22 giugno 2019

Vaccini e libertà di scelta. Appuntamento il 27 giugno in Parlamento


27 giugno 2019 – Ore 13.00 – Conferenza Stampa c/o Sala Stampa della Camera.
In questi due anni il tema della libertà di scelta vaccinale ha dimostrato che siamo in un momento storico caratterizzato dalla mancanza di dialogo tra istituzioni e cittadini. Abbiamo assistito a una grave riduzione del dibattito su diritti costituzionalmente garantiti, come l’autodeterminazione e la libera scelta in campo sanitario, e allo sterile scontro tra fantomatiche fazioni provax-novax. Soprattutto risultati di importanti ricerche scientifiche sono stati per lo più ignorati o screditati.
Dalle analisi di laboratorio (screening sperimentali auspicati nella relazione della Commissione Parlamentare d’Inchiesta Uranio Impoverito) commissionate dall’associazione Corvelva emergono importanti risultati che pongono serissimi dubbi sull’efficacia e sicurezza di alcuni vaccini, aprendo le porte a ipotesi che, se confermate, paleserebbero una truffa ai danni della collettività di proporzioni enormi.

La stessa associazione di cittadini ha finanziato ricerche epidemiologiche, oggi pubblicate sulla rivista scientifica “Epidemiologia & Prevenzione”, con tutti i crismi della peer review, che vanno a confermare le risultanze della Commissione Parlamentare sullo stato di salute dei militari missionari e non missionari.
Alla gravità dei risultati ottenuti e del fatto che dei cittadini abbiano dovuto finanziare esami di laboratorio che, in un Paese civile, spetterebbe allo Stato sostenere, si aggiunge oltretutto la gravità della mancanza di confronto e dibattito scientifico sui risultati medesimi, nonché la mancanza di considerazione degli stessi da parte delle Istituzioni.
Al contempo si continua a disconoscere come le multinazionali del farmaco finanzino, direttamente o indirettamente, una grossa fetta dei medici italiani, associazioni mediche e Università. Negare i progressi scientifici e medici è tanto sciocco quanto negare che gli stessi progressi scientifici e medici, mal governati, stiano portando a pericolose derive. “Le principali riviste scientifiche distorcono il processo scientifico e
rappresentano una tirannia che va spezzata. […] La scienza è a rischio: non è più affidabile perché in mano a una casta chiusa e tutt’altro che indipendente”, affermava il Premio Nobel per la medicina Randy Schekman nel 2013.

È tempo che la ricerca ritorni a essere indipendente, aperta e al servizio dei cittadini e che i diritti individuali siano garantiti. Il diritto alla salute, allo studio, ma anche il diritto ad avere dubbi, a informarsi e al rispetto, soprattutto da parte di uno Stato che per troppo tempo ha ignorato le istanze di un’ampia fascia di popolazione, compresi i tantissimi danneggiati da pratica vaccinale, spesso derisi, non riconosciuti e se
morti taciuti. Il Disegno di Legge 770 dovrebbe essere promulgato in quest’ottica.
Durante la Conferenza Stampa parleremo dello stato dell’arte dei progetti in corso sia dell’Associazione Corvelva (che dal 1993 si batte per la libertà di scelta vaccinale e terapeutica, raccogliendo le preoccupazioni di tante famiglie che da circa due anni si sono viste negare l’accesso ai servizi educativi per i propri figli) che del Comitato COSMI (nato dalle richieste inevase della Commissione Parlamentare d’Inchiesta Uranio Impoverito, composta da politici e consulenti tecnici che hanno presieduto l’ultima Commissione e da medici che hanno portato il loro apporto
 cientifico alla discussione), elencando tutte le figure che sono state informate e hanno disatteso il minimo ascolto di una parte della cittadinanza.

Interverranno:
On. Ivan Catalano – Vicepresidente Com. Parl. d’Inchiesta Uranio Impoverito (XVII Legislatura);
Dott.ssa Loretta Bolgan – Chimica specializzata in tecnologie farmaceutiche;
Dott. Pier Paolo Dal Monte – Chirurgo, epistemologo e saggista coautore del libro Immunità di Legge;
On. Sara Cunial – Gruppo Misto.
Modererà la Conferenza Stampa Nassim Langrudi – Referente dell’Associazione Corvelva.


21 giugno 2019

Mentre il mondo guarda Donald Trump, non si accorge di quello che sta veramente facendo la politica estera degli Stati Uniti


I nostri leader sanno come battere i tamburi di guerra e, di solito, noi li assecondiamo. Gli Stati Uniti minacciano di fare guerra all’Iran, in modo che l‘Iran possa chiudere lo Stretto di Hormuz e attaccare le navi da guerra americane nel Golfo? Israele colpisce obiettivi iraniani in Siria dopo che alcuni razzi sono caduti sul Golan, per far sì che che un conflitto arabo-israeliano, dopo quello del 1973, diventi sempre più probabile? Jared Kushner progetta di rendere pubblico “l’accordo del secolo” di Trump per la pace in Medio Oriente, ma non era morto e sepolto?
Nel frattempo le storie vere vengono spinte verso il fondo della pagina, o “sul retro del libro,” come eravamo soliti dire noi giornalisti.
Prendete, per esempio, l’intenzione di Donald Trump di concedere all‘Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti una fornitura supplementare di armi per un valore di miliardi di dollari, per imbarbarire sempre di più la guerra nello Yemen contro gli Houthi;  il fatto poi che questi ultimi siano sostenuti dall’Iran, almeno così sembra, è la causa di gran parte della violenza internazionale contro la Repubblica Islamica. Agenti dei servizi segreti francesi a Washington avrebbero scoperto che questa non è una richiesta abituale da parte di Riyadh, ma un appello disperato a Washington, perché talmente indiscriminato è stato l’uso da parte dei Sauditi delle munizioni fornite loro dagli Stati Uniti contro i ribelli Houthi (e contro civili, ospedali, centri di assistenza, scuole e feste di matrimonio) che stanno esaurendo le bombe, i missili guidati e non guidati, i pezzi di ricambio dei droni ed altre armi “di precisione” da utilizzare contro uno dei paesi più poveri del mondo.
Così, quando Trump si era trovato di fronte al Congresso, che voleva fermare le forniture (non ultimo perché i suoi membri erano ancora abbastanza contrariati per l’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi), l’elenco dei destinatari della fornitura di armi era stato modificato, in modo da includere il piccolo e impavido alleato dell’America, il re Abdullah II di Giordania. Certo, questo particolare era sfuggito a tutti quanti, no? Abbiamo aggiunto ai titoli [dei nostri giornali] le parole “e alla Giordania,” ma non ci siamo chiesti il perché. E le munizioni non arriveranno da vendite dirette agli Stati del Golfo, con un possibile tetto imposto dal Congresso di 25 milioni di dollari, ma dalle scorte militari del governo degli Stati Uniti e (così fanno capire i Francesi) una gran parte di queste armi andrà in Giordania.
E la cosa è molto strana, perché la Giordania, in questo momento, non è in guerra con nessuno e certamente non fa parte delle forze della “coalizione” saudita che bombardano lo Yemen.
Quindi, quanto di questi 8,1 miliardi di dollari di missili, bombe ecc. sarà inviato ad Amman? E quante di queste armi saranno scaricate dagli aerei militari statunitensi e ricaricate sui cargo sauditi, una volta che la merce sarà arrivata in Giordania? Solo una piccola, ma tradizionalmente coraggiosa, pubblicazione, l’indomito settimanale francese Le Canard enchaine ha raccolto questa storia. In passato le sue fonti di Washington si erano sempre dimostrate corrette, e tutto il miserabile trasferimento di armi è stato definito dal giornale come: “Molto scaltro, anche se non morale, [solo] una piccola inezia per nuovi massacri.”
E ora prendiamo in considerazione un’indagine del New York Times sulla distruzione della famiglia Mubarez, dovuta ad un attacco aereo americano in Afghanistan, il 23 settembre dell’anno scorso. La coalizione in Afghanistan guidata dagli USA aveva in un primo tempo negato l’attacco. Poi aveva circoscritto l’obiettivo limitandolo alle coordinate della casa della famiglia Mubarez, nella provincia di Wardak, dove la moglie di Masih Mubarez e i suoi sette figli avevano trascorso la mattinata, fino al momento del bombardamento. Il marito era in Iran. Nonostante ciò, gli Americani avevano affermato che i loro soldati si erano trovati “sotto il fuoco di un cecchino” proveniente dall’edificio e che, dopo il bombardamento, “in base alle nostre valutazioni, erano rimasti uccisi solo dei combattenti.”
Ma, dopo quelle che ovviamente erano state settimane di indagini giornalistiche condotte insieme al Bureau of Investigative Journalism, il New York Times ha rivelato questa settimana, in un articolo firmato a quattro mani, che una bomba di precisione a guida GPS, made in USA, aveva effettivamente ucciso la moglie di Mubarez; le sue quattro figlie Anisa, di 14 anni, Safia, di 12, Samina, sette e Fahima, cinque; i suoi tre figli Mohammad Wiqad, 10, Mohammad Ilyas, otto e Mohammad Fayaz, quattro; e quattro loro cugini adolescenti.
Mubarez, che aveva telefonato per l’ultima volta a sua moglie dall’Iran un’ora e mezza prima della sua morte, aeva detto degli Americani: “Possono uccidere il nemico, ma hanno distrutto solo la mia casa.” E un’ultima considerazione: nella sua ultima telefonata a casa, Mubarez aveva sentito la moglie dire che all’interno dell’abitazione erano presenti soldati americani e afghani. Che cosa significava?
In passato, questa sarebbe stata una storia da prima pagina sul New York Times. Sarebbero seguiti ulteriori articoli, forse un editoriale. Questa settimana è stata confinata nella sezione “Mondo/Asia” del quotidiano. Nell’edizione internazionale, era in fondo a pagina tre. Come il pezzo di Le Canard enchaine, anch’esso in fondo alla terza pagina, anche se in una pubblicazione di sole otto pagine; la storia sembra già essere caduta nel dimenticatoio. Come tante altre in questi giorni.
Prendiamo, ad esempio, la morte in un ospedale algerino dell’attivista berbero e avvocato Kamel Eddine Fekhar, che aveva intrapreso un lungo sciopero della fame dopo l’arresto. Il pouvoir (“potere”), lo stesso corrotto governo algerino che si era tenuto stretto il comatoso presidente Abdelaziz Bouteflika, fino a quando la folla non lo aveva costretto alle dimissioni, e che ora dice che le elezioni per un successore devono essere rinviate, aveva incarcerato Fekhar per “minacce alla sicurezza dello stato” e “incitamento all’odio razziale.” Questi erano i soliti, falsi pretesti che lo stesso pouvoir aveva utilizzato ogni volta che aveva imprigionato o ucciso gli attivisti politici durante la guerra civile del 1990-98 (i morti totali allora erano stati circa 250.000).
La storia, che altrimenti non sarebbe mai arrivata fino a noi, è stata tuttavia divulgata dal giornalista-avvocato tunisino Nessim Ben Gharbia. Ha sottolineato il fatto che Fekhar, piuttosto che essere regolarmente detenuto in attesa di processo con altri presunti sospettati, era stato tenuto in “segregazione cautelare,” dove interrogatori severi (e nel contesto algerino, dovremmo sapere cosa significa) sono condotti nei confronti di chi avrebbe commesso, secondo i testi legali, “i crimini più gravi,” un tipo di detenzione che dovrebbe essere, secondo l’articolo 59 della costituzione algerina, una misura “eccezionale.” Ma Ben Gharbia rivela in una piccola rivista in lingua francese che questa stessa normativa viene ora applicata a uomini e donne accusati di finti trasferimenti di denaro, “demoralizzazione” dell’esercito e “complotto” contro lo stato. Uno stato, si dovrebbe aggiungere, che aveva posto fine alla sua guerra civile con una legge che vietava qualsiasi punizione nei confronti dei dipendenti statali per quelli che potremmo chiamare crimini di guerra.
Le notizie di routine sulla morte di Fekhar non menzionavano questo straordinario sviluppo nel sistema carcerario del paese, che ora è considerato dall’Occidente come un bastione contro Isis e gli altri killer islamici. Né vi è stato alcun seguito, come si dice in gergo, all’articolo di Ben Gharbia.
Né è probabile che ci sia, in un mondo in cui tutti noi, più volte alla settimana, veniamo inondati dalla retorica dei Trump, dei Bolton e dei Pompeo, sì, e dei Khamenei, dei Netanyahu e dei Mohammed bin Salman.
E, suppongo, dei Farage, dei Gove e dei Johnson.
Forse è giunto il momento di non dare più a queste persone il diritto di scrivere la nostra agenda, ma di mettere delle persone reali in testa di pagina, ora che gli Assange e i Manning non possono più fare il lavoro per noi.
Robert Fisk
Fonte: www.independent.co.uk

Scelto e tradotto da Markus per comedonchisciotte.org

19 giugno 2019

LA NEXT-GEN DI TESLA MODEL S E X AVRÀ TRE MOTORI E AUTONOMIA FINO A 644 KM


Mentre la produzione della Tesla Model 3 va verso le 1.000 unità giornaliere, e quella della nuova Tesla Model Y si appresta a partire, Elon Musk pensa già alla nuova generazione di Model S e Model X.
Le due vetture “simbolo” di Tesla hanno già ricevuto un aggiornamento minore nelle scorse settimane, guadagnano ulteriore autonomia, in un nuovo report CNBC però si parla di un prossimo refresh delle vetture, la cui nuova generazione sarà costruita in Fremont insieme alla Model Y. Fra le novità dei nuovi modelli, che esattamente come la 3 e la Y potrebbero condividere molti elementi in comune, dovremmo trovare nuovi motori, nuove batterie e un sistema di carica rinnovato, solo per dirne alcune.
L’indiscrezione più succosa però riguarda il debutto assoluto di tre motori elettrici su una singola auto Tesla, il che suona quasi “come una beffa” dopo i tre propulsori elettrici della nuova Ferrari SF90 Stradale. La nuova configurazione Tri-motors dovrebbe vedere due propulsori più grandi al posteriore e uno più piccolo all’anteriore.
Le migliorie dovrebbero riguardare anche l’autonomia, che potrebbe salire fino a 644 kmper la Model S e poco oltre i 600 km per la Model X - secondo gli standard EPA, bisogna poi vedere in Europa con il WLTP. Questo grazie a pacchi batteria più grandi, affiancati da sistemi di raffreddamento rinnovati - testati nel deserto del Mojave e nella Death Valley, sembrerebbe. Le auto saranno poi perfettamente compatibili con i Supercharger V3, potrebbero dunque caricare a 250 kW per una ricarica ultra veloce. Che l’hype per le nuove Model S e X inizi a crescere...
FONTE:TESLARATI

17 giugno 2019

Siamo tutti bugiardi di Thierry Meyssan


Thierry Meyssan replica alle commemorazioni dello sbarco in Normandia e del massacro di Tienanmen, nonché alla propaganda elettorale per le recenti elezioni del parlamento europeo, mettendo l’accento sul fatto che continuiamo a mentire, persino rallegrandocene. Soltanto la verità può però renderci liberi.


La propaganda è un mezzo per diffondere idee, siano esse vere o false. Ma mentire a sé stessi significa non assumersi la responsabilità dei propri errori, convincersi di essere perfetti e passare oltre.
La Turchia è esempio estremo di questo atteggiamento. Insiste a negare di aver cercato di liberarsi delle minoranze non mussulmane, tentando di farle sparire a ondate per un’intera generazione, dal 1894 al 1923. Anche gli israeliani non se la cavano male: pretendono di aver creato il loro Stato allo scopo di offrire vita degna agli ebrei sopravvissuti allo sterminio nazista, quando invece già nel 1917 Woodrow Wilson si era impegnato a fondarlo, e nonostante oggi in Israele oltre 50.000 sopravvissuti ai campi della morte vivano in miseria, al di sotto della soglia di povertà. Ma gli occidentali provvedono da sé a costruire il consenso attorno alle proprie menzogne e le professano come fossero verità rivelate.

Lo sbarco in Normandia

Si festeggia il 75° anniversario dello sbarco in Normandia. Quasi unanimemente i media affermano che con questa operazione gli Alleati diedero inizio alla liberazione dell’Europa dal giogo nazista.
Ebbene, sappiamo tutti che è una menzogna.
-  Lo sbarco non fu opera degli Alleati, ma quasi esclusivamente dell’Impero britannico e del corpo di spedizione statunitense.
-  Non ebbe lo scopo di “liberare l’Europa”, bensì di precipitarsi su Berlino per strappare i brandelli del Terzo Reich alla vittoriosa armata sovietica.
-  I francesi non accolsero lo sbarco con gioia, ma con orrore: Robert Jospin, padre dell’ex primo ministro Lionel, sul suo giornale denunciava in prima pagina che gli anglosassoni avevano importato la guerra in Francia. I francesi seppellirono le 20 mila vittime dei bombardamenti anglosassoni unicamente per creare un diversivo. A Lione, un’immensa manifestazione si raccolse attorno al “capo dello Stato”, l’ex maresciallo Philippe Pétain, per respingere la dominazione anglosassone. E mai, assolutamente mai, il capo della Francia libera, il generale Charles De Gaulle, accettò di partecipare alla benché minima commemorazione di questo nefasto sbarco.
La storia è più complicata dei film western. Non ci sono “buoni” e “cattivi”, soltanto uomini che cercano di salvare parenti e amici con più o meno umanità. Almeno si sono evitate le stupidaggini di Tony Blair che, durante le commemorazioni del 60° anniversario dello sbarco, fece insorgere la stampa affermando nel suo discorso che il Regno Unito entrò in guerra per salvare gli ebrei dalla “shoah” ¬– non però i gitani vittime dello stesso massacro. Ebbene, la persecuzione degli ebrei d’Europa iniziò soltanto nel 1942, dopo la Conferenza di Wansee.

Il massacro di Tienanmen

Si celebra anche il triste anniversario del massacro di Tienanmen. Ovunque si legge che il crudele regime imperiale cinese massacrò migliaia di concittadini, pacificamente radunati nella principale piazza di Beijing, che chiedevano soltanto un po’ di libertà.
Ebbene, tutti sappiamo che è falso.
-  Il sit-in in piazza Tienanmen non fu un semplice raduno genuino di cittadini cinesi, bensì un tentativo di colpo di Stato da parte di partigiani dell’ex primo ministro Zhao Ziyang.
-  In piazza Tienanmen, “pacifici manifestanti” linciarono o bruciarono vivi soldati a decine e distrussero centinaia di veicoli militari, prima che intervenissero gli uomini di Deng Xiaoping a fermarli.
-  A organizzare gli uomini di Zhao Ziyang, sul posto c’erano gli specialisti USA delle “rivoluzioni colorate”, tra cui Gene Sharp.

L’Unione Europea

Abbiamo appena votato per eleggere i rappresentanti al parlamento europeo. Per settimane siamo stati abbeverati di slogan che ci garantivano che «l’Europa è la pace e la prosperità» e che l’Unione Europea è il compimento del sogno europeo.
Ebbene, tutti sappiamo che è falso.
-  L’Europa è insieme un continente – «da Brest a Vladivostok», secondo la definizione di De Gaulle – e una cultura di apertura e cooperazione; l’Unione Europea invece non è altro che un’amministrazione anti-Russia, in continuità con la corsa verso Berlino dello sbarco in Normandia.
-  L’Unione Europea non è pace: a Cipro è vigliaccheria di fronte all’occupazione militare turca. Non è prosperità, ma stagnazione economica quando il resto del mondo si sviluppa a gran velocità.
-  L’Unione Europea non è in rapporto alcuno con il sogno europeo del primo dopoguerra. L’ambizione dei nostri antenati era unificare i regimi politici nell’interesse generale – le Repubbliche, nel senso etimologico del termine – conformemente alla cultura europea, si trovassero o meno nel continente. Aristide Briand propugnava che l’Argentina, Paese di cultura europea dell’America Latina, facesse parte dell’Europa, ma non il Regno Unito, società di classe.
E così via…

Andiamo avanti come ciechi

Dobbiamo saper distinguere il vero dal falso. Possiamo rallegrarci della caduta del nazismo, senza tuttavia convincerci che gli anglosassoni ci hanno salvati. Possiamo denunciare la brutalità di Deng Xiaoping, senza tuttavia negare che ha salvato la Cina da un nuovo colonialismo. Possiamo essere contenti di non essere stati dominati dall’Unione Sovietica, senza tuttavia inorgoglirci di essere i lacchè degli anglosassoni.
Continuiamo a mentire a noi stessi per nascondere le nostre vigliaccherie e i nostri crimini. Ciononostante, ci meravigliamo di non riuscire a risolvere alcuno dei problemi dell’umanità.

14 giugno 2019

La verità raccontata da Andrew Wakefield – Diretta Byoblu da Padova


In esclusiva su Byoblu, arriva la diretta streaming di un evento molto atteso: per la prima volta in Italia, Andrew Wakefield, il dottore londinese che nel 1998, con uno studio scientifico pubblicato su The Lancet, osò mettere in dubbio la pratica delle vaccinazioni di massa. Il suo articolo gli costò la radiazione dall’Ordine dei medici e la gogna mediatica dell’informazione mainstream, ma le sue ragioni, raccontate in prima persona, sono in pochi a conoscerle.
Grazie all’impegno dell’associazione Corvelva potremo ascoltare direttamente dalla voce dell’uomo più odiato dall’establishment farmaceutico e scientifico internazionale, il dottor Andrew Wakefield, quale sia la sua versione di questo lungo, triste capitolo di una storia che riguarda da vicino la salute dei nostri bambini, ed avere così un quadro più obiettivo su quello che si nasconde dietro a uno dei più grossi scandali del XX secolo.

12 giugno 2019

VACCINI E AUTISMO / LE RICERCHE ALLA KEELE UNIVERSITY


Ricordate le feroci polemiche ad inizio gennaio per una ricerca su alcuni lotti di vaccini parzialmente finanziata dall’Ordine Nazionale dei Biologi? Si scatenò un putiferio perché i risultati iniziali erano da brividi, un autentico polverone sollevato da un gruppo di ricercatori capitanato dal padre di tutti i Pro Vax, Roberto Burioni.
In quei lotti venne trovato di tutto e di più, compresi addirittura i nocivi glifosati.
Alla Keele University, invece, proseguono in tutta tranquillità gli studi di una equipe coordinata dal professor Chris Exley, docente in chimica bio-organica. Si tratta di una delle più prestigiose università britanniche, a pochi chilometri da Newcastle.
Nel 2017 l’equipe ha pubblicato uno studio sull’alluminio trovato nei tessuti cerebrali di cinque piccoli pazienti affetti da autismo. Le conclusioni della ricerca sottolineavano come anche piccole quantità di alluminio contenute in alcuni vaccini inattivati – ad esempio quello per l’HPV, vale a dire il papilloma virus – possono causare “le più severe e disabilitanti forme di autismo”.
E’ uno dei nodi sui quali la comunità scientifica internazionale dibatte da anni. L’equipe del professor Exley, dopo quella ricerca, ha deciso di continuare ad approfondire la delicatissima materia.
Per questo motivo alla Keele Universityhanno attivato una piattaforma destinata alle donazioni su questi fronti avanzati della ricerca, una sorta di crowdfundingper contribuire a finanziare quegli studi.
Ma alla Keele– come risulta da un ampio reportage effettuato dal Guardian– tengono a sottolineare l’alto profilo scientifico delle ricerche che possono attivarsi attraverso il portale. “Siamo convinti della necessità e grande utilità sociale dei vaccini oggi – sottolineano – ma altrettanto convinti che su questo terreno vadano promosse le più ampie ricerche. E noi intendiamo garantire la qualità scientifica degli studi che possono essere aiutati dalle donazioni”.
La ricerca di Exley ha ricevuto una sorta di marchio di garanzia assegnato dal “Children’s Medical Safety Research Institute” statunitense, un alto organismo americano che si occupa della sicurezza nei vaccini.
“I danari che riceviamo – osserva Exley – servono per supportare i costi di base e far funzionare i nostri laboratori, a prescindere dal tipo di ricerca da svolgere”.
Le ultime donazioni ammontano ad un totale di circa 22 mila sterline. La gran parte di importo inferiore alle 100 sterline ciascuna.
Il nuovo sistema di donazioni brevettato alla Keeleè finalizzato – sottolineano i promotori universitari – a garantire “il massimo grado possibile di trasparenza”.

10 giugno 2019

La punizione finale di Julian Assange ricorda ai giornalisti che il loro lavoro è scoprire quello che lo stato tiene nascosto


Se faremo il nostro lavoro, renderemo pubblica quella stessa, vile menzogna dei nostri governanti che ha causato questo rigurgito di odio verso Assange, Manning e Snowden.
Comincio ad essere un po’ stanco dello US Spionage Act. Del resto, è  molto tempo che sono anche abbastanza stufo della saga di Julian Assange e di Chelsea Manning. Nessuno vuole parlare delle loro personalità perché sembra che a nessuno vadano molto a genio queste due persone, anche a chi aveva giornalisticamente tratto vantaggio dalle loro rivelazioni.
Sin dall’inizio, ero preoccupato dell’effetto Wikileaks, non sui brutali governi occidentali, le cui attività aveva rivelato con precisione sconvolgente (specialmente in Medio Oriente) ma sulla pratica del giornalismo. Quando Wikileaks aveva offerto a noi scribi questo piatto di minestra, ci eravamo saltati dentro, avevamo remato e schizzato le pareti del racconto con le nostre grida di orrore. E avevamo dimenticato che il vero giornalismo investigativo riguarda la costante ricerca della verità attraverso le proprie fonti personali, piuttosto che scodellare davanti ai lettori una vagonata di segreti, segreti che Assange e gli altri (e non noi) avevano scelto di rendere pubblici.
Come mai, ricordo di essermi chiesto quasi 10 anni fa, potevamo leggere le indiscrezioni su tanti Arabi o Americani, ma su così pochi Israeliani? Chi stava in realtà mescolando la zuppa che avremmo dovuto mangiare? Che cosa era stato lasciato fuori dal pastone?
Ma gli ultimi giorni mi hanno convinto che c’è qualcosa di molto più ovvio riguardo l’arresto di Assange e la nuova incarcerazione della Manning. E non ha nulla a che fare con il tradimento,  l’infedeltà o con qualsiasi altra presunta catastrofica minaccia alla nostra sicurezza.
Sul Washington Post di questa settimana, c’è un pezzo di Marc Theissen, un’ex scrittore di discorsi della Casa Bianca che aveva difeso l’uso della tortura da parte della CIA come “legale e moralmente giusta,” che ci informa che Assange “non è un giornalista. È una spia … Si è impegnato nello spionaggio contro gli Stati Uniti. E non ha rimorsi per il male che ha fatto.” Così facendo dimentica che la pazzia di Trump ha già fatto diventare un passatempo la tortura e le relazioni segrete con i nemici dell’America.
No, non penso che tutto questo abbia qualcosa a che fare con l’uso dello Spionage Act (per quanto gravi siano le sue implicazioni per i normali giornalisti) o i “rispettabili organismi di informazione,” come Thiessen stucchevolmente ci definisce. Né ha molto a che fare con i pericoli che queste rivelazioni avrebbero fatto correre agli agenti assoldati localmente in America e in Medio Oriente. Ricordo bene quanto spesso gli interpreti iracheni [che lavoravano] per le forze statunitensi ci dicessero di aver richiesto i visti [di espatrio] per loro e le loro famiglie quando erano stati minacciati in Iraq, e come alla maggior parte di loro fosse stato risposto che la cosa era impossibile. Noi Inglesi abbiamo trattato molti dei nostri traduttori iracheni con la stessa indifferenza.
Perciò dimentichiamo, solo per un momento, il massacro dei civili, la letale crudeltà dei mercenari statunitensi (alcuni coinvolti in traffici di bambini), l’uccisione dello staff della Reuters da parte delle truppe americane a Baghdad, l’esercito di innocenti detenuto a Guantanamo, la tortura, le bugie ufficiali, le false cifre delle vittime, le menzogne ​​dell’ambasciata, l’addestramento americano dei torturatori egiziani e tutti gli altri crimini scoperti dal lavoro di Assange e Manning.
Supponiamo che ciò che avevano rivelato fossero state cose buone, piuttosto che cattive, che i documenti diplomatici e militari fornissero un fulgido esempio di una nazione grande e specchiata e fossero la prova di quegli ideali nobilissimi e risplendenti che la terra dei liberi ha sempre fatto suoi. Facciamo finta che le forze statunitensi in Iraq avessero ripetutamente rischiato la vita per proteggere i civili, che avessero denunciato le torture dei loro alleati, che avessero trattato i detenuti di Abu Ghraib (molti di loro completamente innocenti) non con crudeltà sessuale ma con rispetto e gentilezza; che avessero privato del potere i mercenari e li avessero riportati in catene negli Stati Uniti; che si sentissero in debito, anche solo per scusarsi, per tutti quegli uomini, donne e bambini che avevano fatto una fine prematura nella guerra in Iraq.
Meglio ancora, pensiamo per un momento a come avremmo potuto reagire alla rivelazione che gli Americani non avevano ucciso quelle decine di migliaia di persone, che non avevano mai torturato neanche un’anima, che i detenuti di Guantanamo, tutti quanti, erano senza ombra di dubbio pluriomicidi razzisti, sadici, codardi, xenofobi, e le prove dei loro crimini contro l’umanità validate di fronte ai tribunali più imparziali del mondo. Immaginiamo persino per un momento che l’equipaggio dell’elicottero americano che aveva falciato 12 civili in una strada di Baghdad non li avesse “eliminati” con le sue mitragliatrici. Immaginiamo che la voce alla radio dell’elicottero avesse detto: “Aspetta, penso che quei ragazzi siano dei civili, e quel fucile potrebbe essere solo una telecamera. Non sparare!
Come tutti sappiamo, questa è una fuga dalla realtà. Perchè quello che rappresentavano queste centinaia di migliaia di documenti era la vergogna dell’America, dei suoi uomini politici, dei suoi soldati, dei suoi torturatori, dei suoi diplomatici.
C’era persino un elemento di farsa che, sospetto, aveva fatto infuriare tutti i Thiess di questo mondo ancor più delle rivelazioni più terribili. Ricorderò sempre lo sdegno espresso da Hillary Clinton quando era stato rivelato che aveva mandato i suoi scagnozzi a spiare all’interno delle Nazioni Unite; i suoi schiavi al Dipartimento di Stato avevano dovuto studiarsi i dettagli della crittografia usata dai vari delegati, le transazioni con carte di credito, persino le tessere dei frequent flyer. Ma chi, al mondo, vorrebbe sprecare il proprio tempo a studiare tutte le sciocchezze dell’assolutamente incompetente staff delle Nazioni Unite? O, per quel che importa, chi alla CIA aveva sprecato il suo tempo ascoltando le conversazioni telefoniche private di Angela Merkel con Ban Ki Moon?
Uno dei cablogrammi divulgati da Assange risale alla rivoluzione iraniana del 1979 e riguarda l’opinione di Bruce Laingen sul fatto che “la psicologia persiana è prioritariamente egocentrica.” Interessante, ma gli studenti iraniani avevano faticosamente rimesso insieme tutti i trucioli dei documenti triturati dell’ambasciata americana a Teheran negli anni successivi al 1979, e avevano già pubblicato le parole di Laingen decenni prima che Wikileaks ce le facesse avere. Talmente enorme era stato il primo rilascio da 250.000 documenti (che Hillary  aveva denunciato come “un attacco alla comunità internazionale,” mentre ancora oggi li chiama “documenti presunti,” come se fossero dei falsi) che pochi avevano potuto verificare cosa ci fosse di nuovo e cosa di vecchio. Così il New York Times si era affrettato a sottolineare la citazione di Laingen come se fosse stato di uno scoop straordinario.
Parte del materiale non era così ovvio prima [della sua divulgazione], il suggerimento che la Siria avesse permesso ai ribelli antiamericani provenienti dal Libano di attraversare il suo territorio, per esempio, era assolutamente corretto, ma le “prove” degli attentati dinamitardi iraniani nel sud dell’Iraq erano molto più dubbiose. Questa storia era già stata felicemente passata al New York Times dai funzionari del Pentagono nel febbraio 2007, per essere poi riproposta in anni più recenti, ma erano quasi tutte stupidaggini. Di equipaggiamento militare iraniano ce n’era in giro in tutto l’Iraq fin dalla guerra Iran-Iraq del 1980-88 e la maggior parte degli attentatori che ne avevano fatto uso erano musulmani sunniti iracheni.
Ma questo è andare a cercare il pelo nell’uovo in quella montagna di carte. Una simile stupidaggine è insignificante in confronto alle mostruose rivelazioni sulla crudeltà americana; il resoconto, ad esempio, di come le truppe statunitensi avessero ucciso quasi 700 civili, tra cui donne incinte e malati di mente, solo per essersi avvicinati troppo ai loro posti di blocco. E le istruzioni alle forze statunitensi (questo frammento di narrativa è di Chelsea Manning) di non indagare quando i loro alleati militari iracheni frustavano i prigionieri con grossi cavi, li lasciavano appesi a ganci pendenti dal soffitto, gli bucavano le gambe con trapani elettrici e li violentavano. Nella valutazione segreta da parte degli USA su 109.000 morti in Iraq e Afghanistan (una grossolana sottostima), 66.081 erano stati ufficialmente classificati come non combattenti. Quale, mi chiedo, sarebbe stata la reazione americana di fronte all’uccisione di 66.000 cittadini statunitensi, 20 volte più delle vittime dell’11 settembre?
Naturalmente, noi non avremmo dovuto sapere niente di tutto questo. E si può capire perché no. Il peggio di questo materiale era segreto non perché fosse scivolato accidentalmente in una cartellina di un’amministrazione militare contrassegnata con “riservato” o “strettamente confidenziale,” ma perché rappresentava la copertura di un crimine di stato su vasta scala.
I responsabili di queste atrocità dovrebbero ora essere processati, estradati da qualunque luogo si nascondano e imprigionati per i loro crimini contro l’umanità. Ma no, noi stiamo punendo chi queste notizie le aveva divulgate, per quanto commoventi, a nostro avviso, fossero le loro motivazioni.
Certo, noi giornalisti, noi gente delle “rispettabili agenzie di informazione,” possiamo preoccuparci delle implicazioni di tutto questo perché riguarda la nostra professione. Ma, molto meglio, potremmo dare la caccia ad altre verità, ugualmente spaventose per l’autorità. Perché non scoprire, per esempio, cosa ha detto Mike Pompeo in privato a Mohammed bin Salman? Quali velenose promesse potrebbe aver fatto Donald Trump a Netanyahu? Quali relazioni segrete gli Stati Uniti intrattengono ancora con l’Iran, perché hanno persino mantenuto importanti contatti, saltuari, silenziosi e riservati, con elementi del governo siriano?
Perché aspettare 10 anni per il prossimo Assange che ci scaricherà un’altra camionata di segreti di stato?
Ma c’è il solito campanello d’allarme: quello che scopriremo attraverso i metodi del vecchio giornalismo convenzionale delle suole consumate a forza di camminare, delle storie che vengono fuori da gole profonde o da contatti fidati, rivelerà, se faremo il nostro lavoro, la stessa vile menzogna dei nostri padroni che ha provocato questo rigurgito di odio verso Assange e Manning e, indubbiamente, Edward Snowden. Non verremo chiamati in giudizio perché l’incriminazione di questi tre costituisce un pericoloso precedente legale. Ma saremo perseguitati per le stesse ragioni: perché ciò che riveleremo dimostrerà oltre ogni dubbio che i nostri governi e quelli dei nostri alleati commettono crimini di guerra e i responsabili di queste iniquità cercheranno di farcela pagare per questa indiscrezione con una vita dietro le sbarre.
La vergogna e la paura di dover condividere la responsabilità di ciò che era stato fatto dalle nostre autorità preposte alla “sicurezza,” non il fatto che chi aveva divulgato le notizie avesse violato la legge, ecco di che cosa si tratta.
Robert Fisk
Fonte: www.independent.co.uk

Tradotto da Markus per comedonchisciotte.org