centre National de la recherche scientifique) sosteneva che, nelle relazioni sessuali fra maschi, chi penetra può trasmettere all’altro elementi del proprio patrimonio genetico. Il rischio erano quindi gli “omosessuali passivi”. Per questo motivo i nazisti penalizzarono la pratica di questa forma di sessualità, sebbene fosse stata notoriamente dominante nei primi tempi del partito.
Le persone colte in flagrante delitto erano invitate a farsi castrare o imprigionate come asociali. Molti medici, tra cui Sigmund Freud, emisero molti certificati ove attestavano che l’omosessualità è una malattia, ma che il soggetto stava seguendo una terapia. Così facendo salvarono molti pazienti dall’una o dall’altra atrocità. Oggi alcuni gruppi fanno riferimento a questi certificati compiacenti per sostenere erroneamente che il fondatore della psicoanalisi considerava l’omosessualità una devianza.
Dopo aver assistito ad Amsterdam all’inaugurazione di un monumento agli omosessuali deportati – sarebbero stati oltre 5 mila in tutto il Reich – ho fondato un’associazione per far riconoscere in Francia questo crimine. Ho organizzato diverse cerimonie con associazioni di deportati. In una di queste occasioni ho conosciuto un testimone, Pierre Seel, che ha raccontato con dovizia di particolari di essere stato deportato in quanto omosessuale al campo di Struthof. Ho ottenuto che venissero modificati per decreto i requisiti per il riconoscimento dello status di deportato affinché Seel ne beneficiasse. Nel momento della compilazione del dossier, si accertò che il testimone mentiva e che era stato deportato in quanto abitante disertore dell’Alsazia-Mosella. Ho perciò chiesto a un mio amico, senatore Henri Caivallet, d’indagare in qualità di presidente della Commissione Nazionale per l’Informatica e le Libertà (CNIL). Dopo ricerche durate un anno, il senatore Chaivallet è giunto alla conclusione che negli archivi di polizia non esiste traccia di fatti del genere e che un simile avvenimento non è mai accaduto né in Francia né nell’annessa Alsazia-Mosella. Cionondimeno il racconto di Pierre Seel è diventato popolare e Tolosa gli ha persino dedicato una via.
Questa storia mi ha insegnato molto sulle esagerazioni in cui possono cadere gruppi di uomini pur di cingersi della corona di martire. Si è diffusa la convinzione che il Reich volesse sterminare omosessuali e lesbiche: è assolutamente falso. Non ci fu mai repressione del lesbismo, ma solo dell’omosessualità maschile, e unicamente fra le popolazioni cosiddette “ariane”. Ad Auschwitz sono stati identificati soltanto 48 omosessuali. Deportati in campo di concentramento, i sopravvissuti furono rilasciati nel 1942 per combattere, in quanto “ariani”, la “guerra totale” contro gli Alleati.
È bene anche ricordare che né la questione degli ebrei né tantomeno quella degli zingari e degli omosessuali hanno avuto il benché minino ruolo nello scoppio della guerra mondiale.
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Otto Buchinger, pioniere dell’ecologia.

Regime alimentare

È ancora difficile capire perché i nazisti nutrissero, benché molto male, i prigionieri che volevano uccidere. In realtà nutrivano soltanto quelli di cui contavano sfruttare la forza-lavoro. Per questo utilizzavano la strana zuppa del dottor Otto Buchinger.
Questo grande medico era militante della Lebensreform, del ritorno alla natura. Teorizzò la funzione riparatrice del digiuno. In particolare, scoprì che si poteva lavorare duramente quasi senza mangiare, bevendo soltanto una zuppa molto leggera. Il corpo dimagrisce rapidamente, ma produce una grande energia. I risultati delle sue ricerche sono tutt’ora applicati nelle cliniche della famiglia Buchinger in Germania e Spagna, dove dinastie regnanti del Golfo vanno a curare la pinguedine. I nazisti, ardenti fautori del ritorno alla natura – Adolf Hitler era vegetariano e impediva di fumare – utilizzarono questa zuppa per far lavorare i prigionieri, ben sapendo che alla fine sarebbero morti.
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Il rituale ebreo dell’olocausto.

Soluzione finale, Olocausto e Shoah

L’annientamento degli ebrei d’Europa è chiamata dagli storici “soluzione finale”. Oggi però è nota come Olocausto o come Shoah; due termini che stanno a indicare interpretazioni particolari del fenomeno.
Il termine olocausto è utilizzato dai cristiani evangelici USA. Si riferisce a un sacrificio ebraico in cui un decimo delle bestie viene ucciso e i loro corpi completamente bruciati. Secondo la teologia evangelica, lo sterminio degli ebrei d’Europa sarebbe stato voluto da Dio prima che il Messia tornasse sulla Terra. Non si tratta quindi di un termine molto rispettoso delle vittime. Infatti, quando durante la guerra ufficiali evangelici USA vennero a sapere dei campi di sterminio, sconsigliarono al loro stato-maggiore d’intervenire, per non scombinare quello che ritenevano il “piano di Dio”. I nazisti facevano il possibile per uccidere lontano da occhi indiscreti, quindi sarebbe bastato bombardare i binari per fermare immediatamente, non soltanto lo sterminio degli ebrei, ma anche quello degli zingari.
Shoah è un termine ebreo. Significa “catastrofe” e rinvia al silenzio di Dio durante la tragedia. I palestinesi hanno designato, per analogia, l’espulsione del 1948 con il termine Nakba, ossia “catastrofe” in arabo.
Ne deriva che non sembra affatto certo che il genocidio degli ebrei differisca dagli altri, né che rappresenti una frattura nella Storia e nemmeno che sia frutto unicamente dell’antisemitismo. Ed è ancor meno scontato che lo Stato d’Israele offra agli ebrei la protezione cui hanno legittimamente diritto. Se così fosse, in Israele non ci sarebbero oggi 50 mila sopravvissuti che vivono al di sotto della soglia di povertà.
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Nel 2016 la Russia offre un concerto nel grande teatro di Palmira dove, dopo il genocidio degli yazidi, Daesh assassinò pubblicamente i “nemici di Dio”: la civilizzazione è di ritorno.

Né buoni né cattivi, solo uomini

La “soluzione finale” fu pianificata dai nazisti e parzialmente realizzata dai tedeschi. La stragrande maggioranza del personale dei campi proveniva però dai paesi baltici.
Se si tiene conto di tutti coloro che non hanno fatto nulla per fermare questo crimine, è perlomeno improprio addossarne la responsabilità unicamente alla Germania. La verità è che la mentalità dell’epoca coincideva con quella dei nazisti, benché soltanto questi ultimi ne abbiano tratto le conseguenze.
Si deve giudicare un’ideologia sin dalle sue premesse e ammettere che tutti potremmo metterci su una cattiva strada.
Infatti lo Stato d’Israele è stato creato in nome dell’ideologia sionista britannica [10]. Si voleva creare una colonia che fosse d’appoggio all’estensione dell’Impero. Fu proclamato da Ben Gourion, che non era ebreo nel senso religioso del termine, ma ateo, sebbene al termine della sua vita riscoprì la fede e abbracciò il buddismo. Lo Stato d’Israele concede la nazionalità secondo criteri che non sono correlati alla religione ebraica, sicché ammette persone rifiutate dal rabbinato. Israele vuole espellere le popolazioni autoctone, non vuole sterminarle. A poco a poco rosicchia nuovi territori fino a far sparire quelli degli arabi palestinesi. Tuttavia, siccome parte di questi hanno ottenuto nel 1948 la cittadinanza israeliana e oggi costituiscono un quinto della popolazione del Paese, il primo ministro Benjamin Netanyahu (Likud) ha fatto proclamare Israele “Stato ebraico”. Ha così ufficializzato una cittadinanza gerarchizzata e vincolato lo Stato a una logica di cernita. Nonostante le apparenze, si tratta esattamente della medesima logica che ha indotto il primo ministro laburista Yitzhak Rabin (grande alleato dell’apartheid sudafricano) a immaginare la “soluzione a due Stati”, ossia separare le “razze”.
Siamo ancora in tempo a fare marcia indietro.
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Cerimonia commemorativa del 75° anniversario della liberazione dei prigionieri di Auschwitz.

Il “dovere della memoria”

Gli esseri umani fanno di tutto per dimenticare le sventure di cui sono stati vittime o che hanno provocato. Gli zingari, le cui famiglie furono massacrate insieme a quelle ebree, seguono questa logica e stanno meglio.
È certamente importante celebrare la memoria dei morti per coloro che li hanno conosciuti. Non basta però a evitare nuovi genocidi. Si tratta di una questione che non è in relazione né con l’identità e la condizione delle vittime né con quelle dei boia. È soltanto la condizione umana: nessuno di noi può essere sicuro di non trasformarsi in mostro. La civiltà non è mai definitivamente acquisita.