Il futuro non c'è ancora. Tutto quello che abbiamo è il
passato. La storia ci ha fatti come siamo. La storia ha creato i nostri pensieri, ha deciso perfino il nostro nome. Eppure, la storia non interessa a nessuno. Forse per questo stiamo perdendo il senso delle cose. Se non sappiamo più
chi eravamo, come possiamo capire
chi siamo?
Molti di noi si definiscono
partigiani della rete. Ma chi erano davvero i partigiani? Cosa pensano dell'
Italia di oggi, loro che l'hanno
costruita con le loro stesse mani? E cosa pensano della
Costituzione, loro che l'hanno
vista scrivere con i loro stessi occhi?
Il blog ha intervistato
Massimo Rendina, presidente dell'
ANPI, l'
Associazione Nazionale Partigiani d'Italia.
MEMORIE DI UN PARTIGIANO
Intervista di Helene Benedetti
H.B. «Buonasera Massimo Rendina, ci vuole raccontare per un partigiano cos'è stata la guerra?»
M.R. «Io pensavo che la guerra partigiana fosse perduta, che vincessero i tedeschi, che Hitler avesse veramente l’arma segreta. Per poco non l’ha avuta perché, perseguitando una ricercatrice di fisica ebrea, che fu fatta scappare dalla Germania, si privò della possibilità di avere la bomba atomica prima degli americani. Il nostro destino era un destino che vedevamo segnato. Avevamo detto: “Beh, vinceranno, ci uccideranno. Cerchiamo di non farci torturare.”. Dicevamo ai nostri garibaldini: “Se vedete che io casco nella mani dei tedeschi sparatemi addosso, perché io non voglio essere torturato!». Procedevano con sistemi talmente barbari e disumani nei confronti dei prigionieri, che tutti noi avevamo questo senso della disperazione, in qualche misura. Nello stesso tempo non potevamo dirlo, perché dovevamo rassicurare i nostri garibaldini e la popolazione civile. Dico garibaldini perché i miei partigiani erano garibaldini. Dovevamo rassicurarli che ci sarebbe stata questa vittoria, dare questa speranza, e quindi tenerci per noi l’ansia e la paura che questo non avvenisse.»
H.B. «Quanti anni aveva lei quando siete partiti?»
M.R. «Avevo 23 anni.»
H.B. «Durante la guerra, si aveva il tempo di avere paura?»
M.R.
«Beh… La paura è connessa alla guerra. Il problema è che se tu hai
delle responsabilità, cioè se sei un comandante di reparto, anche di
quello più piccolo, non puoi mostrare di averne. Anzi: ci montavamo, io
facevo anche un po’ lo spaccone per non dimostrare di avere paura. Guai
se tu mostri ai tuoi sottoposti di avere paura. Devi essere sicuro di
quello che fai, e sicuro di quello che fai fare a loro. E delle volte,
quando poi i soldati muoiono, quando dei garibaldini, dei partigiani
morivano, e sono morti in tanti, ti viene un’angoscia spaventosa,
perché pensi che avresti potuto agire diversamente. Pensi che forse
doveva toccare a te piuttosto che a loro, a dei ragazzi che nella
guerra partigiana avevano 15 o 16 anni addirittura. Li ho visti morire
e sono ancora davanti a me. Uno, tra l’altro medaglia d’oro, mi fece
ripiegare. Volle stare alla mitragliatrice e farci sganciare, cioè
rientrare nel nostro territorio di fronte ad un attacco nazista. C’era
poi un soldato tedesco, non giovane, avrà avuto una quarantina d’anni,
anzi noi lo qualificavamo molto anziano. Non sapevamo neanche il suo
nome, lo chiamavamo il tedesco. Era venuto con noi, era un disertore. Mi ricordo che fummo attaccati al bivio del Gallareto, in Piemonte, da un reparto di SS tedesche. Lui aveva il suo fucile e non voleva sparare contro i tedeschi. Diceva “Questi sono i miei fratelli”. Io ero indignato, gli dissi che era un vigliacco, che era una carogna, glielo dissi anche in tedesco. Lui mi disse: “No, io non sono un vile. Ti mostrerò come sa morire un tedesco”. Si alzò in piedi e gli andò incontro urlando: “uccidete un tedesco per la libertà”. E morì in quel modo. Non saprò mai come si chiamava perché non avevamo i suoi documenti e il suo nome vero.
Questi sono piccoli episodi che possono però dimostrare quale era il
nostro sentimento. Qual era questa guerra molto personale. La guerra
partigiana è una guerra fatta di piccole storie di ciascuno, che si
uniscono per questa idea di dignità della persona
e della libertà. Senza tanto pensare a un futuro, anzi: ci difendevamo
da questa idea di immaginare un futuro politico del nostro paese, anche
perché i comunisti – e ce n’erano tra noi, ma non così tanti come si dice
– temevano che si potesse accostare la loro ideologia a quella
sovietica, mentre i cattolici pensavano che si potesse definirli
clericali. Ognuno pensava realmente a un futuro soprattutto di libertà
e di dignità della persona, che poi ritroviamo nella stessa Costituzione.
La Costituzione tiene conto proprio di queste aspirazioni non definite.
Noi non sapevamo neppure se sarebbe stata repubblica o monarchia, e ci
fu chi – soprattutto tra gli azionisti lombardi – nell’ultimo periodo prima della guerra di liberazione diceva: “ma
perché non continuiamo un po’ con questa esperienza del comitato di
liberazione nazionale, in modo che ci sia un avvio lento alla
democrazia, quando saremo veramente sicuri che ci potrà essere una
responsabilità civile delle persone?». Invece i comunisti e i democristiani dissero: “no, diamolo al popolo questo potere. Sarà il popolo che deciderà, attraverso un organismo – che poi diventerà la Costituente”.
Vinsero questa battaglia ideologica per poter affidare alla gente il
proprio futuro. Questo lo troviamo nella Costituzione, laddove c’è
scritto che la sovranità è del popolo.»
H.B. «Il valore della Costituzione: molti ragazzi non riescono a capirlo.»
M.R. «La Costituzione dopo tanti anni è ancora un
documento straordinariamente attuale, anche perché non è stata del
tutto attuata. Quindi occorre realmente pensare alla sua attuazione, al
diritto al lavoro per tutti, a un’uguaglianza non utopistica. Il mondo
è fatto di differenze, anche tra le persone. L’uguaglianza deve essere
soprattutto un’uguaglianza di opportunità: dare a ciascun bambino che
nasce la stessa opportunità al di fuori del fatto che sia una famiglia
ricca o povera. Il diritto allo studio per tutti, il diritto di
affermazione, il diritto di sopravvivenza, con una remunerazione
decente. Queste sono le grandi battaglie. Forse per questo mi dicono comunista, ma non so se questo sia comunismo o non forse pensare al Vangelo, come penso io che sono cattolico.»
H.B. «A
noi ragazzi, che siamo molto preoccupati per tutto quello che sta
succedendo in Italia, per il governo, per tutto quello che non abbiamo
più - non abbiamo più una Costituzione, perché anche se è scritta non viene più rispettata - cosa consiglia lei?»
M.R. «Dobbiamo fare una riflessione sul pericolo che ci sia domani non più un governo parlamentare, ma un governo di élite.
Questo è il sogno del presidente del Consiglio, di Berlusconi, che non
è solo suo: si allaccia si Bush, si allaccia a una situazione di
politica internazionale. I governi devono essere diretti da persone
capaci, che hanno dato dimostrazione nell’industria, nella finanza e
così via di essere capaci. Per cui, ecco il governo azienda, con il capo dell’azienda che può nominare, licenziare, stabilire le remunerazioni, dare i premi… Siamo veramente in uno stato azienda, ma un’azienda che non rispetta i diritti della persona umana. Nel momento in cui siamo in una crisi così profonda del capitalismo – per carità, io non voglio fare un discorso contro o pro capitalismo
–, decidiamo di salvare un capitalismo che ha dato queste prove, di
farlo in modo soft, riformista solo di alcuni lati mentre il problema è
globale. Bisogna invece assumersi delle responsabilità di cambiamento
che deve essere un cambiamento radicale. Non parliamo mai o quasi di
quello che sta accadendo nel mondo. Un terzo dell’umanità vive in una situazione straordinaria di benessere, anche se ci sono delle sacche di povertà, mentre tre quarti dell’umanità sta soffrendo,
e moltissimi muoiono di fame, tanti bambini, i più deboli… Allora il
discorso della globalità va visto anche in questo senso, non soltanto
come globalità di comunicazione, di cultura o finanziaria. Poi c’è
anche il problema della risorse: abbiamo risorse sufficienti per
stabilire uno standard di vita così elevato in tutto il mondo? Gli
economisti dicono di no. C’è proprio una scuola di economisti della decrescita
che dicono che non si può più dissennatamente sfruttare le risorse di
un pianeta perché ce ne vorrebbero quattro, di pianeti, per elevare lo
standard di vita di tutti. Allora stiamo assistendo a un neo-colonialismo molto grave e pesante, come se questi tre quarti dell’umanità dovessero stare in soggezione per sempre.
Siamo di fronte a una società dominata dalla politica teatrale,
imposta anche da questo governo attraverso i sistemi audiovisivi di
massa, che sono assolutamente deleteri perché fanno diventare reale una società che non è reale.
Per esempio, questi giochi di prestigio di certi spettacoli che
mostrano situazioni, anche sessuali, esasperate, che non sono nella normalità ma che fanno diventare normali. L’automobile simbolo, il vestiario simbolo, la marca. E’ tutto un mondo sfacciatamente bugiardo
che la televisione accredita come vero, naturale e praticato da tutti,
e che tutti devono praticare: chi non lo pratica è fuori, diventa
assolutamente emarginato da una sottocultura alla
quale non opponiamo una cultura seria di solidarietà, e anche di
crescita della persona umana. La persona umana ha anche bisogno proprio
di una nuova filosofia, mi pare. La filosofia sta diventando storia
della filosofia, e non sta diventando un dibattito etico sull’avvenire,
sui perché che ancora ci tormentano: chi siamo, perché viviamo, perché
moriamo. Queste grandi domande sembrano assolutamente essere rinchiuse
in un privato e non essere elemento di meditazione collettiva.»
H.B. «E a chi dice “Scendiamo in piazza per protestare”, cosa dice?»
M.R. «Io credo che sia una cosa giusta. Io sono
contro il populismo, influenzato anche dai mass-media ecc. La piazza,
però, assume un valore di testimonianza: l’essere insieme.
Diamo voce a chi non ha voce, e a chi non si sa servire della voce
diciamogli che deve servirsene. Dobbiamo avere questa compartecipazione
di gruppi, di una società che probabilmente non conosciamo, perché
passiamo sempre per i partiti politici, per i sindacati, per le
associazioni culturali, però non sappiamo che la società vera è anche un’altra. la piazza si dimostra in questo momento come un elemento essenziale di protesta, perché con una stampa così malata
come è la nostra, che è sempre stata malata fin dal dopo guerra, perché
in mano ai gruppi economici che se ne sono serviti come ricatto, o come
appoggio, con tutt’altro scopo – sono stati i giornalisti che hanno dato dignità alla stampa, francamente non il sistema
– con una stampa così malata, la società ha perso potere. Io mi ricordo
che non molti anni fa, quando Camilla Cederno scrisse delle cose che
probabilmente non erano vere sui figli del presidente della Repubblica,
il presidente della Repubblica si dimise. Quando si
parò del delitto Montesi, il povero Piero Piccioni non c’entrava
assolutamente niente. Fu dimostrato. Ciononostante il padre si dimise
da vicepresidente del Consiglio. Oggi puoi dire qualsiasi cosa, non si dimette nessuno. Questo è anche grazie all’opinione pubblica, che è diventata un’opinione pubblica malata,
come sono malati i giornali. Ringraziamo che ci sia qualche
giornalista, che nel bene e nel male fa sentire una voce dissidente, e
che si cerca di opprimere fino in fondo, adeguando la stampa ai
desideri di un potere che poi è un potere scollacciato, un potere anche volgare, un potere che finisce nelle alcove
e nell’uso della cocaina. Con tutta franchezza, che lezione diamo ai
nostri nipoti, ai nostri bambini che crescono e che sanno tutte queste
cose, perché capiscono molto di più di quello che pensiamo che sia
possibile capire a una certa età. Che cosa diciamo loro? Qual è
l’esempio, il modello che noi offriamo alle nuove generazioni? Ecco
perché dico che i giovani hanno una responsabilità enorme anche in
questo, nell’aggregarsi tra di loro, nell’esprimersi, nel fare politica
e dare alla politica un nuovo senso. Quando i ragazzi
dell’Onda sfilano per le strade, giustamente, contro dei provvedimenti
assurdi, sbagliati, di un Ministro della Pubblica Istruzione, dicendo “non vogliamo sapere niente dei partiti”,
è un gravissimo errore. Lo capisco anche, ma è un gravissimo errore.
Modifichiamo i partiti, però è attraverso le aggregazioni politiche che
esprimiamo la democrazia, attraverso il confronto democratico, come
diceva Moro il quale non pensava assolutamente al compromesso storico
ma al confronto tra due forze rivali che si univano nel bene del paese.
Questa era la strada: rimanere quello che si è, però trovare insieme quei motivi per il bene comune, ed è una cosa che vale per i cattolici ma anche per i laici, francamente.»
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