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14 giugno 2019

La verità raccontata da Andrew Wakefield – Diretta Byoblu da Padova


In esclusiva su Byoblu, arriva la diretta streaming di un evento molto atteso: per la prima volta in Italia, Andrew Wakefield, il dottore londinese che nel 1998, con uno studio scientifico pubblicato su The Lancet, osò mettere in dubbio la pratica delle vaccinazioni di massa. Il suo articolo gli costò la radiazione dall’Ordine dei medici e la gogna mediatica dell’informazione mainstream, ma le sue ragioni, raccontate in prima persona, sono in pochi a conoscerle.
Grazie all’impegno dell’associazione Corvelva potremo ascoltare direttamente dalla voce dell’uomo più odiato dall’establishment farmaceutico e scientifico internazionale, il dottor Andrew Wakefield, quale sia la sua versione di questo lungo, triste capitolo di una storia che riguarda da vicino la salute dei nostri bambini, ed avere così un quadro più obiettivo su quello che si nasconde dietro a uno dei più grossi scandali del XX secolo.

10 giugno 2019

La punizione finale di Julian Assange ricorda ai giornalisti che il loro lavoro è scoprire quello che lo stato tiene nascosto


Se faremo il nostro lavoro, renderemo pubblica quella stessa, vile menzogna dei nostri governanti che ha causato questo rigurgito di odio verso Assange, Manning e Snowden.
Comincio ad essere un po’ stanco dello US Spionage Act. Del resto, è  molto tempo che sono anche abbastanza stufo della saga di Julian Assange e di Chelsea Manning. Nessuno vuole parlare delle loro personalità perché sembra che a nessuno vadano molto a genio queste due persone, anche a chi aveva giornalisticamente tratto vantaggio dalle loro rivelazioni.
Sin dall’inizio, ero preoccupato dell’effetto Wikileaks, non sui brutali governi occidentali, le cui attività aveva rivelato con precisione sconvolgente (specialmente in Medio Oriente) ma sulla pratica del giornalismo. Quando Wikileaks aveva offerto a noi scribi questo piatto di minestra, ci eravamo saltati dentro, avevamo remato e schizzato le pareti del racconto con le nostre grida di orrore. E avevamo dimenticato che il vero giornalismo investigativo riguarda la costante ricerca della verità attraverso le proprie fonti personali, piuttosto che scodellare davanti ai lettori una vagonata di segreti, segreti che Assange e gli altri (e non noi) avevano scelto di rendere pubblici.
Come mai, ricordo di essermi chiesto quasi 10 anni fa, potevamo leggere le indiscrezioni su tanti Arabi o Americani, ma su così pochi Israeliani? Chi stava in realtà mescolando la zuppa che avremmo dovuto mangiare? Che cosa era stato lasciato fuori dal pastone?
Ma gli ultimi giorni mi hanno convinto che c’è qualcosa di molto più ovvio riguardo l’arresto di Assange e la nuova incarcerazione della Manning. E non ha nulla a che fare con il tradimento,  l’infedeltà o con qualsiasi altra presunta catastrofica minaccia alla nostra sicurezza.
Sul Washington Post di questa settimana, c’è un pezzo di Marc Theissen, un’ex scrittore di discorsi della Casa Bianca che aveva difeso l’uso della tortura da parte della CIA come “legale e moralmente giusta,” che ci informa che Assange “non è un giornalista. È una spia … Si è impegnato nello spionaggio contro gli Stati Uniti. E non ha rimorsi per il male che ha fatto.” Così facendo dimentica che la pazzia di Trump ha già fatto diventare un passatempo la tortura e le relazioni segrete con i nemici dell’America.
No, non penso che tutto questo abbia qualcosa a che fare con l’uso dello Spionage Act (per quanto gravi siano le sue implicazioni per i normali giornalisti) o i “rispettabili organismi di informazione,” come Thiessen stucchevolmente ci definisce. Né ha molto a che fare con i pericoli che queste rivelazioni avrebbero fatto correre agli agenti assoldati localmente in America e in Medio Oriente. Ricordo bene quanto spesso gli interpreti iracheni [che lavoravano] per le forze statunitensi ci dicessero di aver richiesto i visti [di espatrio] per loro e le loro famiglie quando erano stati minacciati in Iraq, e come alla maggior parte di loro fosse stato risposto che la cosa era impossibile. Noi Inglesi abbiamo trattato molti dei nostri traduttori iracheni con la stessa indifferenza.
Perciò dimentichiamo, solo per un momento, il massacro dei civili, la letale crudeltà dei mercenari statunitensi (alcuni coinvolti in traffici di bambini), l’uccisione dello staff della Reuters da parte delle truppe americane a Baghdad, l’esercito di innocenti detenuto a Guantanamo, la tortura, le bugie ufficiali, le false cifre delle vittime, le menzogne ​​dell’ambasciata, l’addestramento americano dei torturatori egiziani e tutti gli altri crimini scoperti dal lavoro di Assange e Manning.
Supponiamo che ciò che avevano rivelato fossero state cose buone, piuttosto che cattive, che i documenti diplomatici e militari fornissero un fulgido esempio di una nazione grande e specchiata e fossero la prova di quegli ideali nobilissimi e risplendenti che la terra dei liberi ha sempre fatto suoi. Facciamo finta che le forze statunitensi in Iraq avessero ripetutamente rischiato la vita per proteggere i civili, che avessero denunciato le torture dei loro alleati, che avessero trattato i detenuti di Abu Ghraib (molti di loro completamente innocenti) non con crudeltà sessuale ma con rispetto e gentilezza; che avessero privato del potere i mercenari e li avessero riportati in catene negli Stati Uniti; che si sentissero in debito, anche solo per scusarsi, per tutti quegli uomini, donne e bambini che avevano fatto una fine prematura nella guerra in Iraq.
Meglio ancora, pensiamo per un momento a come avremmo potuto reagire alla rivelazione che gli Americani non avevano ucciso quelle decine di migliaia di persone, che non avevano mai torturato neanche un’anima, che i detenuti di Guantanamo, tutti quanti, erano senza ombra di dubbio pluriomicidi razzisti, sadici, codardi, xenofobi, e le prove dei loro crimini contro l’umanità validate di fronte ai tribunali più imparziali del mondo. Immaginiamo persino per un momento che l’equipaggio dell’elicottero americano che aveva falciato 12 civili in una strada di Baghdad non li avesse “eliminati” con le sue mitragliatrici. Immaginiamo che la voce alla radio dell’elicottero avesse detto: “Aspetta, penso che quei ragazzi siano dei civili, e quel fucile potrebbe essere solo una telecamera. Non sparare!
Come tutti sappiamo, questa è una fuga dalla realtà. Perchè quello che rappresentavano queste centinaia di migliaia di documenti era la vergogna dell’America, dei suoi uomini politici, dei suoi soldati, dei suoi torturatori, dei suoi diplomatici.
C’era persino un elemento di farsa che, sospetto, aveva fatto infuriare tutti i Thiess di questo mondo ancor più delle rivelazioni più terribili. Ricorderò sempre lo sdegno espresso da Hillary Clinton quando era stato rivelato che aveva mandato i suoi scagnozzi a spiare all’interno delle Nazioni Unite; i suoi schiavi al Dipartimento di Stato avevano dovuto studiarsi i dettagli della crittografia usata dai vari delegati, le transazioni con carte di credito, persino le tessere dei frequent flyer. Ma chi, al mondo, vorrebbe sprecare il proprio tempo a studiare tutte le sciocchezze dell’assolutamente incompetente staff delle Nazioni Unite? O, per quel che importa, chi alla CIA aveva sprecato il suo tempo ascoltando le conversazioni telefoniche private di Angela Merkel con Ban Ki Moon?
Uno dei cablogrammi divulgati da Assange risale alla rivoluzione iraniana del 1979 e riguarda l’opinione di Bruce Laingen sul fatto che “la psicologia persiana è prioritariamente egocentrica.” Interessante, ma gli studenti iraniani avevano faticosamente rimesso insieme tutti i trucioli dei documenti triturati dell’ambasciata americana a Teheran negli anni successivi al 1979, e avevano già pubblicato le parole di Laingen decenni prima che Wikileaks ce le facesse avere. Talmente enorme era stato il primo rilascio da 250.000 documenti (che Hillary  aveva denunciato come “un attacco alla comunità internazionale,” mentre ancora oggi li chiama “documenti presunti,” come se fossero dei falsi) che pochi avevano potuto verificare cosa ci fosse di nuovo e cosa di vecchio. Così il New York Times si era affrettato a sottolineare la citazione di Laingen come se fosse stato di uno scoop straordinario.
Parte del materiale non era così ovvio prima [della sua divulgazione], il suggerimento che la Siria avesse permesso ai ribelli antiamericani provenienti dal Libano di attraversare il suo territorio, per esempio, era assolutamente corretto, ma le “prove” degli attentati dinamitardi iraniani nel sud dell’Iraq erano molto più dubbiose. Questa storia era già stata felicemente passata al New York Times dai funzionari del Pentagono nel febbraio 2007, per essere poi riproposta in anni più recenti, ma erano quasi tutte stupidaggini. Di equipaggiamento militare iraniano ce n’era in giro in tutto l’Iraq fin dalla guerra Iran-Iraq del 1980-88 e la maggior parte degli attentatori che ne avevano fatto uso erano musulmani sunniti iracheni.
Ma questo è andare a cercare il pelo nell’uovo in quella montagna di carte. Una simile stupidaggine è insignificante in confronto alle mostruose rivelazioni sulla crudeltà americana; il resoconto, ad esempio, di come le truppe statunitensi avessero ucciso quasi 700 civili, tra cui donne incinte e malati di mente, solo per essersi avvicinati troppo ai loro posti di blocco. E le istruzioni alle forze statunitensi (questo frammento di narrativa è di Chelsea Manning) di non indagare quando i loro alleati militari iracheni frustavano i prigionieri con grossi cavi, li lasciavano appesi a ganci pendenti dal soffitto, gli bucavano le gambe con trapani elettrici e li violentavano. Nella valutazione segreta da parte degli USA su 109.000 morti in Iraq e Afghanistan (una grossolana sottostima), 66.081 erano stati ufficialmente classificati come non combattenti. Quale, mi chiedo, sarebbe stata la reazione americana di fronte all’uccisione di 66.000 cittadini statunitensi, 20 volte più delle vittime dell’11 settembre?
Naturalmente, noi non avremmo dovuto sapere niente di tutto questo. E si può capire perché no. Il peggio di questo materiale era segreto non perché fosse scivolato accidentalmente in una cartellina di un’amministrazione militare contrassegnata con “riservato” o “strettamente confidenziale,” ma perché rappresentava la copertura di un crimine di stato su vasta scala.
I responsabili di queste atrocità dovrebbero ora essere processati, estradati da qualunque luogo si nascondano e imprigionati per i loro crimini contro l’umanità. Ma no, noi stiamo punendo chi queste notizie le aveva divulgate, per quanto commoventi, a nostro avviso, fossero le loro motivazioni.
Certo, noi giornalisti, noi gente delle “rispettabili agenzie di informazione,” possiamo preoccuparci delle implicazioni di tutto questo perché riguarda la nostra professione. Ma, molto meglio, potremmo dare la caccia ad altre verità, ugualmente spaventose per l’autorità. Perché non scoprire, per esempio, cosa ha detto Mike Pompeo in privato a Mohammed bin Salman? Quali velenose promesse potrebbe aver fatto Donald Trump a Netanyahu? Quali relazioni segrete gli Stati Uniti intrattengono ancora con l’Iran, perché hanno persino mantenuto importanti contatti, saltuari, silenziosi e riservati, con elementi del governo siriano?
Perché aspettare 10 anni per il prossimo Assange che ci scaricherà un’altra camionata di segreti di stato?
Ma c’è il solito campanello d’allarme: quello che scopriremo attraverso i metodi del vecchio giornalismo convenzionale delle suole consumate a forza di camminare, delle storie che vengono fuori da gole profonde o da contatti fidati, rivelerà, se faremo il nostro lavoro, la stessa vile menzogna dei nostri padroni che ha provocato questo rigurgito di odio verso Assange e Manning e, indubbiamente, Edward Snowden. Non verremo chiamati in giudizio perché l’incriminazione di questi tre costituisce un pericoloso precedente legale. Ma saremo perseguitati per le stesse ragioni: perché ciò che riveleremo dimostrerà oltre ogni dubbio che i nostri governi e quelli dei nostri alleati commettono crimini di guerra e i responsabili di queste iniquità cercheranno di farcela pagare per questa indiscrezione con una vita dietro le sbarre.
La vergogna e la paura di dover condividere la responsabilità di ciò che era stato fatto dalle nostre autorità preposte alla “sicurezza,” non il fatto che chi aveva divulgato le notizie avesse violato la legge, ecco di che cosa si tratta.
Robert Fisk
Fonte: www.independent.co.uk

Tradotto da Markus per comedonchisciotte.org

03 giugno 2019

BILDERBERG 2019 / IL GRAN RITORNO DI MATTEO RENZI


Al via l'annuale summit dei Bilderberg, quartier generale stavolta nella sontuosa cornice di Montreux, in Svizzera.
Dal 30 maggio al 2 giugno si riuniranno 130 vip di mezzo mondo, provenienti per la precisione da 23 paesi. Quest'anno vengono spente 67 candeline, il primo meeting risale al 1954 e venne organizzato da un ex colonnello delle SS in Olanda.
Un vero minestrone di argomenti sui tavoli di lavoro, dalla Brexit alla Cina, dai media alle nuove tecnologie e ai cambiamenti climatici.


Henry Kissinger. In apertura Matteo Renzi, Stefano Feltri e, al centro, Lilli Gruber

Storicamente al summit Bilderberg vengono tracciati gli scenari e i percorsi mondiali, ovviamente sempre dalla parte dei potenti della Terra -pezzi da novanta del mondo economico, politico e soprattutto finanziario – che mettono in campo tecniche & strategie per mangiare a pezzi e bocconi questo o quel paese, questa o quella economia.
Una sorta di "sistema Soros" allargato.

Va segnalata la presenza dell'immarcescibile ex segretario di stato Usa Henry Kissinger.

Stavolta la pattuglia italiana è ridotta al lumicino. Solitamente sono una dozzina i nostri papaveri ed è nutrita la pattuglia di giornalisti.
Non così questa volta. Resiste una decana di Bilderberg, Lilli Gruber, mentre si registra la new entry, a livello mediatico, di Stefano Feltri de Il Fatto quotidiano.
Ma la vera sorpresa è rappresentata dall'ex premier Matteo Renzi: un trampolino, quello svizzero, di rilancio?

A seguire potete leggere i nomi di tutti i partecipanti ufficiali.

BOARD
Castries, Henri de (FRA), Chairman, Steering Committee; Chairman, Institut Montaigne
Kravis, Marie-Josée (USA), President, American Friends of Bilderberg Inc.; Senior Fellow, Hudson Institute
Halberstadt, Victor (NLD), Chairman Foundation Bilderberg Meetings; Professor of Economics, Leiden University
Achleitner, Paul M. (DEU), Treasurer Foundation Bilderberg Meetings; Chairman Supervisory Board, Deutsche Bank AG
PARTICIPANTS
Abrams, Stacey (USA), Founder and Chair, Fair Fight
Adonis, Andrew (GBR), Member, House of Lords
Albers, Isabel (BEL), Editorial Director, De Tijd / L'Echo
Altman, Roger C. (USA), Founder and Senior Chairman, Evercore
Arbour, Louise (CAN), Senior Counsel, Borden Ladner Gervais LLP
Arrimadas, Inés (ESP), Party Leader, Ciudadanos
Azoulay, Audrey (INT), Director-General, UNESCO
Baker, James H. (USA), Director, Office of Net Assessment, Office of the Secretary of Defense
Balta, Evren (TUR), Associate Professor of Political Science, Özyegin University
Barbizet, Patricia (FRA), Chairwoman and CEO, Temaris & Associés
Barbot, Estela (PRT), Member of the Board and Audit Committee, REN (Redes Energéticas Nacionais)
Barroso, José Manuel (PRT), Chairman, Goldman Sachs International; Former President, European Commission
Barton, Dominic (CAN), Senior Partner and former Global Managing Partner, McKinsey & Company
Beaune, Clément (FRA), Adviser Europe and G20, Office of the President of the Republic of France
Boos, Hans-Christian (DEU), CEO and Founder, Arago GmbH
Bostrom, Nick (UK), Director, Future of Humanity Institute, Oxford University
Botín, Ana P. (ESP), Group Executive Chair, Banco Santander
Brandtzæg, Svein Richard (NOR), Chairman, Norwegian University of Science and Technology
Brende, Børge (NOR), President, World Economic Forum
Buberl, Thomas (FRA), CEO, AXA
Buitenweg, Kathalijne (NLD), MP, Green Party
Caine, Patrice (FRA), Chairman and CEO, Thales Group
Carney, Mark J. (GBR), Governor, Bank of England
Casado, Pablo (ESP), President, Partido Popular
Ceviköz, Ahmet Ünal (TUR), MP, Republican People's Party (CHP)
Champagne, François Philippe (CAN), Minister of Infrastructure and Communities
Cohen, Jared (USA), Founder and CEO, Jigsaw, Alphabet Inc.
Croiset van Uchelen, Arnold (NLD), Partner, Allen & Overy LLP
Daniels, Matthew (USA), New space and technology projects, Office of the Secretary of Defense
Davignon, Etienne (BEL), Minister of State
Demiralp, Selva (TUR), Professor of Economics, Koç University
Donohoe, Paschal (IRL), Minister for Finance, Public Expenditure and Reform
Döpfner, Mathias (DEU), Chairman and CEO, Axel Springer SE
Ellis, James O. (USA), Chairman, Users' Advisory Group, National Space Council
Feltri, Stefano (ITA), Deputy Editor-in-Chief, Il Fatto Quotidiano
Ferguson, Niall (USA), Milbank Family Senior Fellow, Hoover Institution, Stanford University
Findsen, Lars (DNK), Director, Danish Defence Intelligence Service
Fleming, Jeremy (GBR), Director, British Government Communications Headquarters
Garton Ash, Timothy (GBR), Professor of European Studies, Oxford University
Gnodde, Richard J. (IRL), CEO, Goldman Sachs International
Godement, François (FRA), Senior Adviser for Asia, Institut Montaigne
Grant, Adam M. (USA), Saul P. Steinberg Professor of Management, The Wharton School, University of Pennsylvania
Gruber, Lilli (ITA), Editor-in-Chief and Anchor "Otto e mezzo", La7 TV
Hanappi-Egger, Edeltraud (AUT), Rector, Vienna University of Economics and Business
Hedegaard, Connie (DNK), Chair, KR Foundation; Former European Commissioner
Henry, Mary Kay (USA), International President, Service Employees International Union
Hirayama, Martina (CHE), State Secretary for Education, Research and Innovation
Hobson, Mellody (USA), President, Ariel Investments LLC
Hoffman, Reid (USA), Co-Founder, LinkedIn; Partner, Greylock Partners
Hoffmann, André (CHE), Vice-Chairman, Roche Holding Ltd.
Jordan, Jr., Vernon E. (USA), Senior Managing Director, Lazard Frères & Co. LLC
Jost, Sonja (DEU), CEO, DexLeChem
Kaag, Sigrid (NLD), Minister for Foreign Trade and Development Cooperation
Karp, Alex (USA), CEO, Palantir Technologies
Kerameus, Niki K. (GRC), MP; Partner, Kerameus & Partners
Kissinger, Henry A. (USA), Chairman, Kissinger Associates Inc.
Koç, Ömer (TUR), Chairman, Koç Holding A.S.
Kotkin, Stephen (USA), Professor in History and International Affairs, Princeton University
Kramp-Karrenbauer, Annegret (DEU), Leader, CDU
Krastev, Ivan (BUL), Chairman, Centre for Liberal Strategies
Kravis, Henry R. (USA), Co-Chairman and Co-CEO, Kohlberg Kravis Roberts & Co.
Kristersson, Ulf (SWE), Leader of the Moderate Party
Kudelski, André (CHE), Chairman and CEO, Kudelski Group
Kushner, Jared (USA), Senior Advisor to the President, The White House
Le Maire, Bruno (FRA), Minister of Finance
Leyen, Ursula von der (DEU), Federal Minster of Defence
Leysen, Thomas (BEL), Chairman, KBC Group and Umicore
Liikanen, Erkki (FIN), Chairman, IFRS Trustees; Helsinki Graduate School of Economics
Lund, Helge (GBR), Chairman, BP plc; Chairman, Novo Nordisk AS
Maurer, Ueli (CHE), President of the Swiss Federation and Federal Councillor of Finance
Mazur, Sara (SWE), Director, Investor AB
McArdle, Megan (USA), Columnist, The Washington Post
McCaskill, Claire (USA), Former Senator; Analyst, NBC News
Medina, Fernando (PRT), Mayor of Lisbon
Micklethwait, John (USA), Editor-in-Chief, Bloomberg LP
Minton Beddoes, Zanny (GBR), Editor-in-Chief, The Economist
Monzón, Javier (ESP), Chairman, PRISA
Mundie, Craig J. (USA), President, Mundie & Associates
Nadella, Satya (USA), CEO, Microsoft
Netherlands, His Majesty the King of the (NLD)
Nora, Dominique (FRA), Managing Editor, L'Obs
O'Leary, Michael (IRL), CEO, Ryanair D.A.C.
Pagoulatos, George (GRC), Vice-President of ELIAMEP, Professor; Athens University of Economics
Papalexopoulos, Dimitri (GRC), CEO, TITAN Cement Company S.A.
Petraeus, David H. (USA), Chairman, KKR Global Institute
Pienkowska, Jolanta (POL), Anchor woman, journalist
Pottinger, Matthew (USA), Senior Director, National Security Council
Pouyanné, Patrick (FRA), Chairman and CEO, Total S.A.
Ratas, Jüri (EST), Prime Minister
Renzi, Matteo (ITA), Former Prime Minister; Senator, Senate of the Italian Republic
Rockström, Johan (SWE), Director, Potsdam Institute for Climate Impact Research
Rubin, Robert E. (USA), Co-Chairman Emeritus, Council on Foreign Relations; Former Treasury Secretary
Rutte, Mark (NLD), Prime Minister
Sabia, Michael (CAN), President and CEO, Caisse de dépôt et placement du Québec
Sanger, David E. (USA), National Security Correspondent, The New York Times
Sarts, Janis (INT), Director, NATO StratCom Centre of Excellence
Sawers, John (GBR), Executive Chairman, Newbridge Advisory
Schadlow, Nadia (USA), Senior Fellow, Hudson Institute
Schmidt, Eric E. (USA), Technical Advisor, Alphabet Inc.
Scholten, Rudolf (AUT), President, Bruno Kreisky Forum for International Dialogue
Seres, Silvija (NOR), Independent Investor
Shafik, Minouche (GBR), Director, The London School of Economics and Political Science
Sikorski, Radoslaw (POL), MP, European Parliament
Singer, Peter Warren (USA), Strategist, New America
Sitti, Metin (TUR), Professor, Koç University; Director, Max Planck Institute for Intelligent Systems
Snyder, Timothy (USA), Richard C. Levin Professor of History, Yale University
Solhjell, Bård Vegar (NOR), CEO, WWF – Norway
Stoltenberg, Jens (INT), Secretary General, NATO
Suleyman, Mustafa (GBR), Co-Founder, Deepmind
Supino, Pietro (CHE), Publisher and Chairman, Tamedia Group
Teuteberg, Linda (DEU), General Secretary, Free Democratic Party
Thiam, Tidjane (CHE), CEO, Credit Suisse Group AG
Thiel, Peter (USA), President, Thiel Capital
Trzaskowski, Rafal (POL), Mayor of Warsaw
Tucker, Mark (GBR), Group Chairman, HSBC Holding plc
Tugendhat, Tom (GBR), MP, Conservative Party
Turpin, Matthew (USA), Director for China, National Security Council
Uhl, Jessica (NLD), CFO and Financial Director, Royal Dutch Shell plc
Vestergaard Knudsen, Ulrik (DNK), Deputy Secretary-General, OECD
Walker, Darren (USA), President, Ford Foundation
Wallenberg, Marcus (SWE), Chairman, Skandinaviska Enskilda Banken AB
Wolf, Martin H. (GBR), Chief Economics Commentator, Financial Times
Zeiler, Gerhard (AUT), Chief Revenue Officer, WarnerMedia
Zetsche, Dieter (DEU), Former Chairman, Daimler AG

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31 maggio 2019

Dal Medio Oriente all’Irlanda del Nord, gli stati occidentali sono fin troppo felici di scampare alle accuse di crimini di guerra


Quand’è che un crimine di guerra non è un crimine di guerra? Quando è stato commesso da noi, ovviamente.
Ma questo truismo sta assumendo oggi un significato nuovo e sinistro, e non solo perché Trump e i suoi scagnozzi potrebbero pianificare un’altra serie di atrocità in Medio Oriente.
Perché ora si avverte un pericoloso slittamento, che rende gli stati occidentali più che mai pronti ad incoraggiare i crimini di guerra contro l’umanità, ad accettarli, approvarli e ad aspettarsi la nostra complicità per queste violazioni grossolane e disgustose del diritto internazionale.
Non sto solo riferendomi al comportamento patetico e grottesco del nostro attuale Ministro della Difesa, che parla di “amnistia per i procedimenti penali storici,” il che significa che possiamo uccidere Iracheni e Afghani e farla franca, ma dobbiamo essere un po’ più cauti nell’Irlanda del Nord. Ma non tanto più cauti, badate bene, basta guardare le giovani e scattanti élite Tory e gli incartapecoriti ex generali che blaterano di estendere questa licenza di uccidere a tutti quelli che avevano assassinato cittadini britannici a Belfast e Derry.
Questo non solo offende l’umanità degli uomini e delle donne dell’Irlanda del Nord che hanno la cittadinanza britannica, li sta anche precipitando nel limbo, tra i Mussulmani dagli occhi scuri in Medio Oriente, che possono essere dimenticati 10 anni dopo essere stati liquidati, e gli Inglesi dagli occhi azzurri, i cui omicidi comporterebbero squadre di poliziotti e di gruppi anti-terrorismo in tutte le strade della nazione a dare la caccia e ad assicurare alla giustizia i loro assassini.
Non si tratta solo una differenza con il DNA delle nostre vittime, ovviamente. È la parola “storici.” Perchè quello che sta proponendo Penny Mordaunt insieme ai suoi ruffiani è un provvedimento che depenalizza i crimini di guerra, qualcosa che migliaia di ex-nazisti avevano cercato e desiderato ardentemente dopo la Seconda Guerra Mondiale.
No, i soldati dell’esercito britannico non sono nazisti, i Marines statunitensi non sono la Wehrmacht, la RAF e l’USAF non sono la Luftwaffe (anche se, per un confronto del genere, dovremmo mettere da parte Amburgo e Dresda). Sto parlando di paralleli, non di confronti, sull’improvvisa crescita di una mentalità pericolosa e deforme, che si propone di scagionare gli assassini prima che commettano il loro crimine.
Ma lasciamo perdere il vergognoso accanimento della Gran Bretagna nel nord-est dell’Irlanda, anche se molti fautori della Brexit sono pronti a ritornarvi su. Invece, attraversiamo l’Atlantico fino al grande manicomio di Washington, dove Trump ha appena concesso il perdono totale al tenente dell’esercito americano, Michael Behenna.
Quest’uomo aveva assassinato un Iracheno di nome Ali Mansur il 16 maggio 2008. A Behenna era stato ordinato di riportare Mansur a casa sua, dopo che era stato interrogato dagli agenti dell’intelligence statunitense sull’uccisione di due soldati americani per lo scoppio di una mina stradale. Non avevano trovato prove della sua colpevolezza. Ma Behenna aveva portato il suo prigioniero nel deserto, lo aveva spogliato, lo aveva nuovamente interrogato puntandogli contro una pistola e gli aveva sparato alla testa e al petto. Il caso era semplice, o almeno così potreste pensare. Behenna era stato arrestato per omicidio non premeditato e condannato a 25 anni di carcere.
Ma poi il dipartimento di giustizia degli Stati Uniti gli aveva ridotto la pena da 25 a 15 anni, e lo aveva rimesso in libertà vigilata nel 2014. Behenna era stato un prigioniero modello, ammirato dagli amici nella sua natia Oklahoma.
E, solo 10 giorni fa, Trump ha concesso a questo assassino militare il perdono completo. Nessuna sorpresa dal punto di vista di Trump, ovviamente. Aveva detto che “la tortura funziona” e crede che anche l’omicidio di massa funzioni.
Bisogna eliminare le loro famiglie, quando si prendono questi terroristi, bisogna eliminare le loro famiglie,” aveva detto il presidente degli Stati Uniti in un’intervista del 2015. Behenna aveva commesso l’omicidio poco più di 10 anni fa, quindi nessuna protesta da parte della Mordaunt e dei suoi amici di Londra: il suo crimine aveva superato la data di scadenza dei 10 anni per gli omicidi nel mondo musulmano.
Un altro Americano, veterano della guerra in Iraq, aveva smentito questa assurdità il giorno dopo la concessione della libertà, da parte di Trump, al criminale di guerra Behenna. Waitman Wade Beorn era stato un ufficiale di cavalleria che aveva sempre detto ai suoi soldati di trattare i civili iracheni come se fossero vicini di casa, piuttosto che nemici. In un coraggioso articolo sul Washington Post, Beorn aveva scritto che il comandante in capo degli Stati Uniti aveva preferito trascurare dei gravi crimini di guerra “a favore di una nozione distorta di patriottismo ed eroismo.” Trump aveva dato la sua approvazione “alle cose brutte che capitano nel contesto bellico,” il che è strano per un uomo che aveva evitato il servizio militare.
Ma Beorn è un caso particolare, perché ha anche scritto un libro sulla partecipazione dell’esercito tedesco all’Olocausto. Anche considerando l’ambiente volutamente razzista e ideologicamente influenzato della Wehrmacht, [Beorn] ritiene che “la cultura di ciascuna unità e la sua leadership istituzionale abbiano influenzato in modo diretto l’esecuzione o meno di crimini di guerra. Unità assassine erano guidate da comandanti assassini.”
Beorn non paragona l’esercito americano alla Wehrmacht. Parla, anche se in modo un po’ sdolcinato, dei “sistemi di educazione militare dell’America che mettono in risalto i nostri valori, le regole di un conflitto armato” e le loro “salde basi etiche.”
Ma ricorda anche l’infame “Ordinanza giurisdizionale” di Adolf Hitler del maggio 1941, poco prima dell’invasione nazista dell’Unione Sovietica, che informava le truppe tedesche che “per reati commessi da membri della Wehrmacht e da suoi dipendenti nei confronti di civili nemici, l’accusa non è obbligatoria , nemmeno se il reato è allo stesso tempo un crimine militare o una infrazione.
Come osserva Beorn, “ai soldati era stato detto, letteralmente, che non sarebbero stati processati per comportamenti che ovunque in Europa sarebbero stati considerati criminali.”
Che poi è una cosa, in realtà, spaventosamente simile alle proposte teoriche del nostro Ministro della Difesa. Lasciare impuniti degli assassini se uccidono Afgani o Iracheni (anche se solo dopo un intervallo decente), ma non se uccidono degli Inglesi, potrebbe sembrare piuttosto familiare ai veterani della Wehrmacht. Quando un presidente degli Stati Uniti elogia i criminali di guerra alla stregua di coraggiosi patrioti vittime solo della correttezza politica, “condona comportamenti non etici e criminali,” scrive Beorn. E il gioco è fatto. Improvvisamente, torna alla memoria il Bloody Sunday. E l’inchiesta a Belfast di questa settimana per la strage di Ballymurphy, dove un ex soldato britannico ha descritto alcuni dei suoi compagni del reggimento paracadutisti in termini davvero spaventosi. Ha affermato che c’erano soldati buoni e professionali, ma poi ha aggiunto: “c’erano anche degli psicopatici, c’erano persone con cui era pericoloso stare insieme.
Su questo ci potete scommettere. “I soldati canaglia erano fuori controllo, uccidevano la gente per la strada, sapendo che sarebbero stati protetti,” ha detto il testimone M597 all’inchiesta di Belfast, anche se è discutibile quanto “canaglia” fossero questi soldati, meno di un anno dopo il Bloody Sunday. Ma ricordate, Ballymurphy è successo 48 anni fa, il Bloody Sunday 47. Questo è il tipo di ragionamento che ora si sta perdendo tra quei politici britannici che vorrebbero fare tabula rasa.
Trump ha difeso pubblicamente il maggiore americano Matt Golsteyn, che è attualmente accusato di omicidio premeditato per aver sparato ad un uomo disarmato e per aver dato alle fiamme il suo corpo, in Afghanistan nel 2010. Trump lo ha definito un “eroe di guerra americano.”
Beorn ha anche ricordato il caso del sostegno di Trump all’ex Navy Seal Edward Gallagher, un altro presunto criminale di guerra che, secondo il New York Times“aveva sparato ad una ragazza che indossava un vestito a fiori e che camminava con altre ragazze sulla riva del fiume Tigri” a Mosul, nel 2017.
Era caduta a terra stringendosi lo stomaco ed era stata trascinata via dalle altre donne. Beorn ricorda che nello stesso anno, ed ora stiamo parlando di meno di due anni fa, Gallagher avrebbe ucciso un adolescente ferito, pugnalandolo più volte al collo e una volta al petto.
Trump ha twittato che a Gallagher sarebbero state concesse condizioni migliori di reclusione “in onore del suo passato servizio,” ha scritto Beorn, “un onore che molti direbbero aveva gettato alle ortiche molto tempo fa.”
Beh, grazie a Dio, potreste dire, per tutti i Beorn di questo mondo. Ma che dire della nostra mite accettazione del conto ufficiale delle vittime causate dai nostri eserciti e dalle nostre forze aeree in Medio Oriente? Le forze della “coalizione” dicono di aver portato a termine 34.464 attacchi in Iraq e in Siria dall’agosto 2014, uccidendo involontariamente 1257 civili. Ma Amnesty International ha indagato sulle vittime civili di una sola città, Raqqa in Siria, per un periodo di soli quattro mesi nel 2017 e, secondo i suoi conteggi, le vittime civili sarebbero più di 1.600.
Molto più inquietante, più fantastico, è forse la parola giusta, è il fatto che la Royal Air Force afferma di aver ucciso 1.019 “combattenti nemici” in Iraq e in Siria in più di quattro anni. Ma solo un civile. Solo uno, solo un singolo civile è stato ucciso fra 1.020 morti. Queste cifre, che coprono il periodo tra settembre 2014 e gennaio di quest’anno, sono state rilasciate dal Ministero della Difesa britannico in base ad una richiesta sul principio della libertà di informazione fatta dell’ente benefico Action on Armed Violence. E tutti questi dati sono basati, secondo il Ministero della Difesa, sulla “migliore analisi post-strike disponibile.”
Quasi inquietante quanto questa cifra palesemente ridicola è il fatto che la BBC ne abbia parlato, il 7 marzo scorso, come fosse una semplice notizia, giustificando nel corso della trasmissione questo incredibile dato con il caritatevole commento che un fatto del genere costituisce sicuramente “un record mondiale nei conflitti moderni.”
Il corrispondente della BBC al Ministero della Difesa aveva poi osservato che si trattava di “dati straordinariamente precisi,” ma che l’analisi sul campo di battaglia è “non una scienza esatta.”  Il che significherebbe, ancora una volta per quel che vale, che la RAF sarebbe responsabile per solo uno dei 1.257 civili “involontariamente” uccisi dagli attacchi aerei della coalizione nello stesso periodo.
Devo dire che statistiche di questo tipo non sono solo inverosimili, incredibili ed offensive per chiunque le legga o le studi. Sono ovviamente prodigiose, prive di senso, irresponsabili, assurde, bizzarre, strane, fuori dal mondo, oniriche e, per chi ha fatto il giornalista di guerra negli ultimi quarant’anni, completamente false. Chiunque creda veramente a queste stronzate deve anche essere fermamente convinto dell’esistenza dei marziani, di Babbo Natale o dei piccoli omini verdi in fondo al giardino.
Eppure, il Ministero della Difesa britannico se l’è cavata. Uccidere civili in incursioni aeree non può essere meno criminale di un soldato che, individualmente, uccide civili. E, uccidere dei civili “involontariamente” dal cielo, non è sufficiente perchè le forze militari possano dichiararsi innocenti.
Le indagini di Amnesty sugli attacchi di Raqqa dicono che il reale bilancio delle vittime civili è non solo scioccante, ma del tutto inutile.
Tuttavia, a questo ci siamo abituati. Dal cielo, nelle strade, nel deserto, uccidiamo e poi ci assolviamo da soli.
No, “l’azione giudiziaria non è obbligatoria.” Possiamo persino definire eroi degli assassini. Al giorno d’oggi possiamo anche farla franca per l’omicidio, e non ci lamentiamo nemmeno. Siamo conniventi.
Robert Fisk
Fonte: www.independent.co.uk

Scelto e tradotto da Markus per comedonchisciotte.org 

17 maggio 2019

Magaldi oscurato su Facebook: “Spieghino, o li denuncio”



Gioele Magaldi oscurato da Facebook: «Da qualche giorno non posso più accedere alla mia pagina, da cui peraltro sono spariti tutti i contenuti. Nel caso ci fosse del dolo, a Facebook farò una causa coi fiocchi», avverte il presidente del Movimento Roosevelt, in web-streaming su YouTube il 13 maggio con Fabio Frabetti di "Border Nigths". E aggiunge: «Mi auguro che sia solo un problema tecnico momentaneo, perché i miei contenuti (politico-culturali) non sono certo considerabili "inappropriati", da Facebook». Magaldi è un personaggio pubblico piuttosto noto. «Anche nel caso si trattasse solo di un inconveniente – dice – resta comunque il danno: lo conferma una sentenza del tribunale di Pordenone, che – come ricorda l'Associazione Forense Emilio Conte – il 10 dicembre 2018 ha condannato Facebook a ripristinare il profilo di un utente arbitrariamente chiuso, infliggendo anche il pagamento di una penalità per ogni giorno di ritardo». Magaldi è perfettamente consapevole dell'occhiuta "sorveglianza" di Facebook alla vigilia delle elezioni europee: il social network ha appena chiuso 23 pagine italiane, con 2,4 milioni di follower, accusate di diffondere "fake news".
«Ricordo a Facebook che, in base alla legge italiana, non può fare tutto quello che vuole», sostiene Magaldi. «Tre giorni fa ho inviato loro una mia foto, peraltro pubblica, richiestami per verificare la mia identità, teoricamente a tutela della mia sicurezza, per Gioele Magaldievitare che altri potessero inserirsi abusivamente nella mia pagina. Ma sono ancora in attesa di risposta. E intanto il tempo passa, aggravando il danno morale e materiale che sto subendo». Massone progressista, filosofo e politologo, animatore di svariate iniziative culturali italiane, Magaldi è certamente "attenzionato" da più parti: il suo bestseller "Massoni", pubblicato nel 2014 da Chiarelettere, mette alla berlina il profilo occulto del potere "supermassonico" italiano, strettamente collegato a quello sovranazionale attraverso la rete invisibile delle Ur-Lodges, le superlogge che sorvintendono alle decisioni delle istituzioni, a cominciare dagli stessi governi. Come presidente del Movimento Roosevelt, Magaldi è attivo nel panorama politico nazionale: nel 2018 ha chiesto le dimissioni del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, dopo l'esclusione di Paolo Savona dal ministero dell'economia. Poco dopo, ha accusato un commissario europeo, il tedesco Günther Oettinger (definito «massone neoaristocratico»), di essere il vero ispiratore della controversa legge-bavaglio imposta al web con il pretesto della tutela del copyright.
«Se Facebook rimedia subito al disguido, la cosa finisce qui. Se invece passerà ancora qualche ora – annuncia Magaldi – i miei avvocati faranno causa a Facebook. Una censura ai miei danni – ancorché subdolamente motivata col pretesto di problemi tecnici – sarebbe uno scandalo, di cui renderei conto in ogni sede». Il suo potrebbe ovviamente non essere un caso isolato: «Di fronte a episodi che venissero valutati scorretti dall'autorità giudiziaria – conclude Magaldi – immagino che Facebook verrebbe inondato di richieste di risarcimento come quella che mi appresto a formulare io, se l'incidente non verrà immediatamente chiarito e risolto». Citando la sentenza emessa dal tribunale di Pordenone lo scorso anno, l'associazione Emilio Conte ricorda che i giudici, in quel caso, hanno ravvisato «la sussistenza di un vero e proprio contratto tra utente e Pino Cabrassocial network», identificando tra le prestazione di Facebook quella dell'offerta «di un preciso servizio telematico basato sul libero accesso ed utilizzo della propria piattaforma web». Fin dal momento dell'attivazione dell'account, infatti – fa notare la magistratura friulana – Facebook si impegna espressamente a garantire all'utente la «possibilità di esprimersi e comunicare in relazione agli argomenti di interesse».
Secondo il giudicante, Facebook, cancellando arbitrariamente un profilo individuale «pur in assenza di una chiara, seria e reiterata violazione dell'utente delle condizioni contrattuali o della normativa», adotterebbe «un rimedio del tutto sproporzionato rispetto agli addebiti mossi», in questo modo calpestando «non solo le regole contrattuali» stabilite dal social network stesso, «ma anche il diritto di libera espressione del pensiero come tutelato dalla Costituzione». Può dare così fastidio, il presidente del Movimento Roosevelt, al punto da spingere qualcuno a forzare le regole e infrangere la legge? Nata nel 2015, l'associazione (meta-partitica) si propone di "risvegliare" la politica italiana, per recuperare la perduta sovranità democratica. A marzo, ha condotto a Londra un importante convegno economico sul New Deal di cui l'Europa avrebbe bisogno, per porre fine all'austerity. Tra i relatori Nino Galloni, Danilo Broggi,Gianroberto Casaleggio Ilaria Bifarini e l'ex manager Bnl Guido Grossi. Coraggiosa, in quella sede, la denuncia del deputato pentastellato Pino Cabras: «Lega e 5 Stelle sono divisi su tutto, ma uniti nella lotta contro il Deep State, lo "Stato profondo" che, a partire dal Quirinale, condiziona il governo in modo spesso determinante».
Dai media mainstream, silenzio di tomba sulla denuncia di Cabras, saggista e storico collaboratore di Giulietto Chiesa. Spesso, Magaldi fa notizia indicando l'appartenenza massonica degli uomini di potere: Monti, Draghi, Napolitano, D'Alema. Recente l'accusa a Luigi Di Maio: «Si è "genuflesso" davanti alla Merkel perché spera di essere accolto, prima o poi, in superlogge come la Goldem Eurasia, in cui milita la Cancelliera: per il vicepremier sarebbe un modo per sopravvivere all'eventuale naufragio dei 5 Stelle». Reiterata, la polemica di Magaldi contro «l'ipocrita massonofobia, solo di facciata», ostentata dai grillini, violando la Costituzione che proibisce la discriminazione dei cittadini in base alla loro appartenenza. «Senza contare che era massone lo stesso Gianroberto Casaleggio». Il figlio, Davide Casaleggio, smentisce: sostiene che il padre fosse estraneo alle logge. La replica di Magaldi, a stretto giro: «Si confronti con me in un pubblico dibattito, e a Davide Casaleggio spiegherò perché suo padre non intendeva ammettere la sua identità massonica». Dopo il recente convegno a Milano sulla crisi della democrazia in Europa, prendendo spunto dal socialismo liberale di Carlo Rosselli e dall'esempio di Olof Palme e Thomas Sankara (tra i relatori, anche Paolo Becchi), Magaldi è ora proiettato verso il 14 luglio, quando – a Roma – sarà varato il "Partito che serve all'Italia", laboratorio politico che intende lanciare una contestazione frontale dell'austerity Ue (Facebook permettendo, naturalmente).

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06 maggio 2019

L’arresto di Assange è una messa in guardia della storia


L’immagine di Julian Assange trascinato fuori dall’ambasciata dell’Ecuador a Londra è emblematica della nostra epoca. La forza contro il diritto. La brutalità contro la legge. Sei poliziotti che malmenano un giornalista malato, con gli occhi strizzati contro la prima luce naturale dopo circa sette anni.


Che questo scandalo sia avvenuto nel cuore di Londra, nel paese della Magna Charta, dovrebbe far vergognare e far arrabbiare tutti coloro che tengono alle società “democratiche”. Assange è un rifugiato politico protetto dal diritto internazionale, beneficiario di asilo in virtù di un accordo che la Gran Bretagna ha firmato. L’Organizzazione delle Nazioni Unite l’ha indicato chiaramente nella decisione giuridica presa dal suo Gruppo di lavoro sulle detenzioni arbitrarie.
 Ma al diavolo tutto questo. Lasciate entrare i teppisti. Diretta dai quasi-fascisti dell’amministrazione Trump, con la collaborazione dell’ecuatoriano Lenìn Moreno – un Giuda latinoamericano e un mentitore che cerca di nascondere lo stato moribondo del suo regime – l’élite britannica ha abbandonato il suo ultimo mito imperiale: quello dell’equità e della giustizia.

Immaginate Tony Blair trascinato fuori dalla sua casa georgiana da diversi milioni di sterline a Connaught Square, Londra, ammanettato, per essere poi spedito all’Aja.
Secondo l’esempio di Norimberga, il “crimine supremo” di Blair è la morte di un milione di iracheni.
Il crimine di Assange è il giornalismo: chiedere il conto ai rapaci, denunciare le loro menzogne e fornire alla gente del mondo intero i mezzi per agire con la verità.
Lo scioccante arresto di Assange è un avvertimento per tutti quelli che, come scriveva Oscar Wilde, “seminano i grani del malcontento [senza i quali ] non ci sarebbe progresso verso la civiltà”. L’avvertimento è esplicito ai giornalisti. Quello che è successo al fondatore e redattore capo di WikiLeaks può succedere ad un giornale, o a voi in uno studio televisivo, o a voi in una radio, o a voi che diffondete un podcast.
Il principale carnefice mediatico di Assange, The Guardian, collaboratore dello Stato segreto, ha mostrato il suo nervosismo questa settimana con un editoriale che raggiunge nuove vette di ipocrisia.
The Guardian ha sfruttato il lavoro di Assange e di WikiLeaks in quello che il suo precedente editore chiamava “il più grande scoop degli ultimi 30 anni”. Il giornale si ispira alle rivelazioni di WikiLeaks e attira lodi e fortuna. Senza versare un soldo a Julian Assange o a WikiLeaks, un libro promosso dal Guardian si trasforma in un film hollywwodiano molto lucroso (Il Quinto Potere, n.d.t.) . Gli autori del libro - Luke Harding e David Leigh –si sono rivoltati contro la loro fonte, lo hanno maltrattato e hanno divulgato la password che Assange aveva dato al giornale confidenzialmente, password concepita per proteggere un file digitale contenente dei cablogrammi degli ambasciatori degli Stati Uniti.

Quando Assange era intrappolato nell’ambasciata dell’Ecuador, Harding si è unito alla polizia che era all’esterno e si è rallegrato sul suo blog perché “Scotland Yard avrà l’ultima parola”. The Guardian ha poi pubblicato una serie di menzogne a proposito di Assange, in particolare un’affermazione falsa secondo la quale un gruppo di russi e l’uomo di Trump, Paul Manaford, avrebbero fatto visita ad Assange nell’ambasciata. Queste riunioni non hanno mai avuto luogo, era tutto falso.

Ora il tono è cambiato. “L’affaire Assange è una tela moralmente aggrovigliata” afferma il giornale. “Lui (Assange) crede nella pubblicazione di cose che non dovrebbero essere pubblicate … Ma ha sempre fatto luce su cose che non avrebbero mai dovuto essere nascoste”.
Queste “cose” sono la verità sull’aspetto mortifero con cui l’America porta avanti le sue guerre coloniali, le menzogne del Foreign Office britannico nel suo ignorare i diritti delle persone vulnerabili, come gli abitanti delle Isole Chagos, la denuncia di Hillary Clinton quale partigiana e beneficiaria dello yihaidismo in Medio Oriente, la descrizione dettagliata degli ambasciatori americani su come i governi della Siria e del Venezuela potrebbero essere rovesciati, e molto di più. Tutto questo è disponibile sul sito di WikiLeaks. 

The Guardian è nervoso e si capisce. La polizia segreta ha già fatto visita al giornale e ha chiesto e ottenuto la solita distruzione del disco fisso. Su questo il giornale non è alle prime armi. Nel 1983 una funzionaria del Foreign Office – Sarah Tisdall – divulgò dei documenti del governo britannico indicanti quando le armi nucleari da crociera americane sarebbero arrivate in Europa. Il Guardian fu coperto da elogi.

Quando un tribunale chiese di conoscere la fonte, invece di lasciare che il redattore capo finisse in prigione sulla base del fondamentale principio di protezione delle fonti, Tisdall fu tradita, perseguita e condannata a sei mesi di prigione.
Se Assange viene estradato negli Stati Uniti per aver pubblicato quello che The Guardian chiama “cose” veritiere, chi impedirà che la redattrice capo attuale, Katherine Viner, o l’ex redattore capo Alan Rusbridger, o il prolifico propagandista Luke Hardin lo seguano? E che i redattori capi del New York Time e del Washington Post, che hanno pubblicato anch’essi dei pezzi di verità provenienti da WikiLeaks, o il redattore capo di El Pais in Spagna, di Der Spiegel in Germania e del Sydney Morning Herald in Australia facciano la stessa fine? La lista è lunga.

David McCrow, primo avvocato del New York Times, ha scritto: “Penso che l’incriminazione di Assange costituirebbe un cattivo, cattivo, precedente per gli editori … per quello che ne so egli si trova in qualche modo nel ruolo classico di un editore e la legge farebbe molto male a distinguere il New York Times da WikiLeaks”.
Anche se i giornalisti che hanno pubblicato le rivelazioni di WikiLeaks non sono stati convocati davanti ad un Gran Jury americano, l’intimidazione di Julian Assange e di Chelsea Manning basterà. Il vero giornalismo è criminalizzato da dei teppisti, visti e conosciuti da tutti. La dissidenza è diventata un’indulgenza.
In Australia l’attuale governo filo-americano perseguisce due persone che hanno rivelato che gli spioni di Canberra avevano messo sotto sorveglianza le riunioni del gabinetto del nuovo governo di Timor Est, per privare questo piccolo paese della sua parte di risorse naturali in petrolio e gas del mare di Timor. Il loro processo si svolgerà in segreto. Il Primo Ministro australiano, Scott Morrison, è tristemente celebre per il suo ruolo nella costruzione di campi di concentramento per i rifugiati sulle isole di Nauru e Manus, nel Pacifico, dove i ragazzi si auto-mutilano e si suicidano. Nel 2014 Morrison ha proposto campi di detenzione di massa per 30.000 persone.
Il vero giornalismo è nemico di questi scandali. Dieci anni fa il ministero della Difesa di Londra ha pubblicato un documento segreto che descriveva le “principali minacce” all’ordine pubblico: i terroristi, le spie russe e i giornalisti d’inchiesta. Questi ultimi sono stati definiti la minaccia principale.

Il documento è arrivato a WikiLeaks, che naturalmente l’ha pubblicato. “Non avevamo scelta – mi ha detto Assange – “E’ molto semplice. Le persone hanno il diritto di sapere e il diritto di rimettere in discussione e di contestare il potere. Questa è la vera democrazia”.
E se Assange e Manning e gli altri nella loro scia – se ce ne sono altri – fossero ridotti al silenzio e “il diritto di sapere, di mettere in discussione e di contestare” sparisse?

Negli anni ’70 incontrai Leni Riefenstahl, amica di Hitler, i cui film contribuirono a gettare l’incantesimo nazista sulla Germania.

Lei mi disse che il messaggio dei suoi film, la propaganda, non dipendeva “da ordini venuti dall’alto”, ma da quello che lei definiva il “vuoto apatico” del pubblico. “Questo vuoto apatico si estendeva alla borghesia liberale e colta?” le chiesi. “Naturalmente – mi rispose – soprattutto l’intelligencia… Quando le persone non fanno più domande serie, diventano sottomesse e malleabili. Tutto può succedere”.
Ed ecco, è successo.
Il resto, avrebbe potuto aggiungere, è storia. 

John Pilger 


Fonte: http://johnpilger.com/articles/the-assange-arrest-is-a-warning-from-history
Data dell'articolo originale: 13/04/2019
URL dell'articolo: http://www.tlaxcala-int.org/article.asp?reference=25867 


29 aprile 2019

Assange e i suoi "fratelli": chi sono i cypherpunk

Julian Assange in una delle sue dichiarazioni rilasciate dal balcone dell'ambasciata
Julian Assange in una delle sue dichiarazioni rilasciate dal balcone dell'ambasciata

L'arresto del fondatore di WikiLeaks ha riacceso i riflettori sul leaking ma anche sulla realtà delle cyberwar. In Terris ne ha parlato con il generale Umberto Rapetto
U
na figura ambigua quella di Julian Assange, fondatore di WikiLeaks e volto del fenomeno del leaking a livello mondiale. Il suo arresto a Londra chiude un capitolo avviato nel 2012, quando si rifugiò nell'ambasciata dell'Ecuador chiedendo asilo a seguito di un mandato di cattura spiccato contro di lui. In mezzo, sette anni di voci, inchieste, sospetti, opinione pubblica divisa tra sostenitori e oppositori. Dietro la figura di Assange, però, si cela un mondo informatico che, in qualche modo, va oltre il fenomeno del leaking,inserendosi nel più ampio contesto dei sistemi di software che, sempre di più, avvicinano l'utente medio ai lati più rischiosi della rete. Un universo virtuale fatto di dati, informazioni, anche personali, esposte alle leggi del web. Per questo, al di là dell'attività di WikiLeaks, si parla di cyberwar: una delicata sfida giocata su un filo sottile in cui, in un modo o nell'altro, entriamo tutti con i nostri dispositivi. In Terris ne ha parlato con il generale Umberto Rapetto, che ha servito lo Stato nella Guardia di Finanza ed esperto di sistemi informatici.

Dottor Rapetto, l'arresto a Londra di Julian Assange ha destato un rinnovato interesse per questa figura che, dal 2012, era rimasta in penombra. A distanza di diversi anni dall'esplosione dei casi che coinvolsero WikiLeaks, quanto peso ha ancora la sua figura e le questioni alle quali era connessa?
"La storia comincia a essere più o meno consolidata, al punto che, a dispetto di quello che si dice abitualmente, a WikiLeaks si sono affiancate altre organizzazioni come OpenLeaks e altre ancora. Il fenomeno del leaking, il fatto di far filtrare determinate informazioni, equivale letteralmente a fare un buco all'interno di una tubatura per far fuoriuscire l'acqua. WikiLeaks di fatto non esiste, è un'aggregazione spontanea di cui Julian Assange è solo il portavoce, l'unica faccia 'pubblica' di un movimento che è figlio dei cosiddetti cypherpunk, i quali sono stati governati da un vecchio architetto ora ultraottantenne, tale John Young, massimo esperto di Freedom of informaction act (Foia) e considerato il 'padre spirituale' di Julian Assange. La filosofia dei cypherpunk ritiene che il cittadino non sia un dipendente del Paese in cui vive ma un azionista e, come tale, non può essere controllato dalla struttura ma è lui che partecipa al controllo".

Quale fu l'ascendente di Young su Assange?
"Per John Young, la filosofia era di rendere pubblici documenti che altrimenti non erano accessibili. Non appena venivano desecretati, sul suo sito venivano pubblicati. Questo dal 1996, con pubblicazione di documenti anche scomodi, estratti secondo la legge od ottenuti in maniere meno chiare. Nel momento in cui si è accorto che si poteva dare voce a soggetti che non l'avevano, ha contribuito alla creazione di questo movimento fatto inizialmente di poca gente che aveva rapporti interlocutori ma che, poco alla volta, ha calamitato materialmente l'attenzione di tutti coloro che erano in possesso di qualche informazione. Il cardine era il totale anonimato delle fonti e la verifica della loro attendibilità, dopodiché la loro pubblicazione secondo criteri che venivano decisi di volta in volta. Questo network ha superato ormai le migliaia di aderenti e vi sono confluiti documenti che sono di carattere governativo o vengono dall'intelligence, dal mondo militare piuttosto che industriale, da tutta quella che può essere l'attività amministrativa o informativa. Di lì la connotazione internazionale: non ci sono ripartizioni di carattere geografico. Molte volte andiamo a lambire l'illegalità della documentazione che viene acquisita ma è chiaro che quello che viene raccolto ha un peso equivalente alla deflagrazione di un ordigno atomico, perché le fonti sono incastonate all'interno delle organizzazioni".

In Italia abbiamo avuto casi simili?
"Nel tempo hanno iniziato ad arrivare informazioni di ogni genere. Per quanto riguarda l'Italia, dobbiamo ad esempio a WikiLeaks la scoperta dell'attività posta in essere da Hacking Team, la società produttrice di un software utilizzato dalle procure, dietro il quale c'era il cosiddetto Rcs (Remote control system). E il tutto era stato scoperto da WikiLeaks perché qualcuno aveva girato la copia di tutto l'archivio di posta elettronica di Hacking Team, consentendo di scoprire come avesse venduto software di controllo da remoto indirizzato a colpire pc, telefonini e tablet, e comprato dai governi nordafricani che dovevano contrastare la primavera araba e trovare dissidenti o giornalisti che facevano inchieste che potevano risultare scomode".

Negli ultimi giorni il caso è riesploso: cosa è accaduto?
"Ieri WikiLeaks ha rilasciato una serie di documenti che dimostravano come il governo ecuadoregno, presso la cui ambasciata si era rifugiato Assange, era protagonista di un'attività di spionaggio globale particolarmente significativa. In meno di 24 ore, ad Assange è revocato lo status di rifugiato politico ma la cosa era già nell'aria. Nel mese di marzo si era già arrivati al blocco di internet e di altre tecnologie e, al tempo stesso, al veto a incontrare persone liberamente. Già nel 2012 c'era stato un mandato di cattura firmato dalla magistratura di Westminster. L'intelligence e le forze di Polizia britanniche avevano blindato tutta la zona, sorvegliando anche le cavità sottorranee rispetto alla sede dell'ambasciata dell'Ecuador. Lui ha avuto modo di dire la sua in pubblico dai balconi, poi gli è stato vietato".

Di cosa è accusato?
"Lui sarebbe stato privato dello status concesso perché avrebbe contravvenuto ripetutamente, secondo il presidente ecuadoregno, a quelle che erano le regole di convivenza all'interno della sede diplomatica. Su Assange pende poi una sorta di catalogo di reati commessi secondo gli americani, i quali dimostrerebbero come sia reo di cospirazione e di 'attentato' alla sicurezza nazionale. Ha pendente un procedimento per violenza sessuale, sul quale non c'è nessuna prova certa ma che sarebbe stato il grimaldello con cui la Svezia voleva aggiudicarsi, materialmente, quella che era ormai diventata una sorta di preda ambita che poteva garantire la posizione di potere contrattuale nei confronti degli americani".

C'è una sorta di ambivalenza attorno alla figura di Assange, chiavi di lettura diverse e connotazioni che gli vengono attribuite a seconda dei punti di vista, tra chi lo considera un importante rivelatore di informazioni e chi un uomo ambiguo...
"Assange per alcuni incarna il 'Robin Hood' del Terzo millennio, colui che ruba ai cattivi. Ma comunque ruba e questo è un elemento determinante, che presta il fianco a tutte le critiche che sono tanto legittime come più che degne di rispetto sono le manifestazioni di plauso di chi dice che, se non fosse stato per lui, determinate cose non sarebbero venute alla luce. Per qualcuno è una sorta di vendicatore nero. In molti casi, c'era il rischio che i documenti pubblicati non fossero così autentici da spostare gli equilibri. Sia lui che, forse in maggior modo, John Young, hanno dato una spallata a quella che era la granitica condinzione per la quale chi ha potere ne può disporre a piene mani. E' una rivoluzione quasi copernicana, un ribaltamento del tavolo per cui a comandare è chi ha le informazioni. Si tratta di una supremazia in termini quantitativi, qualitativi e temporali. Quello che è stato raccolto da WikiLeaks, al netto delle modalità più o meno condivisibili, ha segnato un passo nella storia fondamentale".

Il possibile utilizzo dell'elettronica come strumento di controllo ha generato tanta letteratura e cinematografia. L'impressione, però, è che non sia del tutto fantascienza. Esiste davvero la possibilità che attraverso tali mezzi possa essere esercitata una sorta di "vigilanza"?
"Riguarda la globalità del command and control, la filosofia che può aver appassionato il 1984 di Orwell. L'elettronica ha consentito di cancellare gli spazi, di aumentare le velocità, stoccare un maggior volume d'informazione. Questo, come strumento di successo, lo conosceva già Gengis Khan con i suoi cavalieri freccia. Prima però erano i governi o le corporation ad avere il controllo di questo settore, mentre adesso possono esserci altri attori che possono comportarsi come le grandi realtà. Abbiamo quindi una sorta di proletarizzazione del controllo delle informazioni. C'è chi lo fa con un animo orientato ai diritti civili e chi ne fa una manovra speculativa per motivi politici, di controllo. Abbiamo constatato che la democrazia digitale non esiste perché c'è sempre qualcuno più bravo e si avvantaggia dal gap che normalmente separa chi è davvero in condizione tecniche, culturali di andare avanti e chi purtroppo non lo è".

Forse il termine "attacchi" o cyberattacchi è poco calzante in casi come quello di WikiLeaks. Questo è un deterrente rispetto a un programma di prevenzione?
"Il problema, in realtà, è proprio che non si tratta di attacchi. Si parla di informazioni venute da dentro un certo ente, non carpite da fuori. Se fossero state rubate con un data breach, ovvero bucando il perimetro di sicurezza di queste realtà, si sarebbe potuto parlare di attacco informatico. Qui il discorso è diverso, si tratta di materiali ottenuti per via interna e recapitati a chi è in grado di memorizzarli, classificarli o anche pubblicarli".

Il nome di WikiLeaks emerse anche durante la recente inchiesta sulle presidenziali americane del 2016, nell'ambito del mailgate che coinvolse i due candidati. Oggi si torna a parlare di una possibile estradizione negli Usa di Assange: potrebbe esistere una connessione?
"Gli intrecci sono talmente viscerali che diventa difficile escludere qualcuno da qualunque circostanze. Se andiamo a tracciare linee di demarcazione tra i momenti in cui, sette anni fa, lui è stato 'costretto' a questa fuga statica, è ovvio che dal 2012 le sue responsabilità dirette sono di meno ma lui fa parte di un organismo vivente, dalla capacità multiforme, dalle potenzialità di riconfigurarsi".

Negli ultimi giorni è salito alla ribalta il caso italiano del software-spyware Exodus. Si tratta di questioni diverse?
"Ci sono delle differenze sostanziali. La dinamica di azione ha come target, per WikiLeaks, le grandi realtà e il committente è un 'privato'. Il software Exodus e il Remote control system sono qualcosa che mira a soggetti singoli e che nasce con una committenza perlopiù governativa, poiché si tratta di software pensati per il contrasto al terrorismo o altre questioni simili, quindi con Intelligence e magistratura che ne hanno alimentato la creazione. C'erano però da considerare le controindicazioni: mentre le dilatazioni del leaking di Assange o di altri hanno una riverberazione sociale in cui 'ci si impegna poco', è molto più preoccupante sapere che, su input di carattere governativo, altre realtà abbiano creato strumenti che possono entrare nella vita personale di ciascuno e coinvolgere anche soggetti estranei. Il sistema di eSurv, ad esempio, prevedeva che i soggetti destinati a finire nel mirino delle indagini ricevessero un messaggio da un numero che poteva risultare all'interno del proprio telefonino apparentemente proveniente da un conoscente, nel quale era proposto un link che rimandava a uno store o un'app per scaricarla. Dietro c'era però lo spyware e, se questo era inserito all'interno del sistema del meteo o della guida di un ristorante, molta gente non inserita nelle indagini è arrivata a scaricarlo. Questa è stata una controindicazione che, però, nessuno ha valutato".

www.interris.it