05 ottobre 2018

Rete Voltaire: I principali titoli della settimana 5 ott 2018


Rete Voltaire
Focus




In breve

 
Chi vìola il trattato INF: Washington, Mosca o entrambi?
 

 
I crimini di Gilead Sciences mascherano test del Pentagono?
 

 
Alcuni Stati arabi s'apprestano e riallacciare i rapporti con la Siria
 

 
La Corte Internazionale di Giustizia sospende alcune sanzioni USA contro l'Iran
 

 
Francia-Iran: rilasciato il rappresentante dell'ayatollah Khamenei
 

 
Arresto del rappresentante dell'ayatollah Khamenei in Francia
 

 
Le accuse di Netanyahu contro il Libano smentite dai fatti
 

 
Il Pentagono potrebbe ritirare le forze d'occupazione della Siria
 

 
I macedoni si pronunciano contro l'adesione alla NATO e all'Unione Europea
 

 
La comunicazione di Benjamin Netanyahu
 

 
Lo Stato di Palestina fa ricorso alla Corte Internazionale di Giustizia contro gli Stati Uniti
 

 
ONU: la Siria esorta all'immediato ritiro delle forze d'occupazione USA, francesi e turche
 

 
Washington pronta a far esplodere la Chiesa Ortodossa
 
Controversie

 
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Tesla prepara l’arrivo della Model 3 in Europa



La Tesla Model 3 domina il mercato delle auto elettriche in America e genera numeri così alti da impensierire anche i brand non elettrici. Anche se con un po' di ritardo sulla tabella di marcia a causa dei ben noti problemi di produzione, la "piccola" auto elettrica di Elon Musk si sta preparando per lo sbarco ufficiale in Europa. Tesla, infatti, ha iniziato a produrre i primi lotti di Model 3 con specifiche europee. In realtà, l'attuale modello americano non differisce troppo da quello che arriverà in Europa. La principale differenza, infatti, riguarda la porta per la ricarica.

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04 ottobre 2018

Strage di alberi, Camp Darby si potenzia, di Manlio Dinucci

Dopo la riorganizzazione del 2012, la base USA in Italia di Camp Darby non accoglie più gli ospedali da campo per il Medio Oriente. È diventata sia un vasto magazzino che rifornisce gli empori delle altre basi americane occidentali, sia un gigantesco arsenale. Lungi dall’essere ridimensionato come annunciato, il campo non smette d’ingrandirsi.
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I primi sono già stati tagliati, gli altri marchiati con la vernice: sono 937 gli alberi che vengono abbattuti nell’area naturale «protetta» del Parco Regionale di San Rossore tra Pisa e Livorno. È il primo «danno collaterale» della massiccia riorganizzazione, iniziata in questi giorni, delle infrastrutture di Camp Darby, il più grande arsenale Usa nel mondo fuori dalla madrepatria [1]. Anche se il comando Usa promette di ripiantare più alberi di quelli tagliati, la costruzione di una ferrovia e altre infrastrutture, frammentando gli habitat naturali, sconvolgerà un vasto ecosistema.
Il progetto prevede la costruzione di un nuovo tronco ferroviario che collegherà la stazione di Tombolo (sulla linea Pisa-Livorno) a un nuovo terminal di carico e scarico, attraversando il Canale dei Navicelli su un nuovo ponte metallico girevole. Il terminal di carico e scarico, alto quasi 20 metri, comprenderà quattro binari lunghi 175 metri capaci di accogliere ciascuno nove vagoni per un totale di 36.
Il terminal sarà collegato all’area di stoccaggio delle munizioni (Ammunition Storage Area) con grandi autocarri. Per mezzo di carrelli movimentatori di container, le armi in arrivo verranno trasferite dai carri ferroviari agli autocarri e quelle in partenza dagli autocarri ai carri ferroviari. Il terminal permetterà il transito di due convogli ferroviari al giorno, che collegheranno la base al porto attraverso le normali linee delle Ferrovie dello Stato.
Il piano di riorganizzazione delle infrastrutture, appena iniziato, è dovuto al fatto che, in seguito all’accresciuto transito di armi da Camp Darby, non basta più il collegamento via canale e via strada della base col porto di Livorno e l’aeroporto di Pisa. Nei 125 bunker di Camp Darby, continuamente riforniti dagli Stati uniti, è stoccato (seondo stime approssimative) oltre un milione di proiettili di artiglieria, bombe per aerei e missili, cui si aggiungono migliaia di carrarmati, veicoli e altri materiali militari. Dal marzo 2017, enormi navi fanno mensilmente scalo a Livorno, scaricando e caricando armi che vengono trasportate in continuazione nei porti di Aqaba in Giordania, Gedda in Arabia Saudita e altri scali mediorientali per essere usate dalle forze statunitesi e alleate nelle guerre in Siria, Iraq e Yemen.
Per capire quali siano i pericoli per la popolazione toscana non occorre essere tecnici specializzati. Movimentare in continuazione migliaia di testate esplosive di enorme potenza in un territorio densamente abitato comporta evidenti rischi. Anche se i responsabili del progetto lo definiscono strategico per «la salute dell’uomo e la pubblica sicurezza», non si può escludere un incidente dalle conseguenze catastrofiche. Né si può escludere un sabotaggio o un attacco terroristico per provocare l’esplosione di un intero convoglio ferroviario carico di bombe. Lo conferma il fatto che nel piano è prevista la realizzazione di un secondo terminal che sarà adibito alle operazioni di verifica e ispezione dei «carri sospetti», ossia di quelli su cui potrebbe essere stata installata (ad esempio all’interno di un container) una bomba che, esplodendo a comando, provocherebbe una catastrofica reazione a catena.
Che cosa hanno fatto le istituzioni di fronte a tutto questo? Invece di svolgere le loro funzioni a tutela dei cittadini e del territorio, la Regione Toscana, i Comuni di Pisa e Livorno e l’Ente Parco hanno non solo approvato il potenziamento di Camp Darby, ma hanno contribuito alla sua realizzazione. Le opere civili realizzate negli ultimi anni per progetti di sviluppo economico veri o presunti (ad esempio la cantieristica di lusso) — in particolare i lavori per migliorare la navigabilità del Canale dei Navicelli e i collegamenti ferroviari del porto di Livorno — sono esattamente quelli richiesti da anni dal comando di Camp Darby. Il suo massimo rappresentante, il colonnello Berdy, è stato ricevuto negli ultimi mesi con tutti gli onori dal presidente del Consiglio regionale toscano Giani (Pd), che si è impegnato a promuovere «l’integrazione tra la base militare Usa di Camp Darby e la comunità circostante», dal sindaco di Livorno Nogarin (M5S) e da quello di Pisa Conti (Lega) che hanno espresso sostanzialmente la stessa posizione. Gli alberi del Parco possono essere tagliati e le bombe di Camp Darby possono circolare sul nostro territorio, grazie al consenso multipartisan.

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03 ottobre 2018

Se Foa viene eletto, Vietnam in Rai. Ma i 5 Stelle lo votano?

Nel caso venga eletto presidente della Rai, Marcello Foa dovrà affrontare una guerriglia interna permanente, un vero e proprio Vietnam. Parola di Gianfranco Carpeoro, protagonista all’inizio di agosto di una clamorosa rivelazione: il giornalista, candidato da Salvini, fu stoppato da Berlusconi, che pure aveva già dato il suo ok al leader della Lega. Cos’era accaduto? Un giro di telefonate, innescate da Parigi: il supermassone reazionario Jacques Attali, vicinissimo a Macron, aveva interpellato nientemeno che Giorgio Napolitano, il quale avrebbe consigliato ad Attali – per bloccare l’elezione di Foa – di chiamare il massone Antonio Tajani, presidente del Parlamento Europeo e in grado di premere sul Cavaliere, poi chiamato direttamente dallo stesso Attali. Sia Attali che Napolitano, secondo Gioele Magaldi, militano nella stessa potentissima Ur-Lodge, la “Three Eyes”, a lungo dominata da oligarchi come Kissinger, Brzezinski e Rockefeller. In web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, Carpeoro – avvocato, nonché autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo” – aveva sparato la “bomba” in tono semiserio, attribuendo la notizia a “un sogno”, provocato da una “peperonata indigesta”. «Mi risulta che l’effetto l’abbia avuto, quel “sogno”», dice ora Carpeoro, visto che si riparla di Foa come presidente della Rai.
La vera fonte del “sogno”? La prestigiosa loggia rosacrociana “Tre Globi” di Berlino, alla quale Carpeoro – a sua volta massone, già a capo del Rito Scozzese italiano – è rimasto legato. La sconcertante esternazione d’inizio estate, osserva Frabetti, è stataGianfranco Carpeoro taciuta dai media mainstream (con la sola eccezione del quotidiano “La Verità” diretto da Maurizio Belpietro), ma non è certo passata inosservata ai piani alti del potere. Ex caporedattore del “Giornale” e allievo di Indro Montanelli, Marcello Foa è l’autore del dirompente saggio “Gli stregoni della notizia”, che mette alla berlina il sistema-media, accusato di fabbricare “fake news”. Ora Foa potrebbe dunque salire finalmente sul gradino più alto della nomenklatura Rai? Nel caso, dice Carpeoro sempre in streaming web con Frabetti, non avrà vita facile: se la “Three Eyes”, foss’anche per colpa dell’imbarazzante “sogno della peperonata”, si vedesse costretta a non ostacolare più l’ascesa di Foa, il neo-presidente sarebbe comunque “assediato”, da subito, dall’ostilità accanita dello stesso establishment che sta “braccando” Salvini, tallonato da vasti settori della magistratura. Ma non è detto che Foa riesca davvero a diventare presidente: tecnicamente, secondo Carpeoro, potrebbe addirittura sbattere contro l’ipotetico veto dei 5 Stelle, in sede di commissione parlamentare di vigilanza.
«Chi ha ritenuto che il mio non fosse un sogno ma la verità – dice oggi Carpeoro – può aver pensato che forse, in quel momento, qualcuno lo stesse “sputtanando”». Insomma, la trama della “Three Eyes” era ormai venuta allo scoperto. «Bisogna capire però se l’effetto-sputtanamento è stato solo un modo per guadagnare tempo, per poi vedere di “vendere” in un altro modo il siluramento di Foa, o se invece abbiano proprio deciso di “mollare il colpo”, per poi gestire la faccenda diversamente». Oggi, aggiunge Carperoro, «l’unico modo per silurare ugualmente Foa è premere sui 5 Stelle affinché siano loro a farlo fuori: e quel tipo di potere, questa possibilità ce l’ha». Gli unici che possono affondare la candidatura di Foa, insiste Carpeoro, sono proprio i pentastellati: «Non può più farlo Forza Italia, perché sarebbe una conferma della “peperonata”. Non può farlo Salvini, perché sarebbe una sconfitta troppo grossa, per lui. E non hanno la forza di farlo i vari residui di opposizione». I 5Marcello Foa Stelle, dunque? «Sono gli unici che hanno la possibilità di silurare Foa, ma non so se ne abbiamo la motivazione». Tuttavia potrebbero piegarsi «di fronte a una coercizione grande, da parte di un soggetto come una Ur-Lodge».
Attenzione, precisa Carpeoro: «Non dico che lo vogliano fare o che lo faranno, dico solo che – ex ante – gli unici che hanno questa possibilità sono loro: una possibilità concreta, politica, non necessariamente una volontà o un’inclinazione». Morale, il destino di Foa sembra a un bivio: «O viene silurato dai 5 Stelle adesso, o viene eletto. Ma ovviamente, un secondo dopo l’eventuale elezione, entrerebbe in una specie di Vietnam, di Cambogia, dove qualcuno punterà la clessidra e preparerà un conto alla rovescia». Quanto all’affidabilità dei 5 Stelle, non da oggi lo stesso Carpeoro esprime perplessità – soprattutto sul conto di Luigi Di Maio, che considera esser stato ampiamente “sovragestito” proprio da quel genere di poteri forti evocati dal famoso “sogno della peperonata”. Prima ancora delle elezioni, Carpeoro dichiarò ripetutamente che Di Maio entrava e usciva dall’ambasciata Usa di via Veneto a Roma, e che ad accompagnarlo a Washington nei santuari delle Ur-Lodges neo-aristocratiche fosse il politologo Michael Ledeen. Esponente di vertice della supermassoneria sionista, Ledeen è citato da Giovanni TriaCarpeoro nel suo saggio sui legami fra massoneria e terrorismo islamico targato Isis: lo mette addirittura in relazione all’omicidio del premier svedese Olof Palme, nell’ambito di un opaco circuito di cui facevano parte Licio Gelli e l’allora parlamentare statunitense Philip Guarino.
A evocare nuovamente l’ombra delle Ur-Lodges è anche Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, di cui lo stesso Carpeoro è un autorevole esponente. Magaldi ha attaccato direttamente il ministro dell’economia, Giovanni Tria: «Un massone non dichiarato ma presentatosi come progressista, eppure oggi allineato al rigore europeo promosso dal supermassone neo-aristocratico Draghi, che infatti lo ha apertamente elogiato». Carpeoro invita a fare un passo indietro: «I 5 Stelle – ricorda – hanno subito il siluramento del precedente candidato al ministero dell’economia». Si tratta di Paolo Savona, bloccato dal “niet” di Mattarella. «Quindi – prosegue Carpeoro – Tria è la conseguenza di una scelta di campo che i 5 Stelle hanno condiviso, o sbaglio?». In altre parole: l’accettazione di una linea più morbida con Bruxelles, imposta tramite il Quirinale. «A questo punto – conclude Carpeoro – o cambiano idea, o si tengono Tria. Bisogna capire perché dovrebbero cambiare idea (perché si potrebbero tenere Tria, invece, lo sappiamo già)». Quello di Tria è ovviamente un ruolo di garante: tramite minacce, come l’impennarsi dello spread, «il potere che “sovragestisce” l’Europa ha fatto sapere ai 5 Stelle che, senza la presenza di un suo garante, sarebbe cominciata una specie di guerra totale, contro l’Italia, e quindi è passato Tria». Ora, bisogna vedere se è cambiata la situazione: «I 5 Stelle rivendicheranno una maggiore indipendenza? Io ne dubito». Sarebbe quindi possibile mettere sotto pressione Di Maio e soci, al punto da indurli a boicottare Foa?

02 ottobre 2018

COSI’ MUORE UN QUOTIDIANO primadanoi.it


Quando le candeline diventano un cero: 26 settembre 2005- 26 settembre 2018











ABRUZZO. PrimaDaNoi.it si spegne. E’ l’annuncio che non avremmo mai voluto dare e che da anni abbiamo cercato di allontanare il più possibile, fino a quando resistere non è stato più sufficiente.
Così siamo costretti a fermarci: da oggi non troverete più notizie aggiornate qui.
Il 26 settembre 2005 nasceva il primo quotidiano on line per la regione Abruzzo in un momento in cui la tecnologia era ancora una speranza da queste parti, appena prima dei grandi scandali e in un momento di forti cambiamenti.
Il 26 settembre 2018, 13 anni esatti dopo, dobbiamo fermarci perchè non possiamo più garantire la sostenibilità del quotidiano  e lo facciamo prima di contrarre debiti che non potremo onorare.

E’ la fine di un sogno che si è trasformato in un incubo, poichè spesso siamo diventati noi il nemico di troppi e il bersaglio da colpire.
PrimaDaNoi.it muore per asfissia lentissima: un quotidiano vive di pubblicità ma siamo stati bravini a raccogliere quella nazionale e pessimi a convincere gli imprenditori sotto casa. Chissà perchè...

PrimaDaNoi.it muore per l’isolamento nel quale è stato relegato  solo perchè siamo stati “cattivi” con i potenti e qualche difficoltà (piccolissima) in questi lunghi anni gliela abbiamo pure creata.
PrimaDaNoi.it muore perchè in questa terra, oggi, la verità, l’informazione, il giornalismo d’inchiesta non sono ritenuti ancora beni vitali dal cittadino comune.    

E quindi è  la fine di un ciclo, di una stagione della nostra vita e di qualcosa di impalpabile che c’è e che assomiglia, chissà, forse, ad un punto di riferimento o ad una boccata d’aria.
E’ molto probabile che  tra un paio di mesi anche il sito, con i suoi 500mila articoli di cronaca e inchieste abruzzesi, svanirà nel cimitero digitale e non vi sarà più alcuna traccia di quello che è stato.
Per noi, però, non è una sconfitta: non siamo noi a perdere.
Noi siamo quelli che per 13 anni esatti hanno resistito ad ogni sorta di tempesta, sgambetto o tranello, che hanno nuotato sempre  controcorrente (purtroppo) e hanno combattuto soli contro tutti.

E quello che non ti ammazza, ti spegne: anche se ci è riuscito solo ora.
Lo diciamo chiaramente e urlando perchè rimanga agli atti: la fine di PrimaDaNoi.it è la prova inconfutabile che l’informazione libera, svincolata e indipendente davvero non può esistere, se non per poco.

I patti, invece, sono la via unica anche per un giornale di sopravvivere ed è proprio per questo che non si può essere “indipendenti”, come noi, da tutti; a qualcuno devi pur appoggiarti e fare qualche favore se vuoi che poi ti difenda.

Come direttore mi ritengo l’unico responsabile per aver sempre tenuto una linea editoriale intransigente, improntata solo all’interesse pubblico senza mai farci intralciare da quelli privati (nemmeno i nostri).
La mia è stata una leggerezza imperdonabile ma mai avrei potuto immaginare che il Paese fosse malato a tal punto da trasformare una così preziosa virtù in una sentenza di morte.
Come giornale abbiamo sempre seguito i più alti principi morali (dunque nulla di più antiquato e retrogrado)  e certe cose si pagano, qui ed ora, a caro prezzo.

Quando abbiamo iniziato immaginavamo che sarebbe stato difficilissimo ma non conoscevamo certi biechi meccanismi e certi ingranaggi che poi ci hanno stritolato.

Mai avremmo potuto immaginare, per esempio, di inaugurare una nuova stagione di dittature e censure come quelle avviate dalle ignobili sentenze sul “diritto all’oblio” che, nel 2010, per primi al mondo, ci hanno colpito, e da allora e a causa di quelle  decisioni, il declino è stato inesorabile e ancora più veloce.
Condannati per aver violato una legge che non c’è in nome della privacy che serve per censurare, intimorire e restituire la verginità a qualche delinquente che non ha imparato la lezione.
Siamo stati costretti dal “sistema” ad essere come un soldato in campo aperto senza difese, bersaglio facile da colpire e solo perchè la “Giustizia” l’abbiamo incrociata pochissime volte.
Noi abbiamo cercato di difendere il vostro diritto di conoscere negando la cancellazione di articoli veri e mai diffamatori e ci siamo trovati contro prepotenti e giudici.
Per dirne una, c’è un tizio che da sette anni mi minaccia di morte e profetizza di lasciarmi in mutande: per fortuna si è avverata solo la seconda.

E’ stato un continuo e disgustoso tiro al piccione.

L’informazione seria e le inchieste giornalistiche hanno per noi un carattere sacrale ma costano tanti soldi, molta fatica e svariate conseguenze e noi, da soli, per questi anni ci siamo fatti carico di tutto questo ma ora non siamo più in grado di fronteggiare tutti i rovesci ed i guasti di un Paese degradato.
Non è sbagliato dire, dunque, che le istituzioni sono state complici della nostra condanna a morte.
Grazie a tutti quelli che ci hanno seguito con assiduità, letto con attenzione, che hanno potuto sapere e scoprire l’Abruzzo in questi 13 anni.
Magari che hanno sperato con noi che le cose potessero migliorare.
Da oggi tutti quelli che pensavano a noi per denunciare qualcosa che loro non avevano il coraggio di fare dovranno rivolgersi altrove.
A quelli a cui siamo antipatici e che oggi non sono affranti come noi dico che prima o poi arriva per tutti il momento di avere bisogno di un quotidiano davvero onesto e libero per conoscere o raccontare.  
Noi la nostra parte l’abbiamo fatta.   

Non c’è altro da dire e non ne vale la pena.

Punto.
E basta.      

Alessandro Biancardi

Fermate la prima pagina. Mancano i reporter


La morte di Robert Parry ad inizio anno è parsa un addio all’era dei reporter. Parry è stato “un pioniere del giornalismo indipendente”, ha scritto Seymour Hersh, con cui condivideva molte cose.
Hersh ha svelato il massacro di My Lai in Vietnam e il bombardamento segreto della Cambogia, Parry ha denunciato Iran-Contra, una cospirazione di droga e armi che ha lambito la Casa Bianca. Nel 2016, i due hanno prodotto separatamente prove schiaccianti che il governo di Assad in Siria non aveva usato armi chimiche. Di questo non furono mai perdonati.
Allontanato dal “mainstream”, Hersh è costretto a pubblicare i suoi articoli al di fuori degli Stati Uniti. Parry ha creato un suo sito Web di notizie indipendenti, il Consortium News, in cui, nell’ultimo pezzo scritto dopo aver subito un infarto, fa riferimento a come il giornalismo veneri le “opinioni approvate” mentre “le opinioni non approvate vengono spazzate via o denigrate a prescindere dalla loro qualità”.
Benché il giornalismo sia sempre stato una specie di prolunga dell’ordine costituito, qualcosa è cambiato negli ultimi anni. Il dissenso tollerato quando entrai a far parte di un quotidiano nazionale britannico negli anni ’60 è regredito in una simbolica clandestinità mentre il capitalismo liberale si sta spostando verso una forma di dittatura aziendale. Questo è un cambiamento sismico, con i giornalisti che controllano il nuovo “pensiero di gruppo”, come lo chiamava Parry, divulgandone miti e distrazioni e perseguendone i nemici.
Basta vedere la caccia alle streghe contro rifugiati e immigrati, il volontario abbandono da parte dei fanatici “MeToo” della nostra più antica libertà, la presunzione di innocenza, il razzismo anti-russo, l’isteria anti-Brexit, la crescente campagna anti-Cina e l’insabbiamento di un preavviso di guerra mondiale.
Con molti se non la maggior parte dei giornalisti indipendenti esclusi o espulsi dal “mainstream”, un angolo di Internet è diventato una fonte vitale di divulgazione e analisi basata sulle prove: vero giornalismo. Siti come wikileaks.org, consortiumnews.com, ZNet zcomm.org, wsws.org, truthdig.com, globalresearch.org, counterpunch.org e informationclearinghouse.com sono fonti indispensabili di lettura per chi cerca di dare un senso a un mondo in cui scienza e tecnologia progrediscono splendidamente mentre la vita politica ed economica nelle preoccupanti “democrazie” regredisce dietro la facciata mediatica di uno spettacolo narcisistico.
Cè un solo sito in Gran Bretagna che propone costanti ed indipendenti critiche ai media. È l’eccezionale Media Lens, in parte perché i suoi fondatori, redattori, ed unici scrittori, David Edwards e David Cromwell, fin dal 2001 hanno concentrato lo sguardo non sui soliti sospetti, la stampa dei Conservatori, ma sul modello rispettabile di giornalismo liberale: la BBC, il Guardian, Channel 4 News.
Il loro metodo è semplice. Meticolosi nella ricerca, sono rispettosi ed educati quando chiedono perché un giornalista, lui o lei, ha scritto un articolo fazioso, o non ha svelato fatti essenziali o li ha distorti.
Le risposte che ricevono sono spesso sulla difensiva, e a volte brutali; alcuni (articolisti) diventano isterici, come se si fosse sollevato un coperchio su una specie protetta.
Si può dire che Media Lens abbia frantumato il silenzio riguardo al giornalismo aziendale. Come Noam Chomsky ed Edward Herman in Manufacturing Consent, rappresentano un Quinto Potere che smonta e smitizza il potere dei media.
Per quanto li riguarda, ciò che è particolarmente interessante è che nessuno dei due è giornalista. David Edwards è un ex insegnante e David Cromwell è un oceanografo. Eppure, la loro comprensione della moralità del giornalismo – un termine usato raramente; chiamiamola vera obiettività – è una qualità che esalta i comunicati di Media Lens online.
Penso che il loro lavoro sia eroico e metterei una copia del loro ultimo libro appena pubblicato, Propaganda Blitz, in ogni scuola di giornalismo che fornisce servizi al sistema aziendale, come fanno tutte.
Prendiamo il capitolo Smantellamento del Servizio Sanitario Nazionale, in cui Edwards e Cromwell descrivono il ruolo essenziale dei giornalisti nella crisi che sta affrontando il pionieristico servizio sanitario britannico.
La crisi del NHS [National Health Service, o Servizio Sanitario Nazionale] è il prodotto di una fabbricazione politico-mediatica nota come “austerità”, con il suo linguaggio ingannevole e subdolo di “risparmi di efficienza” (il termine usato dalla BBC per tagliare la spesa pubblica) e “scelte difficili” (la distruzione intenzionale delle fondamenta della vita civile nella Gran Bretagna moderna).
L’ “Austerità” è un’invenzione. La Gran Bretagna è un paese ricco con un debito dovuto dalle sue banche disoneste, non dalla sua gente. Le risorse che avrebbero comodamente finanziato il Servizio Sanitario Nazionale sono state rubate sotto gli occhi di tutti dai pochi autorizzati ad eludere ed evadere miliardi di sterline in tasse.
Usando un vocabolario di eufemismi corporativi, il Servizio Sanitario, finanziato con denaro pubblico, viene volutamente abbattuto dai fanatici del libero mercato per giustificare la sua svendita. Il partito laburista di Jeremy Corbyn potrebbe sembrare contrario, ma lo è veramente? La risposta è, molto probabilmente, no. Poco di tutto ciò è accennato nei media, e tanto meno spiegato.
Edwards e Cromwell hanno esaminato minuziosamente la legge sull’assistenza sanitaria e sociale del 2012, il cui innocuo titolo nasconde le sue catastrofiche conseguenze. La legge, sconosciuta alla maggior parte della popolazione, mette fine all’obbligo legale dei governi britannici di fornire l’assistenza sanitaria universale gratuita: la base su cui il Servizio Sanitario Nazionale [NHS] è stato istituito dopo la seconda guerra mondiale. Le compagnie private ora possono insinuarsi nel NHS, pezzo dopo pezzo.
Dov’era la BBC mentre questo importante progetto di legge stava passando in Parlamento? Si chiedono Edwards e Cromwell. Con un impegno statutario a “fornire un ampio respiro” nell’informare adeguatamente i cittadini su “questioni di ordine pubblico”, la BBC non ha mai informato della minaccia posta a una delle istituzioni più care della nazione. Un titolo della BBC diceva: “La legge che dà potere ai GP [General Practitioners, o Dottori di Base] passa”. Questa è stata pura propaganda di stato.
C’è una sorprendente somiglianza con la copertura della BBC dell’illegale invasione dell’Iraq voluta dal primo ministro Tony Blair nel 2003, che ha prodotto un milione di morti e altrettanti diseredati. Uno studio dell’Università del Galles, a Cardiff, ha rilevato che la BBC rifletteva la linea del governo “in modo schiacciante” mentre sminuiva i resoconti sulla sofferenza dei civili. Uno studio di Media Tenor ha collocato la BBC in fondo ad una lista di emittenti occidentali nella copertura televisiva degli avversari dell’invasione. Il tanto decantato “principio” dell’imprenditoria della corporation non è mai stato preso in considerazione.
Uno dei capitoli più significativi di Propaganda Blitz descrive le campagne diffamatorie congegnate dai giornalisti contro dissidenti, politici anticonformisti e informatori. La campagna del Guardian contro il fondatore di WikiLeaks, Julian Assange, è la più inquietante.
Assange, le cui epiche rivelazioni su WikiLeaks hanno portato fama, premi di giornalismo e regalie al Guardian, è stato abbandonato quando non era più utile. Poi fu sottoposto ad un violento – e vigliacco – assalto mediatico di una specie che raramente ho visto.
Senza un soldo per WikiLeaks, un libro del Guardian ha portato ad un redditizio accordo cinematografico con Hollywood. Gli autori del libro, Luke Harding e David Leigh, descrivono arbitrariamente Assange come individuo dalla “personalità danneggiata” e “insensibile”. Hanno anche svelato la password segreta che lui aveva dato al giornale in confidenza, progettata per proteggere un file digitale contenente i cablogrammi dell’ambasciata americana.
Con Assange ora intrappolato nell’ambasciata ecuadoriana, Harding, fuori tra gli agenti di polizia, gongolava sul suo blog che “Scotland Yard potrebbe avere l’ultima risata”.
L’opinionista del Guardian, Suzanne Moore, ha scritto: “Scommetto che Assange si sta rimpinzando di porcellini d’india, è proprio un enorme stronzo”.
Moore, che si professa femminista, si è in seguito lamentata del fatto che, dopo aver attaccato Assange, avesse subito “ignobili abusi”. Edwards e Cromwell le hanno scritto: “È un vero peccato, ci spiace sentirlo, ma come descriverebbe il chiamare qualcuno ‘enorme stronzo’? Ignobile abuso?”.
Moore rispose di no, aggiungendo: “Vi consiglierei di smettere di essere così dannatamente paternalisti”.
Il suo ex collega del Guardian James Ball scrisse: “È difficile immaginare la puzza dell’ambasciata ecuadoregna a Londra più di cinque anni e mezzo dopo che Julian Assange si è trasferito lì”.
Tale ottusa malvagità appariva su di un giornale descritto dalla sua editrice, Katharine Viner, come “ponderato e progressista”. Qual è la radice di questa vendicatività? È la gelosia, un riconoscimento perverso che Assange ha ottenuto più primati giornalistici di quanti ne possano vantare i suoi cecchini in una vita? È lui che si rifiuta di essere “uno di noi” e svergogna chi ha da tempo venduto l’indipendenza del giornalismo?
Gli studenti di giornalismo dovrebbero analizzare tutto ciò per capire che la fonte delle “bufale” non è solo il trollismo, o il tipo di notizie alla Fox, o Donald Trump, ma un giornalismo auto-referenziale con una falsa rispettabilità: un giornalismo liberale che finge di sfidare il corrotto potere statale ma che, in realtà, lo corteggia, protegge e collude con esso. L’amoralità degli anni di Tony Blair, che il Guardian non è riuscito a riabilitare, ne è l’eco.
“[È] un’era in cui le persone desiderano nuove idee e nuove alternative”, ha scritto Katharine Viner. Il suo scrittore politico Jonathan Freedland ha bollato il desiderio dei giovani che hanno sostenuto le modeste politiche del leader laburista Jeremy Corbyn come “una forma di narcisismo”.
“Come ha fatto quest’uomo…”, ha ragliato Zoe Williams del Guardian, “ad ottenere il ballottaggio?” Un coro di precoci ciarlatani del giornale si unì a lei, dopo di che si accodò per cadere sulle proprie spade spuntate quando Corbyn per poco non vinceva le elezioni generali del 2017 nonostante i media.
Storie complicate sono riportate in una formula quasi settaria di pregiudizi, dicerie e omissioni: Brexit, Venezuela, Russia, Siria. In Siria, solo le indagini di un gruppo di giornalisti indipendenti sono andate contro corrente, rivelando la rete di sostegno anglo-americano ai jihadisti, compresi quelli collegati all’ISIS.
L’obiettivo, favorito da una campagna “psyops” finanziata dal Foreign Office britannico e dall’Agenzia statunitense per l’aiuto internazionale, è quello di ingannare il pubblico occidentale e accelerare il rovesciamento del governo di Damasco, a prescindere dall’alternativa medievale e dal rischio di guerra con la Russia.
La campagna di Siria, istituita da un’agenzia di Pubbliche Relazioni di New York chiamata Purpose, finanzia un gruppo noto come i Caschi Bianchi, che falsamente afferma di essere “la Difesa Civile della Siria” e che viene visto acriticamente sui notiziari televisivi e sui social media mentre sta in apparenza salvando vittime di bombardamenti, che filmano e modificano essi stessi, anche se è improbabile che ciò sia detto agli spettatori. George Clooney è un loro fan.
I Caschi Bianchi sono appendici dei jihadisti con cui condividono i recapiti. Le loro belle uniformi e attrezzature sono fornite dai loro finanziatori occidentali. Che le loro “imprese” non siano messe in discussione dalle principali agenzie di stampa è un’indicazione di quanto sia profonda l’influenza nei media del PR di stato. Come Robert Fisk ha notato di recente, nessun reporter “mainstream” riferisce sulla Siria, dalla Siria.
In ciò che pare come una severa critica, una reporter del Guardian con sede a San Francisco, Olivia Solon, che non ha mai visitato la Siria, è stata autorizzata a diffondere il lavoro investigativo sostenuto dai giornalisti Vanessa Beeley e Eva Bartlett sui Caschi Bianchi come “diffuso online da una rete di attivisti anti-imperialisti, teorici della cospirazione e troll con il sostegno del governo russo”.
Questo abuso è stato pubblicato senza consentire una singola correzione, per non parlare del diritto di risposta. La pagina dei commenti del Guardian è stata bloccata, come documentato da Edwards e Cromwell. Ho visto la lista di domande che Solon ha mandato a Beeley, che si legge come un foglio di denuncia alla McCarthy: “Sei mai stata invitata in Corea del Nord?”.
Gran parte del [giornalismo] mainstream è sceso a questo livello. Il soggettivismo è tutto; slogan e indignazione sono una prova sufficiente. Ciò che conta è la “percezione”.
Il generale David Petraeus, quando era comandante dell’esercito USA in Afghanistan, dichiarò quella che chiamava “una guerra di percezione … condotta continuamente usando i mezzi di informazione”. Ciò che veramente importava non erano i fatti, ma il modo in cui venivano raccontati negli Stati Uniti. Il nemico non dichiarato era, come sempre, un pubblico informato e critico a casa.
Nulla è cambiato. Negli anni ’70 incontrai Leni Riefenstahl, la regista di Hitler, la cui propaganda incantò il pubblico tedesco.
Mi disse che i “messaggi” dei suoi film non dipendevano da “ordini dall’alto”, ma dal “vuoto sottomesso” di un pubblico disinformato.
“Questo includeva la borghesia liberale e istruita?” Chiesi.
“Tutti” disse lei. “La propaganda vince sempre, se glielo permetti.”
John Pilger
Fonte: comedonchisciotte.org 

01 ottobre 2018

Savona all’Ue: più deficit salva-Stati e una Bce anti-spread

O l'Eurozona diventa una vera unione monetaria, con la Bce che garantisce sempre e comunque i debiti degli Stati membri, o la valuta comune rischia il collasso. Accusato di voler uscire dall'euro per l'aver sottolineato la necessità di una "exit strategy" qualora si materializzi lo scenario peggiore, il ministro agli affari europei ci tiene a chiarire una volta per tutte che la sua nomea di euroscettico è una distorsione e che, anzi, per lui «la moneta unica è indispensabile per il buon funzionamento di un mercato unico». Ma perché l'euro sopravviva, l'Europa deve cambiarne il funzionamento, traendo le opportune lezioni dal disastro greco. È questo il famoso "piano A" di Paolo Savona, che ha inviato a Bruxelles un documento dal titolo "Una politeia per un'Europa diversa, più forte e più equa". Politeia, termine che in greco antico indica la comunità di cittadini e il suo legame con lo Stato, non le pure e semplici istituzioni o le norme che esse applicano. Una parola scelta non a caso, per sottolineare la necessità di rinsaldare quel legame tra politica comunitaria e società che in questi anni si è lacerato fino a innescare un risorgere dei nazionalismi. Ma cosa significa in concreto?

Savona, spiega "Milano Finanza", chiede di «istituire un gruppo di lavoro ad alto livello, composto dai rappresentanti degli Stati membri, del Parlamento e della Commissione, che esamini la rispondenza dell'architettura istituzionale europea vigente Paolo Savona, il ministro che Mattarella non volevae della politica economica con gli obiettivi di crescita nella stabilità e di piena occupazione esplicitamente previsti nei trattati», con lo scopo di «sottoporre al Consiglio Europeo, prima delle prossime elezioni, suggerimenti utili a perseguire il bene comune». Savona ha già le idee chiare sui mutamenti necessari. Bce prestatore di ultima istanza: «I divieti posti alla Bce di muoversi in aiuto degli Stati hanno creato condizioni favorevoli alla speculazione, che ha imperversato anche quando questi Stati si comportavano secondo gli impegni. Hanno fatto gravare sulle loro economie costi aggiuntivi in termini di interessi sul debito pubblico e sul credito. Se i poteri di intervento della Bce contro la speculazione fossero veramente pieni, gli spread tra rendimenti dei titoli sovrani si dovrebbero azzerare». Savona vuole in sostanza una banca centrale che, come ogni altra omologa a partire dalla Fed americana, abbia il potere illimitato di garantire il debito delle nazioni, evitando differenziali del costo del debito tra paesi che condividono la stessa valuta.

Tetto del deficit non più fisso: «Le regole dei disavanzi pubblici non hanno previsto alcuna correzione strutturale delle bilance dei pagamenti correnti, privando il sistema europeo di una rilevante componente di domanda e aggravando la tendenza alla deflazione. Servono investimenti pubblici consistenti, a livello di Unione e di singoli Stati, rispettando una sola regola aurea: la percentuale di disavanzo del bilancio non deve essere superiore al saggio di crescita nominale del Pil che ne risulta». In sostanza, il tetto del massimo rapporto stabilito tra deficit e Pil non dovrà essere fissato al 3% ma oscillerà a seconda della crescita dell'economia. Ma se i paesi più virtuosi temessero così di dover pagare per chi sfora? «Esistono le soluzioni tecniche per garantire che ciò non avvenga. Si tratta di attivarle in pratica effettuando scelte politiche, come quella di concordare un piano di rimborsi a lunghissima scadenza e ai tassi ufficiali praticati, fornendo una garanzia alla Bce fino al rientro nel parametro del 60% rispetto al Pil, in contropartita di una ipoteca sul gettito fiscale futuro o di proprietà pubbliche in caso di mancato rimborso di una o più rate. Ovviamente tra le clausole di un siffatto accordo vi sarebbe anche quella che il disavanzo di bilancio pubblico si collochi in modo dinamico entro la regola indicata di coerenza rispetto al saggio di crescita nominale del Pil e quindi non comporti un nuovo superamento del rapporto debito pubblico/Pil».

("Savona ha presentato all'Europa il suo Piano-A", dal sito dell'agenzia di stampa Agi; post editato il 13 settembre 2018).

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