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21 novembre 2018

Mirella Gregori - Cronaca di una scomparsa


MIRELLA GREGORI
La cronaca di un ricatto contro una famiglia semplice che ha dovuto subire un macabro rituale disseminato di indizi e sospetti.
Nuovo articolo nel Blog di Emanuela Orlandi:

"MIRELLA GREGORI Cronaca di una scomparsa"




Buona lettura
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20 novembre 2018

Coce Rossa Italiana in rosso. Dove sono finiti i soldi?


Incredibile.  C’è  un’emergenza  umanitaria in corso  e  nessuno  ne  parla.  Una  crisi grande  come  il campo  profughi di  Daadab in Kenia(la  più  grande tendopoli-dormitorio  del mondo) e  nessuno  dice  niente. Ma  proprio  nessuno, da  destra  a  sinistra. Come nessun  giornale,  dalla  Verità, all’Avvenire(noto quotidiano  della  CEI)  a Topolino. Solo  qualche isolata voce fuori dal coro nel  deserto  dell’informazione (i  pochi che ancora osano andare controcorrente).
Ma  non  stiamo  parlando di un genocidio nel  Sud Sudan o   delle migliaia di persone  in  fuga  dalle  guerre che  insanguinano  il  continente  africano.  Nemmeno  dell’emergenza profughi sulle Navi  che  attraccano nei  porti o i  centri  di accoglienza  stracolmi di migranti.  Stiamo parlando della colossale voragine  nei  conti  della Croce  Rossa  Italiana  che versa  in  una  situazione  economica disastrosa che  rischia  seriamente di condannare a  morte  una  delle  più  nobili  istituzioni  assistenziali a livello  mondiale.
La  Prestigiosa  organizzazione italiana che  ha  lottato a tutte le  latitudini per  combattere povertà e fame è  in  croce. Ed è in rosso.  L’organizzazione che è sempre  stata  in  prima fila nei paesi  più poveri per alleviare denutrizione e carestie sta  morendo di stenti. Una  prodigiosa realtà in rapido disfacimento. Oltre 150.000  ‘volontari’ (molti dei quali veri e propri dipendenti mascherati da volontari),  con all’attivo 5000 dipendenti e  3000 unità  in  mobilità  coatta, senza risposte e TFR.
Un’eccellenza  italiana ridotta a colabrodo,  tanto  è vero che piu’ volte negli ultimi trent’anni  e’ stata sottoposta a commissariamento nell’utopica ipotesi  d’un risanamento. Non  sorprende che siano spuntati  fuori qua e  là come  funghi  comitati  spontanei  di  aficionados indignati per la decadenza della nobile istituzione.
Eppure,  non  più  tardi  di  quest’estate,  la Croce Rossa  Italiana  ha  sottoscritto un’intesa  con la Ong maltese MoasMigrant Offshore Aid  Station, scucendo sull’unghia 400.000 euro (al  mese),  sfrattando Emergency dalle operazioni di  salvataggio in  mare. L’organizzazione fondata da Gino Strada ora purtroppo non è più presente nel Mediterraneo per soccorrere i migranti  (cosa  che  faceva egregiamente). Non si capisce  bene se quì la  missione è quella di salvare  vite  umane o fare   fare  a gara  per scialacquare  quattrini.
I soldi a  pioggia comunque di per  sé non possono spiegare il perché di  un dissesto così imponente. Forse neanche gli  stipendi da nababbi della  classe  dirigente della  Croce Rossa Italiana (da 100.000 in su i top managers mentre  migliaia di volontari non prendono il becco  d’un quattrino). Il Presidente, l’Avv. Francesco Rocca s’intasca la  bellezza di 263.995 Euro più 126.525 euro per spesucce varie, totale 390.520 euro.  Circa 32.000  euro al  mese più o  meno (quasi  sotto la soglia  di  sopravvivenza).
Guglielmo Stagno D’Alcontres (ex Presidente  di  CRI Sicilia) percepiva il  più modesto compenso di 260.000 euro all’anno (120.000  euro di indennità da Presidente, 120.000 Euro indennità di Amministratore Delegato  più altri 20.000 Euro come indennità di Consigliere + lauti indennizzi per spese personali con  rimborsi a piè di  lista). Da  reddito  di cittadinanza.
Forse la  spiegazione può arrivare dagli  sprechi pazzeschi, le ruberie, gli  sperperi e le  consulenze d’oro? Non  si sa bene. Come  si  sia arrivati  a questa grave  crisi è   difficile  da  riassumere in  poche  parole ed è comunque la  storia  di  uno  sfacelo  che parte  da  molto  lontano. Per  non andar  tanto  distante  potremo tentare di  risalire agli anni più recenti. Ad  esempio dal 2016 in  poi.
Proprio   da quando  l’INPS (l’Istituto Nazionale della Previdenza  Sociale) è andato  a bussare alla porta della  Croce  Rossa  Italiana reclamando  oltre  90  milioni di  euro tra  TFR  ed  altre  indennità non versate.  €116.647.835,59 per  l’esattezza. Soldi  che,  si  scoprirà  poi, la  Croce  Rossa Italiana   non ha  mai  corrisposto all’ente  previdenziale come  avrebbe dovuto. Cosa  davvero  molto  strana. Perchè il  Trattamento  di  Fine Rapporto  (il  TFR)  è  un tributo  che  dovrebbe esser subito  accantonato in attesa  della fine del  rapporto di  lavoro dipendente.
Comunque, se il Dott. Tito  Boeri  volesse racimolare  un  po’  di  spiccioletti (e  s’accontentasse  di  dollari) potrebbe fare  una  capatina in questo  magazzinetto della  Croce  Rossa  con  un  paio di  TIR   e  molettti al  seguito (purtroppo il contante non è bancalizzato).
Eppure, strano a dirsi,  la  C.R.I., da sempre,   ha  ricevuto  ingenti  contributi  sia dallo  Stato italiano  che  da  privati. Basti pensare che solo  quest’anno  dal Governo centrale  ha in budget d’introitare  74 milioni  di  euro  più  altri  21  milioni  di  euro (senza  calcolare  gli  ingenti proventi di Asl, Ministeri, Comuni, Province,  il 5 x 1000  etc  etc.). Non  abbiamo contato le  donazioni e i  lasciti che  ha accumulato in  150 anni, nonché le  varie agevolazioni e i  comodati  gratuiti. Inoltre tenete  ben  presente che negli anni  passati la  Croce Rossa Italiana  ha regolarmente  percepito per  il  suo funzionamento una media di 150-200 milioni  di euro  l’anno dallo Stato. Mancando  all’appello questi  capitali, sorge  spontanea  la  domanda:  ma che  fine  han  fatto  tutti sti soldi?
Se dovessimo  applicare  il  parametro delle  normali  società  commerciali (con i  bilanci  in  rosso spinto)  la  C.R.I.  dovrebbe portare immediatamente  i  libri in  Tribunale   dichiarando fallimento.  Chiudere  bottega insomma come son  obbligate a  fare migliaia  di aziende che  non  ce  la  fanno  più o le  normali  Associazioni di volontariato che  non  godono di queste  generose provvidenze e devono far quadrare i  conti.
Giusto in  nome della  “Par  condicio  creditorum”.  Invece  che  avviene? Per  la  C.R.I. (che  non è quasi soggetta  alle rigorose  ispezioni e/o controlli  come  tutte  le  imprese  gestite  da  noi poveri  mortali) , si  studia invece una  via  di  fuga  sul  modello  Alitalia. La si privatizza. Da  Ente  Governativo a controllo pubblico diventa  Ente privato, una  sorta  di  Federazione  con tanti  Comitati  Locali autonomi in  ogni  provincia, ognuno  dotato  di  propria  partita  iva, molti dei quali con fatturati da  capogiro.
Vedi gli  appalti milionari per  il numero di emergenza 118, i  Centri  di  Accoglienza, la  gestione  dei  primi soccorsi nelle zone  terremotate e post-calamità naturali, i CIE etc etc. (una  bella  pensata, così il default di  un’ entità non  può coinvolgere tutte le  altre). Tanto per  farvi un  esempio che renda l’idea,  uno  dei CIE più  noti, quello  di  Cara di Mineo  ha  costi base di gestioneche superano  i  16 milioni  di  euro l’anno per un totale  di  quasi 100 milioni di euro  in un triennio (96.907.500 euro per  la precisione).
Curiosità: il bando  di gara di Cara di Mineo del  2014, per  l’aggiudicazione prevedeva  dei requisiti minimi tassativi (pena  l’esclusione) come l’iscrizione  alla  Camera  di  Commercio. La locale  C.R.I. Comitato di Catania non  era  iscritta  alla CCIAA  (come  si  evince dalla  visura camerale si è iscritta solo il 31 ottobre 2017)  eppure  ha  vinto ugualmente la  gara!  Uno dei tanti Misteri. Invece  nel  2018, mentre i 150 disperati erano “sequestrati” sulla nave Diciottiammorbati dalla scabbia, presso la Prefettura di Catania si  perfezionava l’appaltuccio da 41 milioni di euro per il  Centro di Prima accoglienza di CARA di Mineo, dove probabilmente sarebbero andati a finire i palestratissimi naufraghi. Come  diceva il gran visir delle  Coop  Rosse Salvatore  Buzzi  in  un’intercettazione:   “gli immigrati rendono più della droga”. Giusto per  farvi  capire  cos’è  il  Business  dell’accoglienza.
Ma attenzione,  nel  caso  della  Croce Rossa Italiana  si  privatizzeranno solo  gli  attivi.  I debiti  no, quelli se li accollerà poi qualcun’altro (Voi  che  siete  dotati  di  fantasia indovinate chi?) Beh,  che  discorsi,   sarà  ovviamente lo  Stato  a farsi  carico del  problema. Ossia  tutti  noi e voi. Tanto esiste il solito escamotage,  come si  dice  in  gergo legalese  delle “Bad company”  e  delle  “Newco” che ha sempre hanno funzionato con le  privatizzazioni di Stato.  Si portano gli attivi e  gli  assets monetizzabili  in  seno alla “New Company”  e  la  spazzatura, le  sofferenze e le  passività si  tengono in  pancia  alla società decotta.
Tra  l’altro la C.R.I. ha  un grande patrimonio immobiliare, che  potrebbe valorizzare (migliaia tra appartamenti, uffici, locali  commerciali, terreni, garages, magazzini etc  etc),  volendo  potrebbe  tranquillamente scorporare  le attività costituendo  una sua società di “Real Estate”).  Solo  che  i  suoi immobili  non li  ha voluti  manco  l’INPS (neppure  a parziale  conguaglio del  debito). In compenso il  patrimonio abitativo è  stato  apprezzato da un  fortunato acquirente di  Correggio (Reggio Emilia) che  s’è  aggiudicato  un  bell’appartamento della  C.R.I. per la  stratosferica  cifra  di 5.000 euro!!  Diconsi cinquemilaeuro (è  già partita  la  corsa  alla  s-vendita?).
Questo sì  che è business altro  che corsa  all’oro del Klondike. Inoltre tra mezzi  di  soccorso, autobus, automezzi, auto blu ed  ambulanze la  Croce ha oltre 10.000  veicoli in dote; roba da  far concorrenza e  far  impallidire le più grandi aziende  di  trasporti. E non  abbiam ancora parlato delle  macchine speciali (per ogni tipo di emergenza), dei moduli abitativi da utilizzare per il sistema sanitario, interi ospedali da campo, gruppi elettrogeni, sale operatorie e chirurgiche motorizzate, laboratori  mobili, ambienti per la decontaminazione campale, cucine industriali da campo, torrette di illuminazione, idrovore, potabilizzatori, ruspe, motoslitte, Gru, macchine per  il   movimento  terra, SUV e  chi  più ne  ha  più ne  metta.
Questo il  quadro. Un  dato  positivo però  (di questa fallimentare privatizzazione) è che  nelle more  della  procedura è  saltato  fuori  questo  primo grosso “buco nero” di 90 milioni che  manca  all’appello (se  no non  ci  saremo mai  accorti di  niente), facendo emergere  un  ritratto  della C.R.I. ch’era per  certi  versi  sin’oggi inedito.  L’esperienza c’insegna  che  queste  disgrazie poi non viaggiano  mai  da  sole, chissà quali altri ammanchi dovranno ancora venir fuori.
Non  stiamo  parlando d’un  deficit  fisiologico,  ma  di  una  vera e propria voragine debitoria.  E si  badi  ben,  che lo  scenario  è  ben  peggiore  di  quello  quì  delineato (non è  giusto “sparare  sulla  Croce  Rossa”). Perchè  se  dovessimo  scendere  nei  dettagli  dovremmo parlare  anche  di  Mafia Capitale, (ennesima prova di come politica e malavita vanno a braccetto alla luce del “sole”), dell’ex Sindaco di Roma  Gianni Allemanno, dell’inchiesta “Mondo di Mezzo”, diAngelo  Scozzafava, del sig.  Paolo Pizzonia (ex terrorista  dei  NAR  Nuclei Armati Rivoluzionari  nonché segretario particolare e  braccio  destro del Presidente CRI Avv. Francesco Rocca), dovremmo parlare del patrimonio immobiliare sommerso della  CRI (mai dichiarato fiscalmente), delle  compravendite immobiliari fantasma e  tante porcherie che  non  abbiam  il  tempo  (e sinceramente  neanche la  voglia)  di  elencare.
Dovremmo scendere anche  in una rispettosa e  garbata  polemica con il  Presidente di C.R.I. Avv. Francesco Rocca per i  suoi  conflitti d’interesse (gestisce l’immenso patrimonio  immobiliare della  C.R.I. e contemporaneamente è proprietario della società immobiliare   Ciak Servizi … “capisci ammè”…), nonché  accennare a qualche suo vecchio precedente penale (una passata condanna a 3 anni di reclusione per detenzione  spaccio di  eroinain conbutta con  una  banda di  nigeriani).
Un “EX” trafficante  di droga (sottolineo  “ex” a  scanso  di  querele) alla  guida  della  Croce  Rossa Italiana   non  è certo un  bel biglietto  da  visita, anche se è pentito degli errori  commessi nel passato e ha  cambiato vita  (chapeau). Beninteso lo  dico davvero senza  intento polemico e/o denigratorio   alcuno. Chi  scrive  ha  un  vastissimo  “background  criminale” io però non sono  stato chiamato a dirigere l’UNICEF.
Ma l‘ Avv. Francesco Rocca avrà certamente  tutti  i  requisiti di onorabilità, professionalità  ed  indipendenza  richiesti agli  Amministratori di società (v. art. 2387  del  Codice Civile e  cause  di  ineleggibilità) sennò, oltre  a  Presidente della  Croce Rossa Italiana, non sarebbe  stato   promosso a Presidente  della Federazione Internazionale delle Società della Croce Rossa(il  più grande network globale umanitario del  mondo) e della  MezzalunaRossa.
Mi rendo conto che il tema delle modalità  con  cui andrebbero  scelte le  figure  che ricoprono  determinate  cariche di  vertice è molto complesso e  non  si può esaurire in  poche  righe. Possiamo però  avere dei  termini di  paragone se  guardiamo analoghi  soggetti  che  operano  nel sociale. Ad  es. in  Save  The  Children c’è un validissimo avvocato come  Presidente,  l’Avv. Claudio TesauroCuriculum chilometrico  e un  background con  i  controfiocchi, (partner  come avvocato   d’affari nel  prestigioso  studio  legale  Bonelli-Erede-Pappalardo), fedina  penale immacolata,  neanche  una multa per  eccesso  di velocità. Mentre dirige un’altra  benemerita ong (Medici  Senza Frontiere)  la dott.ssa Claudia Lodesani, valente medico  infettivologo, incensurata.
Tornando  ai  conti  della Croce Rossa  Italiana, il  merito di  questo stato di cose  và a  chi  ha  sponsorizzato questa  geniale privatizzazione (che  stando  al  Tar del Lazio  sarebbe  pure incostituzionale), dando avvio a questa de-statalizzazione priva di logica del buon senso (e forse dell’onesta buona fede), che doveva prevedere anzitutto che prima di una qualunque riforma si conoscesse esattamente la situazione economico/patrimoniale, focalizzando obiettivi e strategie da mettere in atto per il loro raggiungimento (per inquadrare bene la situazione patrimoniale sarebbe bastata  una  banale “Due Diligence” contabile che  nessuno ha  mai pensato di fare).
Come pure merito dei  vari decreti legge ad personam, i decreti  “salva Croce Rossa”, il “Decreto Milleproroghe” etc etc. Il merito è tutto  dei  Governi  che  vanno da  Berlusconi  in  poi (ma  anche  prima). In  primis  il Governo Monti, a seguire il Governo Renzi e  dulcis in  fundo il  Governo  Gentiloni (casualmente noto una  preponderante area di  sinistra), che  hanno sostituito il  vecchio “carrozzone” della  C.R.I. con  una  carretta  sgangherata  che perde pezzi di  giorno in  giorno. Un carrozzone decrepito che  è  il perfetto specchio della  politica che l’ha  sostenuto. L’ennesimo caso di come anche stavolta  la cura si è  rivelata molto peggiore del male.  Per un pelo è quasi  caduto nel  tranello anche  il  nuovo governo  pentaleghista.  Ricordate l‘articolo  fantasma “pro Croce  Rossa” del Decreto  Fisco all’insaputa  di  tutti? (altri 84  milioni di  euro ch’erano pronti  a volatilizzarsi per continuare a foraggiare la gestione liquidatoria del  “carrozzone”).
Domanda  dell’uomo  della strada che  forse  potrebbe  condividere  anche Gino Strada: visto  che  stiamo parlando  di una montagna di  soldi  pubblici (ed  ora finalmente  c’è  il  “nuovo  che  avanza”), una bella  Commissione  d’inchiesta la  mettiamo su?
So già  la  risposta.

16 novembre 2018

DOCUMENTO / TUTTI I DANNI DEL GLIFOSATO MADE MONSANTO – BAYER


Pubblichiamo un interessante intervento dell'avvocato Valentina Scaramuzzo, specializzata nelle controversie legali in tema di salute e ambiente.

Quella del 10 agosto 2018 sarà ricordata nel mondo dell'agrochimica, e non solo, come una data storica. Un primo passo verso il riconoscimento di tutte le battaglie che da anni portano avanti i sostenitori della nocività dei pesticidi.
Da quel verdetto, emesso da una giuria di San Francisco, tutto il mondo ha gli occhi puntati su Dewayne Johnson, l'uomo che per oltre trenta anni ha lavorato come giardiniere in varie scuole pubbliche della California e si è ammalato di cancro al sistema linfatico.
Il tribunale di San Francisco lo scorso agosto ha infatti stabilito che la causa della malattia fu l'uso dell'erbicida "Roundup", un prodotto a base di glifosato, prodotto dalla Monsanto ('fresca' di fusione con Bayer, l'altro colosso mondiale della chimica di sintesi), riconosciuta colpevole per non aver informato i consumatori dei rischi alla salute, connessi all'utilizzo del proprio prodotto.
La giuria popolare del processo aveva condannato la Monsanto a pagare a Johnson 250  milioni di dollari, a titolo di danni punitivi (che normalmente vengono comminati alle imprese che  "agiscono incautamente"), oltre ai 39 milioni di dollari come risarcimento danni.
Sono trascorsi solo due mesi ed arriva un secondo verdetto.
Il giudice Suzanne Bolanos respinge la richiesta di Monsanto di rifare il processo per insufficienza di prove, ma riduce da 289 milioni di dollari a 78 milioni di dollari il risarcimento,  tagliando drasticamente i danni punitivi da 250 milioni a 39 milioni di dollari.
Se Johnson accetterà la somma, cosi determinata, entro il 7 dicembre, non ci sarà più alcun altro processo, in caso contrario ci sarà un nuovo processo.
Intanto, i legali della Monsanto insistono nel voler ricorrere in appello.
Il caso Dewayne Johnson contro Monsanto è la prima denuncia, di fronte ad un tribunale, in cui si sostiene il legame tra il glifosato e cancro.
Gli avvocati Robert Kennedy jr e Michael L.Baum, difensori di Johnson, il 5 settembre, intervenuti in un udienza pubblica al Parlamento Europeo, hanno riferito: "Il giudice non ci ha permesso di mostrare l'80% dei documenti che abbiamo, che mostrano come la Monsanto ha manipolato la scienza, ha aiutato a scrivere studi sotto falso nome e ha soppresso i risultati cancerogeni  di Roundup e glifosato". 

MONSANTO PAPERS
Michael L.Baum ha spiegato inoltre che la raccolta di documenti fa parte dei cosiddetti "Monsanto Papers", ottenuti attraverso la procedura di 'scoperta', cioè una procedura civile pre-processuale statunitense, che permette alle parti di ottenere prove l'una dall'altra.
Ha descritto in dettaglio quella che considera la 'strategia' targata Monsanto: manipolare la scienza e sopprimere i risultati sulla cancerogenicità, utilizzando i documenti divulgati come prove. Testimonianze e prove, presentate al processo dai legali del Johnson, hanno dimostrato che i segnali di allarme, osservati nella ricerca scientifica, risalgono ai primi anni '80 e sono aumentati solo nel corso dei decenni. Ma con ogni nuovo studio che mostrava danni, la Monsanto ha lavorato non solo per non avvertire gli utenti, ma per creare la "propria scienza", per dimostrare che erano al sicuro.
L'azienda, spesso, ha spinto la sua versione della scienza, nel regno pubblico, attraverso il lavoro di ghostwritten, progettato per apparire indipendente e, quindi più credibile. L'autore fantasma, il ghostwriting, è una grave forma di inquinamento scientifico, una strategia di riciclaggio dei messaggi di cui si serve certa industria, specie nel settore farmaceutico, chimico ed agrochimico. Ecco cosa accade: l'industria scrive un articolo scientifico, se lo fa firmare da scienziati noti e questi prestanome vengono profumatamente retribuiti. Segue poi la diffusione dell'articolo su riviste scientifiche, e/o sui mezzi di informazione di massa, in barba al conflitto d'interessi, all'etica professionale ecc.. ecc…
Dai Monsanto Papers è emerso che molti scienzati, impegnati a dimostrare la non tossicità del glifosato e contrari all'agricoltura biologica, sono risultati legati da contratti più o meno fantasma con la mutinazionale.
Nella lista dei "prestanome" anche i vertici all'EFSA, l'Autorità Europea per la sicurezza alimentare (oggi tutti rimossi), responsabili di aver prodotto pareri scientifici non derivanti da sperimentazioni autonome, bensì da dati copiati dai documenti forniti dalla Monsanto, ricerche nelle quali risultava che il glifosato fosse una sostanza non pericolosa per la salute umana, smentendo di fatto quello che da anni ha sempre sostenuto lo IARC (Associazione Internazionale per la ricerca sul cancro), organo che fa capo alla stessa Organizzazione Mondiale per la Salute (OMS), la quale ha definito senza mezzi termini il Roundup genotossico, cancerogeno per gli animali, "probabilmebnte cancerogeno" per l'uomo.

E L'EUROPA COSA FA ?
Gioca continuamente al rinvio, esprime parere negativo al rinnovo della licenza di questo pesticida, ma solo a partire dal 2022, invece di applicare da subito il principio di "Precauzione". Sino a tale data, si salvi chi può!
La decisione della UE era stata presa il 27 novembre 2017, al culmine di una tortuosa trattativa politica. Alla fine, 18 paesi si erano espressi a favore del via libera all'uso della sostanza per altri cinque anni. Decisivo, a far pendere il piatto della bilancia, era stato il sì della Germania (guarda caso, sede della multinazionale Bayer), che aveva vinto l'ostilità di altri paesi (ad esempio Italia e Francia) che avrebbero preferito un vincolo più stretto. Il voto dei governi aveva peraltro sconfessato quello dell'Europarlamento, contrario a una proroga per il glifosato.
Dal canto suo, il Parlamento Europeo ha istituito una commissione speciale incaricata di esaminare la procedura di autorizzazione della Ue per i pesticidi, in risposta alle preoccupazioni sul sistema di valutazione dei rischi che hanno accompagnato il rinnovo per cinque anni dell'autorizzazione al commercio dell'erbicida glifosato, deciso dalla maggioranza degli Stati Ue e dalla Commissione europea.
La Commissione speciale del Parlamento Europeo, dovrà valutare: 1) eventuali carenze nel modo in cui le sostanze sono valutate scientificamente e approvate; 2) il ruolo della Commissione Europea nel rinnovo della licenza di glifosato ed eventuali conflitti di interesse nella procedura di approvazione; 3) il ruolo delle agenzie dell'Ue e se esse dispongono di personale e finanziamenti adeguati per adempiere al loro mandato.
Solo qualche settimana prima il Parlamento europeo aveva approvato una risoluzione in cui affermava che la pubblicazione dei cosiddetti "Monsanto Papers" – i documenti interni della Monsanto, azienda proprietaria e produttrice del Roundup, di cui il glifosato è la principale sostanza attiva – ha fatto sorgere dubbi in merito alla credibilità di alcuni studi utilizzati dall'Ue ai fini della valutazione della sicurezza. La risoluzione affermava che la procedura di autorizzazione dell'Ue dovrebbe basarsi unicamente su studi pubblicati e indipendenti sottoposti a revisione paritaria e commissionati dalle autorità pubbliche competenti, e che le agenzie dell'Unione europea dovrebbero essere rafforzate per consentire loro di lavorare in questo modo.

Fabian Tomasi. In apertura l'avvocato Kennedy con Dewayne

IL GLIFOSATO KILLER IN ARGENTINA
Ma ritorniamo in America. Forse Dewahine Jonhson non avrebbe mai voluto diventare un simbolo della lotta contro il glifosato, così come non lo avrebbe voluto essere Fabian Tomasi, uomo simbolo della lotta contro i pesticidi in Argentina e morto lo scorso 7 settembre all'età di 53 anni. Era diventato il simbolo della lotta degli agricoltori argentini contro il glifosato.
Aveva iniziato a lavorare per un'azienda agricola all'età di 23 anni. Doveva riempire i serbatoi degli aerei, usati per l'irrorazione degli erbicidi sui campi di soia. Serbatoi che contenevano  soprattutto glifosato. Fabian, che lavorava come gli altri operai agricoli senza nessuna formazione specifica, nessuna precauzione dai veleni, seguendo un solo consiglio: "non metterti contro vento, così i gas non ti raggiungono", comincia ben presto ad accusare gravi disturbi,  fino a che gli viene diagnosticata una polineuropatia tossica grave. Ma non è il solo. Nella sua stessa famiglia, il fratello, anche lui esposto all'irrorazione di erbicidi, era già morto per un tumore al fegato. Nelle campagne circostanti, i tumori sono il triplo di quelli che si riscontrano nelle città.
L'Argentina non ha mai regolamentato l'uso dei pesticidi, e Fabian comincia la sua battaglia affinché sia riconosciuta la relazione tra la  malattia e il  suo lavoro incessante nell'agrochimica. La stampa internazionale ne parla. Le foto del suo corpo fanno il giro del mondo. Diventa l'emblema delle lotte ambientaliste.
Si batte in particolare contro il glifosato, il pesticida prodotto dalla Monsanto e irrorato nella misura di 300.000 tonnellate all'anno sui campi argentini di soia transgenico.
"Siamo colpiti da un sistema di produzione che si preoccupa più di riempire le tasche di alcuni che della salute delle persone", diceva durante una delle sue ultime interviste televisive, parlando degli effetti dei pesticidi sulla salute dell'uomo.
Fabian Tomasi è morto senza aver ottenuto un processo.
Poche settimane prima della sua morte, commentando la condanna della Monsanto al maxirisarcimento in favore di Dewayne Johnson, aveva detto: "Non ho bisogno di soldi, ho bisogno di vivere. Non sono imprese, sono operatori della morte". 
(…) "Quando me ne sarò andato, continuate a difendere la verità".

VALENTINA SCARAMUZZO

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15 novembre 2018

Livigni: ci governa la cupola che liquidò Kennedy e Mattei

Vorrei tornare su Enrico Mattei, di cui sono stato uno strettissimo collaboratore, per dire che in Italia è avvenuto qualcosa di orrendo, di sporco. Era stata fatta una inchiesta, quando l’aereo precipitò a Bascapè: un’inchiesta vergognosa, fatta da depistaggi e coperture della verità. Un’altra mezza inchiesta era stata subito chiusa. Nel 1994 ho pubblicato un libro con la Mondatori che si chiama “La grande sfida”, e sono riuscito avere documentazioni top secret dagli archivi della Jfk Library di Boston, dall’Eisenhower Library e, con mia sorpresa, ho scoperto che tra Mattei e Kennedy c’era una corrispondenza molto stretta. Dopo la crisi di Suez, quando Inghilterra e Francia erano state invitate dagli Stati Uniti a ritirarsi durante la Guerra di Suez, perché gli Usa temevano uno shock petrolifero, l’Italia avanzò la proposta di coprire un ruolo di nazione strategica, sul Mediterraneo, in sostituzione di Francia e Inghilterra. Kennedy era d’accordo, però bisognava dare stabilità politica al governo italiano, che cambiava ogni due mesi (c’era stata la crisi del governo Tambroni, che durò un mese e mezzo). Per dare stabilità politicabisognava scegliere un uomo e fare riforme. Kennedy esaminò tutti i possibili interlocutori italiani, e li scartò subito: via Fanfani, via Gronchi. E arrivò a Mattei: di lui, Kennedy era affascinato. E iniziarono delle trattative.
Una prima trattativa avvenne all’Hotel Excelsior di Roma, in grandissimo segreto. Mattei non si fece assistere da nessuno. Kennedy chiese alle grandi compagnie americane di mettere Mattei in condizioni di fare affari, di offrirgli contratti migliori di Mario Draghiquelli che aveva con l’Unione Sovietica. Dopo lunghe trattative, venne fatto un contratto tra l’Eni e la Esso per la fornitura di 12 milioni di tonnellate l’anno di greggio a condizioni veramente migliori di quelle che Mattei aveva con l’Urss. Dopo l’accordo commerciale, segretissimo, si passò alla trattativa politica. Parteciparono il responsabile della politicaestera di Kennedy e il futuro capo della Cia in Italia. Mattei doveva andare a dicembre 1962 a incontrare Kennedy. Non ne parlò con nessuno, neanche con me. Era abbastanza teso, in quei giorni: aveva ricevuto minacce. La cosa che mi colpì è che era stato in Sicilia, il 18 ottobre 1962. C’era stato un incontro a Gela, un Cda della Agip Mineraria. Lui transitò da Palermo, mi chiamò e mi disse: «Ti voglio vedere subito in aeroporto». Arrivò con l’aereo aziendale, mi diede indicazioni su fatti che stavamo svolgendo e io gli dissi: «Presidente, venga entro l’anno, perché abbiamo fatto una realizzazione, a Gela, che voleva lei: un grande deposito costiero per importare dalla raffineria di Gela i prodotti sul mercato». Lui disse: «Non posso venire, ho parecchi impegni, ci vediamo il prossimo anno».
Dopo sette giorni ricevo una sua telefonata. Io mi trovo a Palermo, avevo un incarico di “scout man”, l’uomo dei servizi segreti nel petrolio che cerca di sapere cosa fanno le altre compagnie. Mi disse: «Sto partendo per Gela». «Presidente, ma… come mai?». «Poi glielo dico». Arrivai a Gela prima di lui, andai al Motel Agip e mi dissero: «Non atterra qui». L’Agip aveva un aeroporto privato, l’aeroporto di Ponte Olivo, con una pista molto sorvegliata. Ma la sera prima avevano messo una carica di tritolo e rotto la pista per non farlo atterrare, per farlo venire con l’elicottero. E lui dovette atterrare a Catania, arrivò intorno alle 13. Abbiamo parlato di problemi in corso che riguardavano l’Iraq. Nessun libro, dei 300 e rotti pubblicati nel mondo su Mattei, ha mai parlato dell’Iraq. Sapevo che c’era una questione in Iran: non si era riusciti a entrare nel consorzio dopo la caduta di Mossadeq, fatto cadere dagli angloamericani perché aveva nazionalizzato il petrolio (fatto cadere con l’uso dei sicari Enrico Matteidell’economia). Mossadeq fu denunziato come se fosse un pazzo, e invece era molto saggio: era presidente del Consiglio del primo governo democratico iraniano, un governo eletto dal popolo.
Gli americani tornarono con gli inglesi e riaprirono le compagnie angloamericane, fecero un consorzio e noi siamo stati rifiutati. E Mattei disse: «Andiamoci a prendere il petrolio in Iraq». Che cosa era successo? Io ho conosciuto a Taormina Dino Grandi, ex ministro degli esteri del governo Mussolini, che mi ha informato che nel 1934 l’Agip, fondata nel 1926, era riuscita a ottenere in Iraq il più grande giacimento nell’area di Kirkuk, nell’area curda. Era riuscita per l’abilità di Grandi che venne a patti con gli inglesi, che avevano l’85% del territorio iracheno. Una concessione enorme, con una sessantina di concessioni. L’Iraq è un’invenzione di Churchill, che aveva capito che – tirando una linea, un rettangolo, e unificando sciiti, curdi, sunniti e turcomanni – avrebbe creato un paese in eterno confitto, facilmente governabile e dominabile da un punto di vista coloniale. Dino Grandi diede appoggio all’Inghilterra, perché scadeva il protettorato inglese nel 1934, presso la Società delle Nazioni, la futura Onu. In contropartita, l’Inghilterra accettò che l’Agip rilevasse una piccola società petrolifera, e poi accettò che questa si ingrandisse fino a diventare una concessione importante, che si chiama Mossul Oil Field.
E però avvenne che nel 1935 le truppe italiane invadono l’Etiopia, gli inglesi ricattano la Agip, dicono: «Se vuoi che noi interveniamo alla Società delle Nazioni per non fare sanzioni e un embargo petrolifero, ci devi cedere la Mossul Oil Field». Grandi trattò, e alla fine trovarono una soluzione: sarebbe andato a inglesi e americani il 51%, però l’Agip avrebbe mantenuto il 39% e una presenza strategica nella “golden share” della società, cioè avrebbe partecipato alle politiche e alle strategie. Quando Grandi tornò a Roma, Mussolini ebbe paura e disse: «No, cediamo la società, perché gli inglesi poi mi possono giocare un brutto scherzo, e io non posso fermare in Etiopia le truppe con un embargo». Mattei sapeva tutto questo, e dopo che fummo rifiutati dal consorzio iraniano disse: «Andiamoci a prendere il petrolio in Iraq». Si formò un gruppo molto ristretto. Io lavorai con l’équipe che andò in Iraq quando Khassem, nel 1958, abbatté la monarchia irachena di Re Faysal. Khassem venne contattato nel mese di agosto, in una caserma, mentre fuori si sparava. Gli fu portata una credenziale di Mattei, in cui diceva: «Vogliamo fare con voi un contratto paritetico, un partenariato, non un contratto in cui vi vede paese esattore di tasse Khassemo di royalty. Facciamolo insieme, facciamo una società paritetica che si occuperà anche di altre cose connesse al petrolio». Lui accettò e disse: «Voglio però prima cacciare via l’Iraq Petroleum Company».
E così si iniziò a dare assistenza legale a Khassem esaminando, concessione per concessione, l’Iraq Petroleum Company, per vedere dove questa società aveva mancato. Su 60 e rotti concessioni, la società ne aveva sfruttato solo tre, con un atteggiamento di scorrettezza enorme: si era mantenuta come riserva le altre risorse, privando il popolo iracheno di quelle royalty, ancorché irrisorie. Nel 1962 Khassem revocò le concessioni, queste 57 concessioni, all’Iraq Petroleum Company. Era una bomba! Una delle più grandi compagnie del mondo veniva buttata fuori, perché Khassem avrebbe fatto entrare l’Eni. Seguii da vicino la faccenda, ma non eravamo sicuri di essere sfuggiti ai servizi segreti americani e inglesi, perché in Italia c’era parecchia gente che voleva la fine di Mattei – parecchia. Lui aveva rotto con Fanfani: mandò all’opposizione i fanfaniani siciliani, che non erano gente troppo facile – erano Gioia, Lima. Avevano indirizzato i finanziamenti alla Dc, a Fanfani, a Moro. Era rottura totale, e Fanfani era presidente del Consiglio. Poi c’è la questione Cefis: Mattei lo aveva cacciato fuori, il vicepresidente, che era un uomo dei servizi inglesi.
Mattei era isolato, e durante la trattativa ho scoperto, con i documenti avuti, che c’erano stati interventi pesantissimi dell’ambasciata americana e inglese a Roma su Fanfani, per fermare Mattei, e Fanfani ha risposto: «Io Mattei non lo posso fermare, non ho il potere». È una cosa gravissima: «Fermare a ogni costo». Khassem fece una società nazionale per creare poi una società paritetica con noi, fece sapere che voleva dare un annunzio al giornalismo internazionale di questo progetto della costituzione della compagnia nazionale: non c’era più influenza esterna. Noi abbiamo detto: «Prendi tempo!». Era il 16 settembre del 1962. E Khassem, per la smania di dimostrare al popolo che stava lavorando per il bene dell’Iraq, rilasciò un’intervista che ci fece gelare. Disse: «Io ho revocato le concessioni all’Iraq Petroleum company e sto realizzando una società paritetica con l’Eni». Ci siamo sentiti persi: era grave, gravissimo. Abbiamo detto a Mattei di stare attento, di non viaggiare più in aereo. E quindi arrivò in Sicilia il giorno 26 ottobre. Eravamo terrorizzati. Io ho detto: «Presidente, non riparta questa sera per Milano. Venga con me, andiamo in campagna, mia moglie ha campagne vicino Palermo. Si riposi, non chiami neanche sua Eugenio Cefismoglie. Un amico andrà a Roma e avviserà sua moglie, ma lo farà in modo privato: per un mese, “faccia finta di…”». Lui disse: «No, devo andare. Devo incontrarmi a Milano con l’onorevole Tremelloni questa sera e poi devo partire, devo fare il contratto con l’Algeria».
Era un altro contratto molto osteggiato dagli angloamericani, ma soprattutto da Fanfani perché non voleva che Mattei portasse avanti una politica di rottura nei confronti delle Sette Sorelle (fu Mattei a definirle così, in verità all’inizio voleva dire “sorellastre” ma poi i giornalisti l’hanno modificato). E’ voluto partire lo stesso, Mattei. E quella sera l’aereo è caduto. In Italia abbiamo avuto una porcheria degna di nessun paese al mondo. Quando pubblicai “La grande sfida”, il procuratore Vincenzo Calia di Pavia, zona dove l’aereo è caduto, riaprì l’inchiesta perché la novità era il rapporto Mattei-Kennedy. Indagò con molta serietà, Calia. Ho avuto l’onore di collaborare da vicino con l’avanzamento inchiesta, e si accertò l’avvenuto sabotaggio. Si sono riesumati i corpi di Mattei e Bertuzzi, il pilota, e si sono trovate tracce di esplosivo: Compound 200, un esplosivo molto potente. Si è accertato che l’esplosivo era stato messo sotto i comandi del carrello, e si può fare attraverso il ruotino: si infila la carica con una calamita. La notte tra il 25 e il 26, l’aereo era stato portato dentro l’hangar militare della Nato (quello che vi dico è nell’inchiesta), ed è stato sabotato dai servizi: l’ho scritto. L’aereo, quando il pilota azionò la cloche per scendere, è andato in aria, è esploso.
Ebbene, quest’inchiesta, che stava arrivando ai mandanti, già individuati (il magistrato stava acquisendo ulteriori elementi per le prove) è stata archiviata nel 2003. Dicono che Mattei non si sa perché è morto, alcuni dicono in un incidente: è una vergogna che una verità sia stata occultata. Se ammazzano un uomo non succede niente: un paese indegno. (Io ci ho perduto la moglie, nel luglio 2007: una macchina ci ha speronato e mia moglie è morta. Ebbene, chi ci ha speronato – che era ubriaco e drogato – sta passeggiando tranquillo, si diverte, va alle feste. Denunziato per omicidio colposo, ma non succederà niente!).  Ritorniamo a Mattei. Archiviata l’inchiesta, io ho fatto un libro in 25 giorni, lavorando notte e giorno, che si chiama “Caso Mattei, un giallo Italiano”. Perché giallo italiano? Perché alla fine è stata gestito da italiani, da uomini per cui l’escalation di Carlos MarcelloMattei nella politica avrebbe dichiarato la fine politica o manageriale. E poi ho messo in evidenza, da una serie di documenti, un rapporto tra l’assassinio di Kennedy e quello di Mattei. A Catania c’era, quel giorno, Carlos Marcello, che è stato implicato nell’assassinio di Kennedy. Il tutto converge sull’oligarchia britannica – sulla Permidex, controspionaggio inglese.
Siamo sempre lì: il centro del mondo nella finanza è Londra, e quindi Mattei ha messo in difficoltà gli inglesi. Kennedy lo stesso, perché ha rotto i rapporti con l’oligarchia britannica della politica a fini finanziari, e ha posto fine alla guerra in Corea senza interpellare gli inglesi. Non ci sono prove, ma c’è un legame comune. Quindi Mattei è stato ucciso, anche se tutti quelli che hanno scritto libri, come Bruno Vespa, dicono è caduto per un incidente aereo. Negli anni ‘90 è accaduto qualcosa di grave, ma i giornali italiani non hanno parlato di nulla perché fanno solo propaganda, poi alla fine le verità vengono negate. E’ successo questo: cade il Muro di Berlino, e il ministro Scotti avverte il capo del governo che manovre strane stavano avvenendo da parte di importanti banche d’affari contro l’economia italiana. Poi ribadisce: me lo ha detto Parisi. Mi ha detto pure che potrebbero avvenire stragi o uccisioni. Nel ‘92 avvenne la strage di Capaci, dove la mafia ha avuto solo un ruolo di supporto militare. Invece è una strage con gruppi di potereBenito Livignipiù o meno occulto, che prepararono una svolta economica e politica: «Vogliamo sedere in Parlamento, vogliamo governare». Allora l’Italia avvia la svendita dell’economiapubblica.
Voglio parlare dell’Eni. Quando finì la guerra si avviò un dibattito tra i cattolici sociali e la sinistra italiana, guidata dai comunisti. Dovevano decidere quale struttura economica si doveva dare lo Stato italiano dopo il fascismo. I cattolici sociali hanno rifiutato il liberismo con una grande intuizione, perché il liberalismo penalizza le classi più deboli e spesso anche la vita della gente. Si creò un compromesso con lo Stato imprenditore che opera con le leggi del mercato in concorrenza, indirizzando in aree depresse anche l’economia privata. Viene privatizzato l’Eni, nel 1994 viene privatizzato l’Iri, altre aziende dello Stato nel campo delle telecomunicazioni. Alla fine di questo scempio, di questa carneficina, si sono divisi tutto. E nessuno ha mai parlato. Un pezzo alla sinistra, un pezzo alla destra: un’operazione scellerata di abbrutimento. L’unica denunzia viene fatta dal movimento civile americano di Lyndon LaRouche, ma Ciampi diventò presidente e tutto fu insabbiato. Tutto il patrimonio immobiliare dell’Eni, stimato in 100.000 miliardi, viene svenduto a un fondo Goldman Sachs. Stranamente, l’uomo che ha condotto questa operazione è stato Mario Draghi, che poi è diventato vicepresidente della Goldman. Non si può accettare, si tratta della logica più miserabile. Io l’ho denunziato, ma non è successo niente.
(Benito Livigni, dichiarazioni rilasciate in un recente incontro pubblico, ripreso da YouTube e riproposto da “Imola Oggi” il 2 novembre 2018).

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14 novembre 2018

Muos, il radar dei 5S va in tilt


Guerra Stellare. Comitati in rivolta dopo che la ministra Trenta deposita una memoria che smonta il lavoro durato anni di ambientalisti e grillini
Il Muos c’è, esiste. A Niscemi lo sanno tutti. Un dato incontrovertibile. Sull’operatività del sistema radar invece tante ombre. Certo è che il satellite è stato collegato alle antenne per smistare le comunicazioni militari a forze navali, aeree e terrestri in movimento in qualsiasi parte del mondo.
UN SISTEMA ad alta frequenza che permette di tenere in collegamento i centri di comando e controllo delle forze armate Usa, i centri logistici e gli oltre 18mila terminali militari radio esistenti, i gruppi operativi in combattimento, i missili Cruise e i Global Hawk (Uav-velivoli senza pilota). Anzi, si parla addirittura di un ampliamento della base. Il resto top secret. Segreto di Stato. Questione militare.
Gli Usa non transigono. Il problema però è politico. Il governo Conte è favorevole o no alla centrale di antenne costruita a Niscemi, in provincia di Caltanissetta?
Dubbi legittimi. Soprattutto tra i 5stelle, quelli che si sono intestati la lotta civile contro il Muos.
Chi si è mobilitato negli ultimi cinque anni mentre al governo c’era il Pd è rimasto choccato dalla mossa di Elisabetta Trenta: la ministra della Difesa, per il tramite dell’Avvocatura dello Stato, ha depositato la memoria difensiva di opposizione al ricorso di revocazione presentato da Legambiente alla sentenza di secondo grado del Consiglio di giustizia amministrativa (Cga) che aveva in sostanza dato l’ok al Muos.
Saranno sempre i giudici amministrativi del Cga a doversi pronunciare il 14 novembre sui rilievi mossi dagli ambientalisti e dal comune di Niscemi.
Il comitato «No Muos» e le tante associazioni che si battono per fermare il sistema americano ci credono. I margini però sarebbero davvero stretti. Intanto tra i grillini che si sono schierati, senza infingimenti, contro il Muos c’è fibrillazione. Una battaglia condotta a viso scoperto, quando al governo c’erano Renzi e poi Gentiloni. In piazza, ma non solo.
IL M5S C’HA MESSO LA FACCIA anche nelle sedi istituzionali. Sempre. Raccogliendo attorno a sé migliaia di persone, tra cui le donne che hanno creato un comitato. Giampiero Trizzino è stato tra i protagonisti. Avvocato e deputato regionale da due legislature, Trizzino è stato il deus ex machina nella fronda anti-Muos del movimento. Un impegno costante, durato cinque anni. Prima a capo della commissione Ambiente dell’Assemblea siciliana, poi da esponente del cartello che raggruppa ambientalisti, comitati spontanei di cittadini, comuni dell’hinterland, no-global. In un corposo dossier i 5stelle hanno raccolto documenti, suffragati da pareri scientifici, che dimostrano come il sistema di antenne sia potenzialmente dannoso per la salute dei cittadini e per l’ambiente. Non solo.
IL MEGA-RADAR sorge nella riserva della Sughereta, un’area a vincolo Sic nella quale, secondo gli oppositori, non sarebbe stato possibile realizzarlo per paletti paesaggistici che sarebbero stati violati. «In questi giorni il governo è al lavoro sul dossier», ha detto il ministro Trenta. Una posizione che ha irrigidito i 5stelle in Sicilia. Il dossier i grillini lo hanno già stilato. Anzi. Proprio Trizzino ne diede contezza durante la convention a Palermo di «Italia a 5stelle». E dunque? Perché il ministro parla di nuovo dossier? Ci sono forse pressioni ad alti livelli nei confronti del governo Conte?
Dubbi alimentati proprio dalla memoria depositata da Trenta. Che in sostanza smonta il lavoro fatto da comitati, ambientalisti e 5stelle siciliani. Claudio Fava, presidente dell’Antimafia siciliana, chiede un intervento del Parlamento e del governo siciliani. «Mentre a parole si afferma di voler intervenire per avviare la dismissione della base di Niscemi, gli atti amministrativi vanno nella direzione opposta», attacca Fava. Nel mirino «la richiesta formulata dal ministero della Difesa, per conto del comando della US Navy, per nuovi lavori di manutenzione straordinaria all’interno della base». «Richiesta – incalza – formulata al comune di Niscemi e alla Regione siciliana e di cui poco si è saputo e ancor meno parlato».
«Al presidente Musumeci, che in più occasioni aveva dichiarato la contrarietà all’opera, e al Movimento 5 Stelle, che ora ha la responsabilità del governo del Paese – continua Fava – chiediamo di decidere una volta per tutte da che parte stare. Per questo abbiamo depositato una mozione, che chiediamo venga rapidamente discussa, affinché l’Assemblea siciliana si esprima contro le autorizzazioni a nuovi lavori nella base e chieda ai governi regionale e nazionale, ciascuno per le proprie responsabilità, di smantellare il Muos». Per Leoluca Orlando, sindaco di Palermo, «il sostegno del governo nazionale, con atti formali del ministero della Difesa, alla realizzazione del Muos è un fatto grave».
PERCHÉ «RAPPRESENTA un attacco al diritto dei cittadini e degli enti locali ad essere attori nei processi decisionali che li riguardano e una negazione della vocazione pacifica della Sicilia, la cui posizione strategica deve essere spunto per promuovere azioni di pace e dialogo e non per nuove strutture e interventi militari». Sferzante Gaetano Di Rocco, tra i fondatori del meetup a Niscemi, appena fuoriuscito dal M5s: «Siamo molto delusi dalla linea che il movimento sta tenendo sul Muos da quando è al governo». Lapidario Fabio D’Alessandro, portavoce dei comitati. «Sono in tanti i delusi fra gli esponenti locali dei 5stelle che hanno gli stivali nel fango mentre i loro colleghi al governo non fanno nulla». E aggiunge: «Chi non è andato via, come il comitato delle mamme legato a Trizzino, spera in una novità che non arriva».
IL TIMORE è che il M5s, ormai al governo, si comporti come i predecessori. La prossima settimana è in programma un vertice tra il ministro Trenta e i 5stelle «No muos» capeggiati da Trizzino. In ballo ci sono interessi geostrategici Nato sul versante africano e in quello mediorientale. Basti pensare che a Sigonella ci sono gli hangar con i droni che vengono teleguidati verso gli obiettivi Isis in Medio Oriente e Africa, mentre ad Augusta e a Birgi (Trapani) ci sono le postazioni navali e dell’aviazione.
Alfredo Marsala

Visto su: comedonchisciotte.org