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30 gennaio 2020

Rete Voltaire: I principali titoli della settimana 29 gen 2020


Rete Voltaire
Focus




In breve

 
Sabotaggi in Siria
 

 
Declassificati documenti sulla propaganda britannica antecedente il 1977
 

 
Fondi europei sottratti da Mogherini, Hariri e Mikati
 

 
I palestinesi sono l'unico popolo non protetto dal Consiglio di Sicurezza
 

 
Libano, varato il governo
 

 
Il Libano sull'orlo d'una crisi di nervi
 

 
Il Giappone sostiene il Myanmar contro le accuse di genocidio
 
Controversie

 
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20 gennaio 2020

Si prepara una nuova guerra di Thierry Meyssan



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Il presidente Fayez Al-Sarraj mette a punto il piano d’intervento turco con il sottosegretario alla Difesa, generale di brigata Salah Al-Namroush.


L’arrivo in Libia di nuove armi e di altri combattenti preannuncia una nuova guerra contro la popolazione. Dopo l’attacco della NATO, compiuto in conformità alla strategia della guerra senza fine di Rumsfeld/Cebrowski; in realtà la situazione non s’è mai acquietata. Compiendo un ulteriore passo i protagonisti, lungi dal risolvere alcunché, estenderanno l’area del conflitto.

Tutti sono d’accordo nel riconoscere che la drammatica situazione della Libia e del Sahel è conseguenza dell’intervento illegale della NATO del 2011. Eppure pochi hanno analizzato questo periodo e si sono sforzati di capire come si è arrivati al conflitto attuale. In assenza di ponderazione, ci avvieremo verso una nuova catastrofe.
È importante tener presente alcuni fatti, che invece ci ostiniamo a non ricordare: – La Jamahiriya libica, istituita con un colpo di Stato eccezionalmente poco cruento, non è stata la presa di potere d’un dittatore nevrotico, ma un atto di liberazione nazionale dall’imperialismo britannico. È stata anche espressione di volontà di modernizzazione, concretizzatasi nell’abolizione della schiavitù, nonché un tentativo di riconciliazione delle popolazioni arabe e nere africane. – La società libica è organizzata in tribù. È perciò impossibile, di fatto, instaurarvi la democrazia. Muammar Gheddafi aveva strutturato la Jamahiriya Araba Libica sul modello delle comunità immaginate dai socialisti utopici francesi del XIX secolo: una vita democratica a livello locale, abbandonando però l’ideale democratico a livello nazionale. Del resto, la Jamahiriya è morta per assenza di una politica di alleanze, dunque per non aver potuto difendersi. – La Coalizione che ha attaccato la Libia era guidata dagli Stati Uniti, che per tutto il conflitto hanno nascosto agli alleati il loro vero obiettivo e li hanno messi di fronte al fatto compiuto (leading from behind). Per mesi hanno proclamato che un intervento della NATO era fuori questione: eppure è stata quest’ultima a comandare le operazioni. Mai Washington ha cercato di proteggere i civili, né d’installare un governo al proprio servizio: ha voluto invece issare rivali al potere e impedire con ogni mezzo la pace (dottrina Rumsfeld/Cebrowski). – Mai c’è stata rivoluzione popolare contro la Jamahiriya, bensì l’entrata in azione di Al Qaeda in loco, il rinnovarsi della frattura tra Cirenaica e Tripolitania, e infine l’intervento coordinato dalla NATO (gli Alleati dal cielo, la tribù dei Misurata e le Forze speciali del Qatar al suolo).
La rivalità tra il governo di Tripoli e quello di Bengasi ha origine dalla divisione del Paese in due Stati, Tripolitania e Cirenaica, antecedente il 1951, nonché dal rinfocolarsi di questa divisione, grazie all’aggressione della NATO. Al contrario di quanto viene spontaneo pensare, per ristabilire la pace non bisogna sostenere un campo perché abbia il sopravvento sull’altro, bensì fare in modo che i due campi si uniscano contro i nemici del Paese.
Al momento il governo di Tripoli è sostenuto da ONU, Turchia e Qatar; quello di Bengasi da Egitto, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Francia e Russia. Coerenti con la propria strategia, gli Stati Uniti sono l’unico Paese a sostenere entrambe le parti, affinché si combattano tra loro per un tempo indefinito.
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Risoluzione della Grande Assemblea Nazionale turca che autorizza il dispiegamento di truppe in Libia.
Il 2 gennaio 2020 la Grande Assemblea Nazionale ha adottato ad Ankara un provvedimento che autorizza l’intervento militare turco. L’atto può essere interpretato in tre modi, che si sommano: – La Turchia appoggia la Confraternita dei Fratelli Mussulmani al potere a Tripoli. Ciò spiega il sostegno al governo di Tripoli anche del Qatar (favorevole alla Confraternita), nonché l’opposizione di Egitto, Emirati e Arabia Saudita. – La Turchia dà corso alle proprie ambizioni regionali appoggiandosi ai discendenti degli antichi soldati ottomani di Misurata. – La Turchia utilizza gli jihadisti che non è più in grado di proteggere a Idlib (Siria). Per questa ragione li sta trasferendo in Tripolitania per poi partire all’assalto di Bengasi.
Sul piano del diritto internazionale l’intervento turco è legale e si fonda sulla richiesta del governo di Tripoli, legalizzato dall’accordo di Skhirat (Marocco) del 17 dicembre 2015, e sulla risoluzione 2259 del 23 dicembre 2015. Ogni altro intervento estero è invece illegale, benché il governo di Tripoli sia formato da Fratelli Mussulmani, Al Qaeda e Daesh. Si assiste perciò a un’inversione dei ruoli: i progressisti si trovano ora nell’Est della Libia, i fanatici nell’Ovest.
Per il momento, schierati con il governo di Tripoli non ci sono che pochi soldati turchi, ma con Bengasi ci sono soldati egiziani, francesi, russi e degli Emirati. L’annuncio dell’invio ufficiale di altri soldati turchi non muterà l’equilibrio, mentre il trasferimento di jihadisti può coinvolgere centinaia di migliaia di combattenti e rovesciare lo scacchiere.
Ricordiamo che, diversamente dalla narrazione occidentale, sono combattenti libici di Al Qaeda – non già disertori siriani – ad aver creato agli inizi della guerra contro la Siria l’Esercito Siriano Libero. È prevedibile che ora si apprestino al viaggio di ritorno.
Per ora solo le milizie siriane turcomanne e la Legione del Levante (Faylaq al-Sham) si sono messe in movimento: circa cinquemila combattenti. Se la migrazione degli jihadisti prosegue attraverso la Tunisia potrebbe durare diversi anni, fino alla liberazione completa del governatorato di Idlib. Sarebbe un’eccellente notizia per la Siria, ma una catastrofe per la Libia, in particolare, e per il Sahel in generale.
Si ripresenterebbe in Libia la stessa situazione della Siria: gli jihadisti sostenuti dalla Turchia e le popolazioni locali sostenute dalla Russia; le due potenze attente a non affrontarsi direttamente, fintantoché la Turchia è membro dell’Alleanza Atlantica.
Installandosi a Tripoli, la Turchia controllerà anche il secondo flusso di migranti, quello verso l’Unione Europea. Potrà perciò rafforzare il ricatto che già esercita su Bruxelles grazie alle migrazioni dalla Turchia.
In assenza di frontiere fisiche, gli eserciti jihadisti sicuramente deborderanno nel deserto, passando dalla Libia all’insieme del Sahel. Renderanno i Paesi del G5-Sahel (Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad) ancora più dipendenti dalle forze antiterroriste francesi e dall’AfriCom. Minacceranno l’Algeria, ma non la Tunisia, già in mano ai Fratelli Mussulmani e gestore del transito di jihadisti a Djerba.
Le popolazioni sunnite del Sahel saranno allora epurate e i cristiani espulsi, come lo furono i cristiani d’Oriente.
Verrà il momento in cui gli eserciti jihadisti attraverseranno il Mediterraneo; le isole italiane (in particolare Lampedusa) e Malta si trovano a 500 miglia nautiche. In virtù dei Trattati dell’Alleanza Atlantica e di Maastricht, la VI flotta USA interverrà immediatamente per respingerli, ma il caos si propagherà inevitabilmente all’Europa Occidentale.
Agli europei che rovesciarono la Jamahiriya Araba Libica non resteranno che gli occhi per piangere.

16 gennaio 2020

Rete Voltaire: I principali titoli della settimana 14 gen 2020


Rete Voltaire
Focus




In breve

 
L'ONU sospende il diritto di voto di sette Stati
 

 
Twitter chiude account ufficiali venezuelani
 

 
In Venezuela Juan Guaidó persevera
 

 
Vladimir Putin a Damasco
 

 
Una fazione iraniana offre 80 milioni di dollari per assassinare Donald Trump
 

 
Juan Guaidó perde la legittimità
 

 
La NATO sospende le attività in Iraq
 

 
La giustificazione USA dell'assassinio del generale Soleimani
 

 
Medio Oriente e Stati Uniti in allerta
 
Controversie

 
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25 dicembre 2019

Bolivia, laboratorio di una nuova strategia di destabilizzazione, di Thierry Meyssan


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La nuova presidente dello Stato Plurinazionale della Bolivia brandisce i Quattro Vangeli e denuncia i “riti satanici” degli indios. Diversamente dai commenti della stampa internazionale, Jeanine Áñez non se la prende con gli indios – peraltro tutti cristiani – in quanto etnia, ma vuole imporre il fanatismo religioso.


La stampa internazionale è cauta nel riferire quanto accade in Bolivia. Descrive il rovesciamento del presidente Evo Morales, parla di un ennesimo colpo di Stato, ma non riesce a inquadrare quel che sta davvero succedendo. Non si accorge del nascere d’una nuova forza politica, finora sconosciuta in America Latina. Secondo Thierry Meyssan, se le autorità religiose del continente non si assumeranno subito le proprie responsabilità, niente riuscirà a impedire il dilagare del caos.

l 14 ottobre 2019, in un’intervista alla televisione Giga Vision, il presidente Evo Morales dichiarò di possedere registrazioni comprovanti la preparazione di un colpo di Stato da parte di esponenti dell’estrema destra e di ex militari, da mettere in atto qualora avesse vinto le elezioni [1].
Quel che poi è accaduto non è un vero e proprio colpo di Stato: è un rovesciamento del presidente costituzionale. Niente induce a credere che il nuovo regime saprà stabilizzare il Paese. Sono i primordi di un periodo di caos.
Le rivolte che si sono susseguite dal 21 ottobre hanno indotto a fuggire, l’uno dopo l’altro, il presidente, il vicepresidente, il presidente del senato, il presidente dell’Assemblea nazionale, nonché il primo vicepresidente del senato. Le sommosse non sono però cessate con l’intronizzazione alla presidenza ad interim, il 12 novembre scorso, della seconda vicepresidente del senato, Jeanine Áñez. Il partito di Áñez ha solo quattro deputati e senatori su 130. In compenso, la nomina di un nuovo governo senza indigeni ha spinto gli indios a scendere in piazza in sostituzione dei sicari che hanno cacciato il governo Morales.
Ovunque si registrano violenze interetniche. La stampa locale riferisce delle umiliazioni pubbliche e degli stupri. E conta i morti.
Se è evidente che la presidente Áñez ha il sostegno dell’esercito, non si sa invece chi abbia cacciato Morales: potrebbe essere una forza locale o una società transnazionale, oppure entrambe. L’annullamento di un mega-contratto per lo sfruttamento delle miniere di litio potrebbe aver spinto un concorrente a investire nel rovesciamento del presidente.
Una cosa soltanto è certa: gli Stati Uniti d’America, che adesso si rallegrano per il corso preso dagli avvenimenti, non li hanno provocati, sebbene cittadini e funzionari USA vi siano probabilmente implicati, come ha affermato il direttore dell’SVR [Servizio d’intelligence internazionale, ndt] russo, Sergueï Narychkine.
La pubblicazione della registrazione di una conversazione tra la ministra degli Esteri della Colombia, Claudia Blum, e l’ambasciatore colombiano a Washington, Francisco Santos, in un caffè della capitale statunitense, non lascia dubbi [2]: in questo momento il segretario di Stato USA Mike Pompeo è contrario a ogni intervento in America Latina; ha già mollato l’autoproclamatosi presidente del Venezuela, Juan Guaidó, facendo precipitare nello sgomento la Colombia anti-Maduro, e rifiuta ogni contatto con i numerosi apprendisti putschisti latino-americani.
Sembra che la nomina di Elliot Abrams come rappresentante speciale USA per il Venezuela non sia stata soltanto il prezzo della chiusura dell’inchiesta russa del procuratore Robert Mueller [3], ma anche un mezzo per farla finita con i neo-conservatori dell’amministrazione. Questo “diplomatico” si è comportato talmente male che in pochi mesi ha distrutto ogni speranza d’intervento imperialista USA in America Latina.
Del resto, il dipartimento di Stato USA è un cumulo di macerie: alti diplomatici hanno testimoniato contro il presidente Trump davanti alla commissione della Camera dei Rappresentanti incaricata dell’impeachment.
Ma chi conduce il gioco se non è l’amministrazione Trump a farlo? Evidentemente ci sono ancora residui importanti delle reti create dalla CIA negli anni dal 1950 al 1970. Dopo quarant’anni sono ancora presenti in numerosi Paesi dell’America Latina e possono agire autonomamente, con pochi appoggi esterni.

Le ombre del passato

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Ante Pavelić, capo della milizia degli ustascia, e il suo protettore, l’arcivescovo cattolico di Zagabria, monsignor Alojzije Stepinac. Il primo è ritenuto uno dei peggiori criminali della seconda guerra mondiale, il secondo viene considerato santo per aver lottato contro il comunismo.
Quando gli Stati Uniti decisero di arginare l’URSS, il primo direttore della CIA, Allen Dulles, e il fratello, il segretario di Stato John Foster Dulles, esfiltrarono miliziani dell’Asse un po’ ovunque nel mondo per combattere i partiti comunisti. Furono riuniti in un’associazione, la Lega Anticomunista Mondiale (WACL) [4], che organizzò in America Latina il “piano Condor” [5] per una cooperazione fra i regimi filo-USA e per assassinare i leader rivoluzionari, ovunque si rifugiassero.
Il generale-presidente boliviano Alfredo Ovando Candia (1965-1970) affidò al nazista Klaus Barbie (il “macellaio di Lione”) la caccia all’argentino Che Guevara. Barbie riuscì a eleminarlo nel 1967, come nel 1943 aveva fatto con il capo della Resistenza francese, Jean Moulin. Durante le dittature del generale Hugo Banzer Suárez (1971-1978) e di Luis Garcia Meza Tejada (1980-81), Klaus Barbie, assistito da Stefano Delle Chiaie (membro di Gladio, che organizzò in Italia il tentativo del colpo di Stato del principe Borghese), ristrutturò la polizia e i servizi segreti boliviani.
Dopo le dimissioni del presidente statunitense Richard Nixon, gli Stati Uniti si dedicarono alla grande operazione di trasparenza con le commissioni Church, Pike e Rockefeller sulle attività segrete della CIA. Il mondo scoprì soltanto le increspature di superficie, che erano comunque troppo. Nel 1977 il presidente Jimmy Carter nominò l’ammiraglio Stansfield Turner a capo della CIA, con l’incarico di ripulirla dai collaboratori dell’Asse e di trasformare i regimi filo-americani da dittature in democrazie. È perciò legittimo chiedersi come abbiano potuto Klaus Barbie e Stefano delle Chiaie supervisionare fino al 1981 il sistema repressivo della Bolivia.
Evidentemente Barbie e Delle Chiaie erano riusciti a organizzare la società boliviana in modo da prescindere dal sostegno di Casa Bianca e CIA. Gli bastava il sostegno discreto di qualche alto funzionario statunitense e il denaro di qualche multinazionale. Allo stesso modo hanno probabilmente agito i putschisti del 2019.
Durante il periodo anticomunista, Barbie favorì l’installazione in Bolivia di croati ustascia che avevano facilitato la sua fuga dall’Europa. Quest’organizzazione terrorista, creata nel 1929, rivendicava in primo luogo un’identità cattolica e aveva il sostegno della Santa Sede nella lotta contro i sovietici. Nel periodo tra le due guerre compì numerosi assassinii politici, fra gli altri quello, in Francia, del re ortodosso Alessandro I di Jugoslavia. Con la seconda guerra mondiale gli ustascia si allearono con fascisti e nazisti, pur conservando la propria specificità. Massacrarono gli ortodossi e arruolarono i mussulmani. In contraddizione con il cristianesimo cui in origine si riferivano, promossero una visione razzista del mondo e non consideravano gli slavi e gli ebrei come esseri umani a pieno titolo [6]. Alla fine della seconda guerra mondiale gli ustascia e il loro capo Ante Pavelić fuggirono dall’Europa e si rifugiarono in Argentina, dove furono accolti dal generale Juan Perón. Alcuni di loro però rifiutarono la sua politica e si staccarono: il gruppuscolo più intransigente emigrò in Bolivia [7].
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Per il neo-ustascia Luis Fernando Camacho, «la Bolivia appartiene a Cristo!»; una verità lapalissiana in una Paese al 98% cristiano. Ma cosa intende esattamente?

Gli ustascia in Bolivia

Quali che siano le ragioni etiche, è sempre difficile rinunciare a uno strumento offensivo. Così non bisogna meravigliarsi che collaboratori cacciati dal presidente Carter dalla CIA collaborarono con il vicepresidente di Ronald Reagan ed ex direttore della CIA, George Bush senior. Alcuni di loro formarono l’Antibolchevik Bloc of Nations [8]; si trattava soprattutto di ucraini [9], baltici [10] e croati. Tutti criminali oggi al potere.
Concerto di un gruppo ustascia a Zagabria nel 2007.
Gli ustascia boliviani hanno mantenuto legami con i fratelli d’armi in Croazia, in particolare durante la guerra del 1991-1995, in cui sostennero il partito cristiano-democratico di Franjo Tudman. In Bolivia hanno creato l’Unione Giovanile Cruceñista, milizia nota per le violenze antirazziali e le uccisioni d’indios aymara. Uno dei vecchi capi, l’avvocato e uomo d’affari Luis Fernando Camacho, è oggi presidente del Comitato Civico pro-Santa Cruz. È lui che apertamente dirige i sicari che hanno cacciato dal Paese l’aymara Evo Morales.
Sembra che anche il nuovo comandante in capo dell’esercito, Iván Patricio Inchausti Rioja, provenga dagli ustascia di Croazia. È lui che guida la repressione contro gli indios, munito della licenza d’uccidere della presidente Jeanine Áñes.
La forza degli ustascia boliviani non è nel numero. Sono solo un gruppuscolo. Eppure sono riusciti a cacciare il presidente Morales. La loro forza sta nell’ideologia: strumentalizzare la religione per giustificare il crimine. In un Paese cristiano nessuno osa opporsi spontaneamente a persone che si richiamano a Cristo.
Tutti i cristiani che hanno letto o sentito la nuova presidente annunciare il ritorno al governo della Bibbia e dei Quattro Vangeli — lei non sembra fare distinzione tra i due testi — e denunciare i «riti satanici degli indios» ne sono stati scioccati. Tutti hanno pensato fosse adepta di una setta. No, è soltanto una fervente cattolica.
Da molti anni mettiamo in guardia contro i partigiani al Pentagono della strategia Rumsfeld/Cebrowski, che vogliono fare nel Bacino dei Caraibi quanto fatto nel Medio Oriente Allargato. Sotto l’aspetto tecnico, il loro piano si è sempre scontrato con l’assenza di una forza latina, comparabile ai Fratelli Mussulmani e ad Al Qaeda. Tutte le macchinazioni partivano dalla tradizionale opposizione dei “capitalisti liberali” ai “socialisti del XXI secolo”. Non è più così. Ora una corrente interna al cattolicesimo predica la violenza in nome di Dio. Essa rende fattibile il caos. I cattolici latini si trovano nella stessa situazione dei sunniti arabi: devono con urgenza condannare questi individui per non essere travolti dalla loro violenza.

21 dicembre 2019

[Reseau Voltaire] Les principaux titres de la semaine ven 20 dic 2019

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Focus




En bref

 
La CIA et les jihadistes ouïghours
 

 
Les visées coloniales de l'Union européenne sur l'Arctique
 
Controverses
Fil diplomatique

 
Déclaration conjointe de la Russie et du Nicaragua
 

 
Jean-Yves Le Drian au Sénat sur le rôle de l'Otan
 

 
Déclaration conjointe de l'Iran, de la Russie et de la Turquie sur la Syrie
 

 
Déclaration finale du Groupe international de soutien au Liban
 

 
Déclaration conjointe de l'Allemagne, de la France, de la Russie et de l'Ukraine
 

 
Huawei : Mythes et réalité
 

 
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20 dicembre 2019

Rete Voltaire: I principali titoli della settimana ven 20 dic 2019

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In breve

 
La CIA e gli jihadisti uiguri
 

 
Le mire coloniali sull'Artico dell'Unione Europea
 
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