06 dicembre 2018

Galloni: come sopravvivere se lo spread sale a quota 400

Ieri l’asta dei Btp è stata molto fiacca. Dicono i giornali perché lo spread è salito a quota oltre 330; insomma, se ci si aspetta che lo spread salga ancora (magari in funzione della procedura contro l’Italia preannunciata per il 22 novembre), gli investitori aspettano a comperare titoli a più lungo termine. Se è così – e, soprattutto gli investitori (grandi banche dealer) sono costrette a comperare titoli per l’immensa disponibilità liquida loro fornita dalle banche centrali che poi obbligano a depositi presso di esse con tassi negativi – perché non offrire bonds a breve e risparmiare sui tassi? Non si sa. Giornali, televisioni, politici e accademici dicono che l’aumento dello spread determina un impoverimento dei possessori di titoli: se anche io li voglio vendere anticipatamente, so che il prezzo cala, quindi, che li venderò (sempre che decida di rientrare in possesso della liquidità prima della scadenza) ad un valore più basso; ma, se me li tengo fino a scadenza, avrò il reddito pattuito e, infine, il rimborso del capitale originario.
Casomai, se l’attesa di aumento dei rendimenti dei titoli futuri supera la svalutazione di quelli vecchi di cui si chiede il rimborso anticipato, allora sarà conveniente chiedere quest’ultimo e aspettare il momento buono per investire sul nuovo Nino Galloniprimario. Di qui due deduzioni: 1) agli speculatori serve che l’aumento delle spread sia seguito da un aumento dei tassi sulle nuove emissioni e, quindi, possono operare in tal senso (come è già accaduto qualche anno fa coi titoli greci); 2) bisogna offrire nuovi titoli a rendimenti e scadenze più corte.
A quota 400 tutti – compreso il ministro dell’economia – pensano che il sistema non regga: certo questo sistema che, però, lo si dice da una vita, è intrinsecamente sballato. Occorrono, invece, quattro cose: 1) ridurre i tempi delle scadenze delle nuove emissioni per guadagnare dai tassi più bassi che la speculazione accetta in attesa delle nuove emissioni a lungo termine coi tassi più alti (e che determineranno tra non tantissimo tempo la crisi delle borse ed il rafforzamento dei ribassisti); 2) consentire agli Stati di immettere moneta non a debito a sola circolazione nazionale per finanziare attività  nell’ambiente e l’occupazione soprattutto giovanile; 3) non interrompere il quantitative easing della Bce sul mercato secondario; 4) istituire un’agenzia di rating titolata a dare giudizi su basi serie e trasparenti.
(Nino Galloni, “Come sopravvivere a quota 400”, da “Scenari Economici” del 20 novembre 2018).

05 dicembre 2018

Rete Voltaire: I principali titoli della settimana 5 dic 2018


Rete Voltaire
Focus




In breve

 
Israele-Libano: chi vìola la risoluzione 1701?
 

 
Tsahal ripulisce la frontiera dai tunnel dello Hezbollah
 

 
Riad finanzia la Muqata'a, Doha invece finanzia Gaza
 

 
Giornata insurrezionale nel centro di Parigi, a Marsiglia e Avignone
 

 
Confermata la nostra versione dell'incidente di Kertch
 

 
La marina ucraina vìola lo spazio marittimo russo
 

 
Le clausole segrete dell'accordo sul gas tra Cipro, Grecia, Italia e Israele
 

 
Controproposta russa all'«Accordo del secolo»
 
Controversie
 Roma (Italia) |
Il tentativo di Donald Trump di riequilibrare i flussi commerciali sino-statunitensi non è funzionale soltanto alla volontà di riportare negli Stati Uniti i posti di lavoro persi con la delocalizzazione. Le nuove infrastrutture di trasporto e di comunicazione cinesi sono una minaccia sempre più incombente per la posizione di leader mondiale degli Stati Uniti. Il braccio di ferro per Huawei mostra come preoccupazioni economiche e preoccupazioni militari si congiungano. Già diversi Stati hanno constatato che Washington non è per il momento in grado di decodificare gli strumenti Huawei, così, come già in Siria, hanno riequipaggiato completamente i loro servizi d'intelligence con tecnologia prodotta dal leader cinese delle telecomunicazioni e vietato ai funzionari di usarne di tipo (...)

 
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La secessione dell'Unione Europea, di Thierry Meyssan


Secondo Thierry Meyssan, il modo in cui Germania e Francia negano al Regno Unito il diritto di uscire dall’Unione Europea dimostra che quest’ultima non è soltanto una camicia di forza. Dimostra altresì che gli europei insistono a preoccuparsi poco dei propri vicini, come accadde per le due guerre mondiali. Evidentemente hanno dimenticato che governare non vuole dire semplicemente difendere gli interessi immediati del proprio Paese, significa avere un orizzonte di ampio respiro e scongiurare conflitti con chi ci sta accanto.
Le popolazioni dell’Unione Europea non sembrano essere consapevoli delle nuvole che si stanno addensando sopra le loro teste. Hanno individuato i gravi problemi della UE, ma li affrontano con disinvoltura e non capiscono cosa c’è in gioco con la secessione britannica, la Brexit. Si stanno inoltrando lentamente in una crisi che potrebbe risolversi solo con la violenza.

L’origine del problema

Con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, i membri della Comunità Europea hanno accettato di piegarsi al volere degli Stati Uniti e hanno ammesso gli Stati dell’Europa Centrale, benché non rispondessero affatto ai criteri logici di adesione. Imboccata questa strada, hanno adottato il Trattato di Maastricht, che ha fatto scivolare il progetto di un coordinamento economico degli Stati europei verso l’idea di uno Stato sovranazionale. Si trattava di creare un vasto blocco politico che, con la protezione militare degli Stati Uniti, si sarebbe avviato insieme a loro sulla via della prosperità.
Questo super-Stato non è per niente democratico. È amministrato da un consesso di alti funzionari, la Commissione, composta da un delegato per ogni Stato dell’Unione, designato dal capo di Stato o di governo del proprio Paese. Mai nella storia si è visto un impero funzionare così. Il modello paritetico della Commissione ha partorito molto presto una gigantesca burocrazia paritaria, dove alcuni Stati sono “più uguali di altri”.
Il disegno di uno Stato sovranazionale si è dimostrato inadeguato al mondo unipolare. La Comunità Europea (CE) era nata dalla branca civile del piano Marshall, di cui la NATO era l’ambito militare.
Le borghesie dell’Europa occidentale, che si sentivano minacciate dal modello sovietico, sostennero la CE sin dal congresso convocato nel 1948 all’Aia da Winston Churchill. Dissolta l’URSS, non avevano più interesse a continuare su questa via.
Gli Stati dell’ex Patto di Varsavia esitavano tra imbarcarsi nell’Unione Europea o allearsi direttamente con gli Stati Uniti. La Polonia, per esempio, acquistò aerei da guerra USA, che utilizzò in Iraq, con il finanziamento della UE per la modernizzazione dell’agricoltura.
Oltre a istituire una cooperazione di polizia e giudiziaria, il Trattato di Maastricht diede vita anche a una moneta e a una politica estera uniche. Tutti gli Stati membri avrebbero adottato l’euro non appena la loro economia lo avesse permesso. Solo Danimarca e Regno Unito intuirono i problemi che sarebbero sorti e ne rimasero fuori. In un mondo unipolare dominato dagli Stati Uniti, la politica estera sembrava non porre problemi.
Considerate le differenze all’interno della zona euro, gli Stati piccoli divennero in breve preda di quello più grosso, la Germania. La moneta unica, che al momento della messa in circolazione era stata allineata al dollaro, si trasformò progressivamente in una versione internazionalizzata del marco tedesco. Non in grado di competere, Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna erano emblematicamente definiti dai mercati finanziari PIGS (maiali). Mentre saccheggiava le loro economie, Berlino propose ad Atene di ristabilirne l’economia in cambio della cessione di parte del suo territorio.
Accadde che l’Unione Europea, pur perseguendo una crescita economica globale, fosse superata da altri Stati il cui sviluppo economico era di parecchie volte più rapido. L’adesione all’Unione Europea, vantaggiosa per i Paesi ex membri del Patto di Varsavia, divenne invece una palla al piede per gli europei dell’Occidente.
Facendo buon uso di quanto insegnato dal fallimento, il Regno Unito decise di ritirarsi dal super-Stato (Brexit) per potersi consociare con gli alleati storici del Commonwealth e, se possibile, con la Cina. La Commissione temette che l’esempio britannico potesse aprire la strada ad altre defezioni, nonché alla fine dell’Unione, pur conservando il Mercato Comune. Decise perciò di stabilire condizioni d’uscita dissuasive.

I problemi interni del Regno Unito

Poiché l’Unione Europea è al servizio dei ricchi contro i poveri, contadini e operai britannici hanno votato per uscirne, il settore terziario per rimanervi.
Come negli altri Paesi europei, anche nella società britannica vi è un’alta borghesia che deve il proprio arricchimento all’Unione Europea, ma, diversamente dagli altri Grandi d’Europa, nel Regno Unito vi è anche una potente aristocrazia. Prima della seconda guerra mondiale essa già godeva dei vantaggi ora procurati dalla UE, nonché di una prosperità che Bruxelles non le può più assicurare. L’aristocrazia ha perciò votato contro l’alta borghesia, ossia per la Brexit, aprendo una crisi all’interno della classe dirigente.
Alla fine, Theresa May fu scelta come primo ministro, pensando che potesse garantire gli interessi degli uni e degli altri (Global Britain). Non è andata così. – In primo luogo, May non è riuscita a concludere un accordo preferenziale con la Cina e incontra difficoltà con il Commonwealth, con cui i legami si sono col tempo allentati. – In secondo luogo, May deve fare i conti con le minoranze scozzese e irlandese, a maggior ragione perché la sua maggioranza include protestanti irlandesi aggrappati ai loro privilegi. – Infine, May deve far fronte alla rimessa in discussione della «relazione speciale» che legava Regno Unito e Stati Uniti.

Il problema che l’avvio della Brexit ha fatto emergere

Dopo aver inseguito invano diversi aggiustamenti dei trattati, il 23 giugno 2016 il Regno Unito ha democraticamente votato per la Brexit. Sorpresa dall’esito del referendum, l’alta borghesia ha tentato immediatamente di rimettere in discussione il risultato. Si parlò di organizzare un secondo referendum, come avvenne con la Danimarca per il Trattato di Maastricht. Poiché questo non è possibile, ora si fa distinzione tra una “Brexit dura” (senza nuovi accordi con la UE) e una “Brexit flessibile” (con la salvaguardia di parecchi impegni). La stampa sostiene che la Brexit sarà una catastrofe economica per i britannici. In realtà, studi anteriori al referendum, nonché a questo dibattito, dimostrano che i primi due anni dopo l’uscita dall’Unione saranno di recessione, ma che il Regno Unito non tarderà a ripartire e a sorpassare l’Unione. L’opposizione al risultato del referendum – nonché alla volontà popolare – vuole dilatare i tempi di applicazione. Il governo ha notificato il ritiro britannico alla Commissione con nove mesi di ritardo, ossia il 29 marzo 2017.
Il 14 novembre 2018 – ovvero due anni e quattro mesi dopo il referendum – Theresa May si è arresa e ha accettato un cattivo accordo con la Commissione Europea. Però, quando lo sottopone al suo governo sette ministri si dimettono, fra cui l’incaricato della Brexit, che evidentemente non conosceva elementi dell’accordo che invece il primo ministro gli attribuisce. Il testo dell’accordo comprende una clausola del tutto inaccettabile per qualunque Stato sovrano: viene fissato un periodo di transizione, la cui durata non è stabilita, in cui il Regno Unito non sarà più considerato membro dell’Unione, ma dovrà sottostare alle sue regole, comprese quelle che saranno adottate in detto periodo.
Dietro questo stratagemma ci sono Germania e Francia.
Appena conosciuto il risultato del referendum, la Germania prese coscienza che la Brexit avrebbe provocato una caduta del PIL di diverse decine di miliardi di euro. Il governo Merkel si applicò quindi non ad adattare l’economia tedesca, bensì a sabotare l’uscita del Regno Unito dall’Unione.
Quanto al presidente francese, Emmanuel Macron rappresenta l’alta borghesia europea, quindi è per sua natura contrario alla Brexit.

Chi c’è dietro i politici

La cancelliera Merkel può contare sull’appoggio del presidente dell’Unione, il polacco Donald Tusk. Effettivamente costui non occupa il posto in quanto ex primo ministro di Polonia, ma per queste due ragioni: la prima è che durante la Guerra Fredda la sua famiglia, che apparteneva alla minoranza casciuba, preferì gli Stati Uniti all’Unione Sovietica, la seconda perché è un amico d’infanzia di Angela Merkel.
Tusk ha iniziato il lavorio d’appoggio alla Merkel ponendo il problema dell’impegno britannico in programmi pluriennali dell’Unione. Se Londra dovesse sborsare quel che s’è impegnata a finanziare, non potrebbe lasciare l’Unione se non versando un indennizzo che oscilla tra i 55 e 60 miliardi di sterline.
L’ex ministro e commissario francese Michel Barnier è stato nominato capo negoziatore con il Regno Unito. Barnier si è già fatto solide inimicizie alla City, che ha maltrattato durante la crisi del 2008. Per di più, i finanzieri britannici sognano di gestire la convertibilità dello yuan cinese in euro.
Barnier ha accettato come sua vice la tedesca Sabine Weyand. È lei in realtà a condurre i negoziati, con l’obiettivo di farli fallire.
Contemporaneamente, l’artefice della carriera di Emmanuel Macron, l’ex capo dell’Ispezione Generale delle Finanze, Jean-Pierre Jouyet, è stato nominato ambasciatore della Francia a Londra. È amico di Barnier, con cui ha gestito la crisi monetaria del 2008. Per far fallire la Brexit, Jouyet si appoggia al leader conservatore dell’opposizione a Theresa May, il presidente della Commissione degli Esteri alla Camera dei Comuni, il colonnello Tom Tugendhat.
Jouyet ha scelto come sua vice la moglie di Tugendhat, l’enarca Anissia Tugendhat.
La crisi si è cristallizzata al summit del Consiglio Europeo di Strasburgo di settembre 2018, in cui Theresa May ha presentato l’accordo che era riuscita a ottenere a casa propria, e che molti altri Paesi avrebbero interesse a prendere come esempio, il piano dei Chequers: mantenere tra le due entità il Mercato Comune, ma non la libera circolazione dei cittadini, dei servizi e dei capitali; non dover più sottostare alla giustizia amministrativa europea del Lussemburgo. Donald Tusk lo respinge bruscamente.
A questo punto è necessario fare un passo indietro. Gli accordi che posero fine alla rivolta dell’IRA contro il colonialismo inglese non hanno risolto le cause del conflitto. Si è avuta la pace solo perché l’Unione Europea ha permesso di abolire la frontiera tra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord. Ora Tusk pretende che, per evitare il rinfocolarsi di questa guerra di liberazione nazionale, l’Irlanda del Nord sia mantenuta nell’Unione Doganale, il che implica la creazione di una frontiera controllata dalla UE, che divide il Regno Unito in due, separando l’Irlanda del Nord dal resto del Paese.
Alla seconda riunione del Consiglio, davanti a tutti i capi di Stato e di governo, Tusk ha fatto chiudere la porta in faccia a May, lasciandola fuori da sola. Un’umiliazione pubblica che non potrà non avere conseguenze.
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Riflessioni sulla secessione dell’Unione Europea

Tutte queste manovre di basso conio indicano l’inclinazione dei dirigenti europei all’inganno. In apparenza, rispettano le regole d’imparzialità e decidono collettivamente per servire l’interesse generale (anche se questo concetto è rifiutato dai soli britannici). In realtà, alcuni difendono gli interessi del proprio Paese a scapito dei loro partner, mentre altri difendono quelli della classe sociale d’appartenenza, a scapito di tutte le altre. Il peggio è certamente il ricatto nei confronti del Regno Unito: che sottostia alle condizioni economiche di Bruxelles, in caso contrario ricomincerà la guerra d’indipendenza dell’Irlanda del Nord.
Questo comportamento finirà col risvegliare i conflitti intra-europei, che già hanno causato le due guerre mondiali; conflitti che l’Unione sul proprio territorio ha mascherato, ma che, irrisolti, persistono fuori dell’Europa.
Lo Stato sovranazionale è diventato a tal punto autoritario che durante i negoziati per la Brexit sono sorti altri tre fronti. La Commissione, su richiesta del parlamento europeo, ha aperto due procedure sanzionatorie contro la Polonia e l’Ungheria, accusate di violazioni sistematiche dei valori dell’Unione; procedure il cui obiettivo è costringere questi due Stati in una posizione analoga a quella cui si vuol costringere il Regno Unito durante il periodo di transizione: essere vincolati al rispetto delle regole dell’Unione, senza tuttavia partecipare alla loro definizione. Inoltre, infastidito dalle riforme che si vogliono attuare in Italia, che contrastano con la sua ideologia, lo Stato sovranazionale rifiuta a Roma il diritto a un bilancio che le permetta di attuare la propria politica.
Il Mercato Comune della Comunità Europea aveva permesso d’instaurare la pace in Europa Occidentale. Il suo successore, l’Unione Europea, ne distrugge l’eredità, mettendo i Paesi membri gli uni contro gli altri.
Traduzione
Rachele Marmetti

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04 dicembre 2018

LE VERITA’ DI GIOACCHINO GENCHI SU VIA D’AMELIO / CHI VESTI’ IL “PUPO” VINCENZO SCARANTINO?


Le verità di Gioacchino Genchi sulla strage di via D'Amelio e il ruolo giocato da Arnaldo La Barbera, l'ex capo del pool investigativo della polizia e poi questore a Palermo. Le ha raccontate davanti alla Commissione Antimafia dell'assemblea regionale siciliana presieduta da Claudio Fava, al lavoro dopo le motivazioni del Borsellino quater, per cercare di far luce su un giallo ancora irrisolto.
Ma chi è Genchi? Un ex poliziotto, per anni diventato il braccio destro di parecchi magistrati di prima linea. Lo fu, in particolare, di Luigi de Magistris, l'attuale sindaco di Napoli e una dozzina d'anni fa impegnato come pm in Calabria, autore delle famose inchieste "Why not " e "Poseidon", che gli vennero "scippate" dall'allora guardasigilli Clemente Mastella (giorni fa è arrivata la sentenza che considera illegittimo quello scippo: ma è ormai troppo tardi…). Genchi svolgeva un ruolo ben preciso: quello di super perito informatico, per passare ai raggi x migliaia e migliaia di intercettazioni telefoniche. I due, Genchi e de Magistris, vennero accusati, allora, di voler spiare mezza Italia.

OCCORREVA "VESTIRE IL PUPO" 

Arnaldo La Barbera. Sopra, Gioacchino Genchi

Torniamo alla strage di via D'Amelio. Genchi faceva parte del ristrettissimo pool di fidati collaboratori di La Barbera, quel "sinedrio" – come oggi lo definisce – per scoprire killer e mandanti dell'eccidio. Genchi, però, a un certo punto esce dal gruppo. Quando? "Quando La Barbera decise di 'vestire il pupo'", dichiara. E cioè di inventare di sana pianta il killer, di 'impupazzare' un mafioso qualunque di periferia trasformandolo nell'assassino perfetto. Organizzando, in questo modo, "il più grande depistaggio della storia italiana", come ha confermato la sentenza del Borsellino quater.
Genchi racconta di una lunghissima conversazione con La Barbera, dalle 19 del 4 maggio 1993 alle 6 del 5 maggio. Una maratona notturna. "Alla fine La Barbera piangeva", commenta Genchi.
Il quale riporta le parole che La Barbera gli avrebbe detto: "Ormai è fatta, due più due fanno quattro, la strage non può che essere responsabilità di Cosa nostra. Noi qui dobbiamo trovare qualche 'elemento minimale', addebitiamo tutto alla Cupola. Così poi io divento questore, tu vieni promosso per meriti straordinari e poi fra 3 o 4 anni diventi questore pure tu". Semplice come bere un biccher d'acqua.
L'"elemento minimale" – secondo la ricostruzione di Genchi – sarebbe stata una nota del Sisde, che metteva insieme il profilo giudiziario di Vincenzo Scarantino – il pupazzo killer – e ne dettagliava tutti i rapporti familiari e le amicizie all'interno delle cosche. La nota è datata 10 ottobre 1992, e a quanto pare la sua stesura sarebbe stata coordinata da Bruno Contrada. Da rammentare che anche La Barbera non solo era un pezzo grosso della polizia, ma era anche uomo dei Servizi, nome di battaglia "Rutilius".
Eccoci alla dichiarazione finale di Genchi: "Hanno individuato falsi colpevoli non per fare carriera o chiudere le indagini, ma per evitare di incastrare i veri autori della strage di via D'Amelio. I veri mandanti".


Bruno Contrada

Invece, nelle precedenti ricostruzioni, si raccontava della smania di La Barbera di diventare questore (cosa che poi accadde) e di sbattere un mostro in prima pagina, far vedere ai cittadini che il colpevole era stato incastrato.
La Barbera, comunque, a questa montagna di fatti e circostanza non può rispondere, perchè è morto il 19 dicembre 2002. Per cui è facile, ora, scaricare tutto su di lui. E parlare solo di lui.


TUTTE LE DOMANDE NON FATTE
C'è un domandone che nessuno, in commissione antimafia, ha fatto a Genchi: ma La Barbera agiva di testa sua, lui e il suo pool? E' normale che un pur potente vertice della polizia possa prendere inziative da solo, caso mai parlando con un amico del Sisde, e poi provvedere in modo del tutto autonomo?
Fino a prova contraria, si trattava di un'inchiesta, che qualche magistrato doveva pur coordinare. Perchè nessuna domanda a Genchi sul ruolo svolto dai magistrati? Poniamo un'ipotesi: La Barbera ha fatto tutto da solo, di sua precisa iniziativa, per motivi misteriosi. Ma allora, cosa ci stavano a fare i magistrati? A prendere la tintarella a Taormina? Semplici soprammobili?
Ipotesi numero due: i magistrati hanno lavorato in "sinergia", come le prassi indicano, con gli investigatori. A questo punto Scarantino è stato scelto di comune accordo, come del resto fa pensare l'immediata presa di posizione di Ilda Boccassini, che inviò una dettagliata e dura missiva ai magistrati inquirenti, mettendoli in guarda dal dare credibilità e affidabilità a Scarantino come pentito.
Come mai nessuno ha dato retta al parere di una toga che di mafia se ne intendeva e se ne intende, come la Boccassini?
Dicevamo: come mai nessuna domanda sui magistrati, tre in tutto, che hanno partecipato alle indagini? E cioè Anna Maria Palma, Carmine Petralia e Nino Di Matteo. Quest'ultimo tende a defilare la sua presenza, sostenendo che è arrivato a inchiesta già iniziata: sì, sei mesi dopo.


Il falso pentito Vincenzo Scarantino

L'unica a chiedere con forza quale preciso ruolo hanno avuto i tre magistrati nel taroccamento del pentito Scarantino è Fiammetta Borsellino, la quale – a proposito di Di Matteo – osserva: "Se era inesperto e alle prime armi perchè lo hanno messo ad indagare su mio padre?".
Ancora. Come mai nessuna domanda all'informatissimo Genchi sul ruolo svolto dall'allora procuratore capo Giovanni Tinebra?
Non è finita. Perchè allo 007 di casa nostra non sono stati chiesti ragguagli circa la storia dell'agenda rossa di Paolo Borsellino, a quanto pare passata di mano in mano, da Giuseppe Ajala a Giovanni Arcangioli, il carabiniere inquisito, processato e scagionato da ogni accusa? E – come racconta la giornalista d'inchiesta Roberta Ruscica, autrice de "I Boss di Stato" – passata anche tra le mani di Anna Maria Palma?
E poi. Come mai Genchi, dopo tanto parlare, non dice qualcosina in più su quei killer o mandanti che La Barbera avrebbe voluto proteggere? Possibile che in quella notte di rimembranze, confidenze & lacrime non gli sia sfuggito qualcosa? E lui stesso, Genchi, una qualche idea se la sarà pur fatta…

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03 dicembre 2018

SOROS / LA STRENUA E CONTINUA DIFESA GRIFFATA REPUBBLICA


Repubblica scende l'ennesima volta in campo per difendere l'onore e il prestigio del "miliardario-filantropo di sinistra", George Soros, una vera icona secondo il quotidiano diretto da Mario Calabresi.
Stavolta la story è incentrata sulla bagarre che si è scatenata negli Usa tra Facebook e lo stesso Soros. Nel mirino dell'inviato speciale in bretelle dagli Usa, Federico Rampini, è finita la numero due di Facebook, Sheril Sandberg, una delle più note giornaliste americane, stimata per le sue qualità investigative.
Ecco cosa scrive il bretellato, riportando quanto riferisce un articolo del New York Times (non si è neanche scomodato più di tanto, Rampini, per scrivere la paginata pro Soros di Repubblica): "Fu lei in persona – scrive il super corrispondente – a commissionare 'fango' su Soros, per il solo fatto che il miliardario-filantropo di sinistra aveva osato criticare Facebook. Tutto ebbe inizio a gennaio, all'ultimo World Economic Forum di Davos. Vi partecipavano sia Sandberg che Soros. Lui criticò pubblicamente Facebook e Google, li definì pericolosi per la democrazia, invocò nuove regole e maggiori controlli sui giganti oligopolisti dell'economia digitale".
Ma eccoci al cuore della singolar tenzone. Riprendono le trombe di Rampini anti Sandberg: "Ma la Sandberg anzichè ripondere nel merito (alle accuse di Soros, ndr), chiese ai suoi collaboratori di indagare su Soros, sui suoi moventi, su eventuali interessi finanziari. Per esempio, se stesse effettuando 'vendite allo scoperto' in Borsa per arricchirsi dopo aver fatto scendere il titolo di Facebook. In cerca di prove per accusarlo di aggiotaggio, insomma: perchè se uno ti critica deve essere un delinquente che ci specula sopra".


Federico Rampini. In alto, Soros

Non basta. Il prode Rampini non ha terminato la genuflessione nei confronti del suo magnate-filantropo: "Soros risultava indigesto da tempo ai vertici dei social media, ma tutte le sue campagne si svolgevano alla luce del sole, per esempio finanziando un'associazione che si chiama 'Free from Facebook' e denuncia da tempo i pericoli di questa rete sociale".
Non è certo finita, ci sono altre cartucce nel cinturone del pistolero Rampini: "Sandberg ha fatto ingaggiare una nota società di relazioni pubbliche legata alla destra repubblicana, Definers Public Affairs, che ha cominciato una campagna anti Soros, rispolverando anche argomenti antisemiti. Proprio come si usa fare nel campo dei suprematisti bianchi, per i quali Soros è il capro espiatorio ideale, il regista del 'complotto giudaico-plutocratico' di hitleriana memoria".
E il tric trac finale: "Quando sul NYT cominciarono ad uscire le prime rivelazioni, Zuckerberg  e l'intero vertice aziendale fecero quadrato intorno alla Sandberg per difenderla. E lei cominciò ad accumulare bugie su bugie".
"La Sandberg sapeva tutto fin dall'inizio e fu la vera regista".
Sorgono spontanee un paio di domande. Sulle 'prodezze' di Soros, a cavallo della sua Open Society Foundation tanto umanitaria, se ne conoscono in dettaglio di tutti i colori e da un bel pezzo.
Dalla narrazione rampiniana, invece, sembra sia tutto spuntato fuori oggi come il cavolo a merenda.
Secondo punto. Ma conosce qualcosa mister Rampini del giornalismo d'inchiesta? Sa che è l'anima della vera informazione, e non i lecchinaggi di palazzo? Cosa c'è di strano se lady Sandberg ha sguinzagliato i suoi reporter a caccia di notizie sulle tante acrobazie finanziarie dal magnate? Sui suoi giganteschi affari? Sulle sue malefatte internazionali? Sa mister Rampini che Soros con una mano finanzia le Ong e con l'altra cerca di divorarsi interi Paesi pezzo pezzo, come da qualche anno sta cercando di fare con la Macedonia, mentre l'Italia potrebbe entrare presto nel suo mirino?
Finalmente qualcuno cerca di alzare i veli sull'impero Soros. Anche se a Rampini non piace…

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LE CONTRADDIZIONI DELL’ANTIFASCISMO – Franco Cardini e Paolo Ercolani



Quanto c’è di fascista nell’antifascismo ormai vuoto di una sinistra che non sa più trovare in se stessa un principio di attrazione identitaria, e si autodefinisce solo come negazione delle identità altrui? È lecito pretendere di contrastare un fenomeno utilizzando lo stesso metodo che lo ha generato?
È questo il tema di “Neofascismo e Antifascismo“, un pamphlet dello storico Franco Cardini che in realtà è un’entrata a gamba tesa nel dibattito sulle grandi ideologie che hanno infuocato il ‘900 (qui per leggerlo).
Libropolis, davanti alle telecamere di Byoblu, se ne è parlato insieme a Paolo Ercolani, filosofo, scrittore, saggista e giornalista. Modera Alessandro Bedini.
Tutti gli interventi di Libropolis ripresi da Byoblu: https://www.youtube.com/playlist?list=PLimc7jftHxGUZveUQQHr1w1Eqa4AYHWjf
Fonte: www.byoblu.com

01 dicembre 2018

[Reseau Voltaire] Les principaux titres de la semaine 30 nov 2018


Réseau Voltaire
Focus




En bref

 
Confirmation de notre version de l'incident de Kertch
 

 
La marine ukrainienne viole l'espace maritime russe
 

 
Les clauses secrètes de l'accord gazier entre Chypre, la Grèce, l'Italie et Israël
 

 
Contre-proposition russe au « Deal du siècle »
 

 
Le mouvement des Gilets jaunes s'étend en France, en Belgique et en Bulgarie
 

 
L'UE créée sa propre école d'espionnage
 

 
La Jordanie tente de relancer le projet d'un acqueduc mer Rouge-mer Morte
 

 
La médiation russe pour l'Iran avec Washington et Tel-Aviv
 
Controverses
Fil diplomatique

 
Discours d'installation du Haut Conseil pour le Climat
 

 
Déclaration de la Russie sur l'incident militaire en Crimée
 

 
Déclaration de la Russie à propos de la mer d'Azov
 

 
Communiqué des ministères des Armées français et allemand relatif au SCAF et au MGCS
 

 

« Horizons et débats », n°26, 26 novembre 2018
Les migrations, armes de guerre
Partenaires, 26 novembre 2018
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