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31 ottobre 2018

Cosa c’è veramente dietro la balla del riscaldamento globale


La recente conferenza ONU sul riscaldamento globale, sotto l’egida dell’International Panel on Climate Change (IPCC), ha concluso il proprio incontro in Corea del Sud discutendo su come limitare drasticamente l’aumento della temperatura globale. I media mainstream stanno spacciando vari scenari catastrofici causati delle emissioni di gas serra, specialmente CO₂, prodotte dall’uomo, se non vengono urgentemente intrapresi cambiamenti drastici nel nostro stile di vita. C’è solo una cosa che non va in tutto questo. La conclusione si basa su falsi studi e scienziati corrotti, che hanno raccolto miliardi di sovvenzioni per confermare la necessità di un cambiamento radicale nel nostro tenore di vita. Perché? La risposta è inquietante.
La riunione dell’IPCC ha discusso delle misure necessarie, a detta dei propri modelli informatici, per limitare l’aumento della temperatura globale ad 1,5 °C sopra quella dell’era preindustriale. Drew Shindell, dell’Università di Duke, uno dei membri del gruppo ed uno degli autori dell’ultimo Rapporto Speciale IPCC sul Riscaldamento Globale, ha detto alla stampa che per raggiungere l’obiettivo occorrerà diminuire le emissioni mondiali di CO₂ di un incredibile 40% per i prossimi 12 anni. L’IPCC richiede “zero emissioni nette” di CO₂ entro il 2050. Ciò significherebbe un divieto totale sui motori a gas o diesel per auto e camion, no centrali a carbone, trasformazione dell’agricoltura mondiale verso biocarburanti derivati da alimenti. Shindell ha ammesso: “Sono cambiamenti enormi”.
Il rapporto, denominato SR15, dichiara che il riscaldamento globale di 1,5 °C porterà “probabilmente” all’estinzione delle specie, a condizioni meteorologiche estreme, e a rischi a salute, crescita economica ed approvvigionamento di cibo. Per evitare tutto questo, le stime hanno richiesto che i soli investimenti energetici salgano di $2,4 trilioni l’anno. Il che potrebbe spiegare l’interesse delle principali banche globali, in particolare quelle della City di Londra, a spingere la carta del riscaldamento globale.
Lo scenario assume una dimensione ancor più incredibile, in quanto generato da dati fasulli, creati da un gruppetto internazionale di scienziati climatici, che etichetta i colleghi in disaccordo come “negazionisti del cambiamento climatico”. Vi ricorda qualcosa? Ecco come uccidere un legittimo dibattito scientifico. Il capo IPCC ha recentemente sentenziato: “Il dibattito sulla scienza dei cambiamenti climatici è già stato fatto, ora è chiuso”.
Il dibattito è tutt’altro che finito. Il Global Warming Petition Project, firmato da oltre 31.000 scienziati statunitensi, afferma: “Non ci sono convincenti prove scientifiche che il rilascio umano di anidride carbonica, metano od altri gas serra stia causando o causerà, nel prossimo futuro, un riscaldamento catastrofico dell’atmosfera terrestre ed un’interruzione del clima terrestre. Vi è anzi una sostanziale evidenza scientifica che l’aumento del biossido di carbonio nell’atmosfera produca molti effetti benèfici sugli ambienti naturali di animali e piante”.
Allarmisti
La cosa più interessante dei terribili avvertimenti di catastrofe globale è che si basano sempre su previsioni future. Quando il “punto di svolta” della cosiddetta irreversibilità è passato senza evidenti catastrofi, ci si inventa sempre un nuovo punto futuro.
Nel 1982 Mostafa Tolba, direttore esecutivo del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP), avvertì che “se i governi non agiscono ora, entro un paio di decenni il mondo affronterà un disastro ecologico”. Predisse che l’inazione avrebbe portato “una catastrofe ambientale verso l’inizio del secolo, che vedrà una devastazione totale, irreversibile come qualsiasi olocausto nucleare”. Nell’89 Noel Brown, sempre dell’UNEP, disse che intere nazioni sarebbero state spazzate via dalla faccia della terra, a causa dell’innalzamento del livello del mare, se la tendenza al riscaldamento globale non fosse stata invertita entro il 2000. James Hansen, figura onnipresente negli scenari apocalittici, ai tempi dichiarò che, “per preservare un pianeta simile a quello su cui la civiltà si è sviluppata sulla Terra ed alla quale è stata adattata la vita”, il limite massimo era di 350 ppm di CO₂. Rajendra Pachauri, allora capo IPCC, dichiarò che: “Se non si agisce prima del 2012, sarà troppo tardi”. Oggi il livello misurato è 414.
Come osserva lo scienziato britannico Philip Stott: “In sostanza, negli ultimi cinquanta anni, è stato regolarmente dato alla Terra un avviso di sopravvivenza di 10 anni… Il periodo postmoderno di ansia per i cambiamenti climatici può essere probabilmente fatto risalire a fine anni ’60… Nel ’73, quando lo spavento del “Raffreddamento Globale” era in pieno svolgimento, con previsioni dell’imminente collasso del mondo entro venti anni […] gli ambientalisti avvertivano che, entro il 2000, la popolazione americana sarebbe scesa a soli 22 milioni. Nell’87, il nuovo spavento improvvisamente divenne il “Riscaldamento Globale”, e venne quindi istituito l’IPCC (il Gruppo Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici) (1988)…”.
Dati difettosi
I modelli IPCC sono puramente teorici, non reali. L’ipotesi dipende interamente da modelli informatici che generano scenari futuri, non corroborati da registrazioni empiriche che li verifichino. Come ha concluso uno studio scientifico, “I modelli climatici computerizzati, sui quali si basa il ‘riscaldamento globale causato dall’uomo’, hanno sostanziali incertezze e sono palesemente non attendibili. La cosa non sorprende, dal momento che il clima è un sistema dinamico non lineare ed accoppiato. È molto complesso”. Accoppiato vuol dire che gli oceani causano cambiamenti nell’atmosfera e viceversa. Entrambi sono legati in modo complesso ai cicli solari. Nessun modello che prevede il riscaldamento globale o mille “punti di svolta” è in grado di analizzare, e neanche cerca di farlo, le reciproche influenze tra l’attività del sole ed i cicli di eruzione solare che determinano le correnti oceaniche, correnti a getto, gli El Niños ed il tempo quotidiano.
John McLean, un australiano esperto di IT e ricercatore indipendente, ha recentemente effettuato un’analisi dettagliata del rapporto IPCC sul clima. Osserva che il set di dati usato è HadCRUT4, palesemente pieno di errori. Nota: “È molto amatoriale, ha lo standard di uno studente universitario del primo anno”. Tra gli errori, “le medie della temperatura sono state calcolate con pochissime informazioni. Per due anni, le temperature sulla Terra nell’emisfero meridionale sono state stimate da un solo sito in Indonesia”. Altrove, ha scoperto che per l’isola caraibica di Saint Kitts e Nevis la temperatura è stata registrata a 0 °C per un mese intero, in due occasioni. Il set di dati è una produzione congiunta del britannico Hadley Center e dell’Unità di Ricerca Climatica dell’University of East Anglia. Quest’ultimo è il gruppo implicato diversi anni fa nel famigerato scandalo Climategate, che riguardava dati errati e relativa cancellazione di mail compromettenti per nasconderlo. I media mainstream hanno prontamente sepolto la storia, rivolgendo invece l’attenzione su “chi ha illegalmente cancellato le mail dell’East Anglia”.
Abbastanza sorprendentemente, se si fa una piccola ricerca, si scopre che l’IPCC non ha mai condotto una vera inchiesta scientifica sui possibili casi di cambiamento del clima terrestre. Le fonti artificiali di cambiamento venivano asserite arbitrariamente.
Il malthusiano Maurice Strong
Pochi tuttavia sono a conoscenza delle origini politiche e persino geopolitiche delle teorie del riscaldamento globale. Com’è successo? Il cosiddetto Cambiamento Climatico, o Riscaldamento Globale, è un programma di deindustrializzazione neo-maltusiano, originariamente sviluppato nei primi anni ’70 da circoli attorno alla famiglia Rockefeller, per impedire l’ascesa di industriali indipendenti rivali. Nel mio libro, “Myths, Lies and Oil Wars”, descrivo dettagliatamente come l’autorevole gruppo Rockefeller abbia anche sostenuto la creazione del Club di Roma, dell’Aspen Institute, del Worldwatch Institute e del report del MIT “Limits to Growth”. Uno dei principali organizzatori del programma di crescita zero fu un amico di lunga data di David Rockefeller, un petroliere canadese di nome Maurice Strong. Strong fu uno dei primi divulgatori della balla per la quale le emissioni prodotte dai veicoli di trasporto, dalle centrali a carbone e dall’agricoltura avevano causato un drammatico aumento della temperatura globale, che minacciava la civiltà.
Come presidente della Conferenza ONU di Stoccolma del 1972 sulla Giornata della Terra, Strong promosse un’agenda di riduzione della popolazione ed abbassamento degli standard di vita in tutto il mondo, per “salvare l’ambiente”. Alcuni anni dopo lo stesso Strong ribadì la propria radicale posizione ecologista: “Il crollo delle civiltà industrializzate è l’unica speranza per il pianeta. Non è nostra responsabilità portarlo a termine?”. Il dott. Alexander King, co-fondatore del Club di Roma, gruppo legato ai Rockefeller, ha ammesso il progetto nel proprio libro, “The First Global Revolution”. Scrive: “Alla ricerca di un nuovo nemico che ci unisse, abbiamo avuto l’idea che l’inquinamento, la minaccia del riscaldamento globale, la scarsità d’acqua, la carestia e simili sarebbero stati adatti… Tutti questi pericoli sono causati dall’intervento umano… Il vero nemico, quindi, è l’umanità stessa”.
Per favore, andatevelo a rileggere. In pratica, dice lui, la colpa è dell’umanità, non delle 147 banche e multinazionali globali che de facto determinano l’ambiente odierno.
Dopo il Summit sulla Terra, Strong venne nominato Assistente Segretario Generale delle Nazioni Unite e Consulente Capo di Kofi Annan. Fu il principale artefice del Protocollo di Kyoto del 1997-2005, che dichiarò che il surriscaldamento globale era reale e che era “estremamente probabile” che le emissioni di CO₂ prodotte dall’uomo ne fossero la causa principale. Nell’88 Strong fu determinante nella creazione dell’IPCC ed in séguito della Convenzione Quadro sui cambiamenti climatici al Summit sulla Terra a Rio, da lui presieduto e che approvò la sua Agenda 21.
L’IPCC ed il suo programma di riscaldamento globale è un progetto politico, non scientifico. Il suo ultimo rapporto, come i precedenti, si basa su una finta scienza. Il professor Richard S. Lindzen del MIT, in un recente discorso, ha criticato i politici e gli attivisti che affermano che “la scienza è risolta”, ed ha chiesto “cambiamenti senza precedenti in tutti gli aspetti della società”. Ha notato che è totalmente non plausibile che un così complesso “sistema multifattoriale” come il clima venga sintetizzato da una sola variabile, il cambiamento di temperatura medio globale, e controllato principalmente da una varianza dell’1-2% nel bilancio energetico dovuto alla CO₂. Lindzen ha denunciato come “un’improbabile congettura, sostenuta da false prove ripetute incessantemente, sia diventata ‘conoscenza’, usata per promuovere il capovolgimento della civiltà industriale”. Il nostro mondo ha sì bisogno di una “trasformazione radicale”, ma di una che promuova la salute e la stabilità della specie umana.
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di HMG
Fonte: comedonchisciotte.org 

26 ottobre 2018

LinuxDay in tutta Italia domani 27 ottobre 2018




Domani il LinuxDay 2018: mappa degli eventi, talk LPI a Roma

Domani si celebra il LinuxDay 2018. Sul sito il dettaglio degli eventi previsti in tutta Italia.

A Roma il talk LPI di Andrea Polidori:  'Linux, DevOps e oltre'.

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SFScon 2018: Bolzano, venerdì 16 novembre


SFScon, conferenza annuale dedicata al Free Software in Alto Adige, è rivolta a sviluppatori, programmatori e altri talenti, ma anche al grande pubblico. SFScon promuove l'uso del software libero nelle infrastrutture IT come strumento per ottenere maggiore innovazione e competitività.

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L’ascesa della Cina dal Circolo polare artico alla Terra del Fuoco


Donald Trump, per favorire la riformulazione della sua politica estera proto-neoconservatrice, è tornato agli inizi del 19° secolo. Parlando all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 25 settembre, Trump ha invocato l’arcana e discutibile Dottrina Monroe(1) del 1824. Ha affermato: “Il nostro respingere l’interferenza delle nazioni straniere in questo emisfero e nei nostri affari èla linea politica formale del nostro Paese, dal Presidente James Monroe.” L’obiettivo delle parole di Trump era chiaro: la Cina.
Il 4 ottobre, il Vicepresidente Mike Pence ha fatto seguito alla retorica anti-cinese di Trump, rendendo pubblico un avvertimento alla Cina. Nelle osservazioni fatte da Pence, davanti all’Hudson Institute di Washington di linea neo-conservatrice, ha accusato la Cina di usare “attori segreti, gruppi di facciata e organi di propaganda per spostare la percezione degli Americani riguardo alle politiche cinesi”. Ora sotto l’influenza del Consigliere per la Sicurezza Nazionale, il neoconservatore della guerra John Bolton, l’amministrazione Trump fa tintinnare sciabole contro chiunque essa e il suo principale burattinaio, Israele, ritiene opportuno sfidare: Iran, Venezuela, Siria, Cina, Nicaragua, Cuba, Bolivia e altri che resistono agli Stati Uniti. L’amministrazione Trump è diventata ciò che al rivoluzionario fondatore della moderna Cina, Mao Zedong, piaceva chiamare una “tigre di carta”.
Mentre Trump e Pence, con quest’ultimo che ha compiuto il suo terzo viaggio in America Latina nel giugno di quest’anno, stanno promuovendo i mantra della discreditata diplomazia delle cannoniere insiti alla Dottrina Monroe, in America Latina, la Cina sta arruolando i partner dell’emisfero occidentale per la sua Belt and Road Initiative, sostenuta dal Presidente Xi Jinping. Gli investimenti cinesi in infrastrutture latinoamericane e caraibiche hanno spinto tre nazioni latinoamericane – Panama, Repubblica Dominicana ed El Salvador – a cambiare i rapporti da Taiwan a Cina. L’amministrazione Trump, con una mossa infantile e poco diplomatica, ha fatto tornare a Washington i suoi Ambasciatori nella Repubblica Dominicana ed El Salvador e l’incaricato d’affari a Panama per “consultazione”.
L’amministrazione Trump ha messo in guardia Belize, Guatemala, Honduras e Nicaragua dal riconoscere la Cina, un avvertimento rivolto anche a Paraguay e ad alcune nazioni delle isole dei Caraibi che hanno legami con Taiwan. Considerando il fatto che i neoconservatori dell’amministrazione Trump stanno applicando sanzioni sul governo nicaraguense, inerenti alla finanza e al visto statunitense, è solo una questione di tempo prima che il Nicaragua sarà costretto ad abbandonare i suoi legami con Taiwan. La Cina sta investendo 50 miliardi di dollari per il Canale Interoceanico del Nicaragua, che fornirà un collegamento a livello del mare tra il Pacifico e i Caraibi,promosso dalla Cina ed è parte fondamentale della sua Belt and Road Initiative e un’alternativa al Canale di Panama, dipendente dalla sua chiusa.
Il Nicaragua e St. Lucia hanno in passato mantenuto relazioni diplomatiche con la Cina, ma si sono rivolti a Taiwan durante la competizione tra Pechino e Taipei per gli alleati diplomatici, la cosiddetta “diplomazia del libretto di assegni”. Washington sta cercando di garantire che Nicaragua, Paraguay e St. Lucia, Guatemala, Belize, Honduras e St. Vincent continuino i loro legami con Taiwan, ma gli investimenti per la Belt and Road Initiative della Cina sono più di ciò che l’amministrazione Trump, che sta riducendo gli aiuti esteri, può eguagliare oppure superare.
Inoltre, migliaia di studenti cinesi stanno studiando spagnolo e portoghese, una chiara indicazione che la Cina sta pianificando un’importante mossa nell’emisfero occidentale e i suoi progetti per rimanere nella regione.
Nel gennaio 2018, il Ministro degli Esteri cinese WangYi ha invitato i 33 membri della Comunità di Stati Latinoamericani e dei Caraibi (CELAC), riuniti a Santiago, a unirsi all’iniziativa One Belt, One Road, l’ex nome della Belt and Road Initiative. Il CELAC è stato fondato dal defunto Presidente venezuelano Hugo Chavez, come alternativa all’Organizzazione degli Stati Americani (OAS), dominata dagli Stati Uniti, un residuo dell’era della diplomazia americana delle cannoniere per assicurare che i Paesi latinoamericani fossero governati da dittatori da repubblica delle banane,condiscendenti ai capricci di Washington.
Panama è stato il primo ad aderire alla Belt and Road [Initiative] e presto è stata seguita da Antigua e Barbuda, Trinidad e Tobago e Bolivia. La Repubblica Dominicana, la Guyana e il Suriname hanno fatto seguito alcuni mesi dopo. Il Venezuela, che sostiene la Belt and Road Initiative, ha iniziato a commerciare il suo petrolio in yuan cinesi, un chiaro rimprovero all’amministrazione Trump, che ha minacciato l’invasione militare del Venezuela. Dopo il vertice CELAC-Cina a Santiago, i Ministri degli Esteri di Barbados, Argentina, Brasile, Ecuador e Giamaica hanno annunciato di essere interessati al programma Belt and Road.
Al vertice CELAC-Cina, la Cina ha delineato i suoi “Cinque principi” che governano le sue relazioni con l’emisfero occidentale. I Cinque Principi della Cina sono stati originariamente enunciati negli anni ’50 dal Capo del governo Zhou Enlai e hanno funto da base per le relazioni della Cina con il Movimento dei Paesi non allineati(2). I principi sono:
1) Rispetto reciproco dell’integrità territoriale e della sovranità;
2) Mutua non-aggressione;
3) Mutua non interferenza negli affari interni di ciascuno;
4) Uguaglianza e mutuo beneficio;
5) Coesistenza pacifica.
Quando questi principi vengono paragonati alla bellicosità dell'”imperialismo Yankee”, insita nella Dottrina Monroe, le nazioni dell’emisfero riconoscono che l’OAS, la Banca Interamericana di Sviluppo e altri strumenti basati a Washington sono usati per mascherare il paternalismo americano e, in misura crescente quello canadese, sugli affari dell’emisfero occidentale che sono minacce alla loro sovranità e indipendenza. E la Cina apporta progetti infrastrutturali che Washington non è disposta a offrire senza enormi vincoli politici, economici e militari.
I legami sino-latinoamericani hanno una forte base storica. Antropologi e archeologi cinesi e latino-americani scoprono continuamente antichi legami tra la Cina e le civiltà precolombiane nell’America meridionale e centrale. I manufatti scoperti dell’antica cultura peruviana Chavin, iniziata intorno al 1000 a.C., suggeriscono forti legami con la dinastia Shang della Cina, che esisteva tra il 1600 e il 1046 a.C. Altri antropologi stanno scoprendo indizi che indicano il possibile contatto della dinastia Shang e Ming con le civiltà degli Aztechi e Olmechi del Mesoamerica. Il DNA cinese è stato scoperto anche tra le popolazioni indigene che vivono nello Stato messicano di Nayarit, sul Pacifico. Le antiche mappe cinesi indicano anche che, per prima, la Cina era a conoscenza della grande massa continentale a est, ora conosciuta come le Americhe.
La Cina sta enfatizzando questi possibili collegamenti antichi con i popoli e le nazioni dell’emisfero occidentale. Rispetto ai “contributi” post-colombiani degli Europei all’emisfero: genocidio, conquista, distruzione di cultura e religione e introduzione di malattie veneree, vaiolo e altri patogeni importati, la Cina ha un vantaggio rispetto agli Stati Uniti, noti per il loro genocidio della popolazione nativa americana e le guerre dell’imperialismo in America centrale e meridionale e nei Caraibi.
Dopo l’invocazione della dottrina Monroe da parte del signor Trump davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, la sua politica di separare i genitori provenienti dall’America Centrale dai loro figli, al confine sud degli Stati Uniti, e di inviarli a campi di concentramento separati, e le sue ripetute minacce di invadere il Venezuela, non ci si dovrebbe sorprendere che la Cina sia accolta a braccia aperte in tutto l’emisfero.
L’America Latina sta anche colmando un vuoto commerciale lasciato dai dazi di Trump sulla Cina. Un terzo del surplus commerciale del Brasile è dovuto alle esportazioni verso la Cina. La Cina ha fornito prestiti di salvataggio al Venezuela, che ha sofferto di sanzioni paralizzanti e una destabilizzazione finanziata dalla CIA,indetta dagli Stati Uniti. L’accordo di libero scambio tra Cina e Cile del 2006 è in netto contrasto con la guerra commerciale di Trump con la Cina. Da gennaio ad agosto 2017, il commercio tra Cina e America Latina ha superato i 166 miliardi di dollari, con un aumento del 18% rispetto allo stesso periodo del 2016. Mentre Trump ha espanso la sua guerra commerciale e ha fatto ritornare gli Stati Uniti alla loro vecchia politica paternalistica verso l’emisfero, la Cina era disposta e desiderosa di prendersene carico.
Le “vie della seta”, marittima e terrestre, della Cina sono state estese dalla Groenlandia, al di sopra del Circolo polare artico, fino alla Terra del Fuoco nel sub-antartico. Queste vie della seta stanno bypassando gli Stati Uniti, poiché il signor Trump e le sue politiche letargiche e superate rendono gli Stati Uniti ancora più irrilevanti in un mondo che si modernizza.
Tradotto per www.comedonchisciotte.org da NICKAL88
Note a cura del traduttore
  •  La dottrina Monroe, elaborata da John Quincy Adams e pronunciata da James Monroe al messaggio annuale al Congresso il 2 dicembre 1823, esprime l’idea della supremazia degli Stati Uniti nel continente americano. Monroe affermò in quel discorso che gli Stati Uniti non avrebbero tollerato alcuna intromissione negli affari americani, ad eccezione delle colonie americane di proprietà europea, da parte delle potenze del vecchio continente. Essa sanciva, di conseguenza, la volontà degli USA di non intromettersi nelle dispute fra le potenze europee, e fra ciascuna potenza europea e le rispettive colonie d’oltremare.Considerata la primissima formulazione teorica dell’imperialismo statunitense […].
  • Il Movimento dei paesi non allineati (o, più raramente, Movimento dei non allineati) è un gruppo di 120 Stati, più altri 17 Stati osservatori, che si considerano non allineati con, o contro, le principali potenze mondiali.
Rappresenta oltre due terzi di tutti gli Stati del mondo e dal 2016 il suo segretario generale è NicolásMaduro, presidente del Venezuela.

Fonte: comedonchisciotte.org

17 ottobre 2018

GIORNALISMO D’INCHIESTA / IN ABRUZZO SI SPEGNE UN’ALTRA VOCE


Cala – speriamo solo per ora – il sipario su PrimaDaNoi, un eccellente quotidiano on line realizzato in Abruzzo e diretto da con passione, coraggio e professionalità da Alessandro Biancardi. Ne siamo profondamente dispiaciuti perchè rappresentava da anni un raro esempio di giornalismo investigativo autentico, capace di scavare e scovare nel marcio della malapolitica, di alzare gli altarini su affari, sigle e personaggi che la fanno da padrone nelle loro aree.
Proprio giorni fa rileggevamo una lunga e interessante inchiesta sulla Proger, una società d’ingegneria di origini pescaresi diventata leader in Italia: intrecci da brividi che anche la Voce ha sovente affrontato.
Ne hanno subito tante, i colleghi di PrimaDaNoi, sono stati attaccati per via giudiziaria dai poteri forti, hanno dovuto subire i morsi dalla giustizia che ti viene negata anche quando hai rispettato in pieno le regola del buon giornalismo, della deontologia, della massima professionalità. Eppure, chi è debole ormai sempre nelle aule giudiziarie, con sentenze civili velocissime, soccombe. Ed anche penali che oggi prevedono una straordinaria rapidità “d’esecuzione”, sparandoti addosso una provvisionale che si concede solo per reati gravissimi. Ebbene, noi della Voce ne abbiamo subite negli ultimi mesi 3 di identico tipo, 3 condanne a 7 mila euro ciascuna che sembrano fatte con lo stampino, e infatti sono firmate dalla stessa giudice.
Hanno deciso, di tutta evidenza, di sopprimere quel poco che resta di liberà di stampa per mano giudiziaria (oltre che economica: la pubblicità sempre più scarsa), di affossare una volta per tutte quel po’ di giornalismo d’inchiesta che dà fastidio al potere, impegnato ora – con manovre di depistaggio giudiziario – a non farci conoscere mai quali sono killer e mandanti dell’omicidio di Ilaria Alpi Miran Hrovatin, chi ha messo quel tritolo in via D’Amelio.
Ben contenta la politica, vecchia e nuova, visto il prurito che il giornalismo, quello vero, ha suscitato tempo fa in un D’Alema, poi in un Renzi, ora in un Di Maio. Uniti nella lotta – lorsignori – ad evitare che si faccia luce sui buchi neri della nostra marcia Repubblica e ad affossare quel po’ di giornalismo che va a caccia non di fake news, ma di verità e giustizia.
In basso pubblichiamo la lettera di commiato del bravo direttore Biancardi.
Ma prima di salutarci volevamo segnalare un altro caso, stavolta nel giornalismo radiofonico “d’inchiesta”. E’ stato licenziato di punto in bianco David Gramiccioli, per diversi anni direttore di Colorsradio, una coraggiosa emittente romana che non aveva paura di affrontare i temi più bollenti, dalle mafie ai gialli e misteri d’Italia, dai traffici di monnezza al potere di Big Pharma.
E forse proprio le battaglie sui vaccini – uno dei business principali delle industrie farmaceutiche, per le quantità di prodotto smerciato, nonostante le smentite di scienziati taroccati – sono costate il lavoro a David, che dirige anche una compagnia teatrale di giornalismo d’inchiesta. Un forte in bocca al lupo a lui e a chi lo aiuta nel suo difficile lavoro di denuncia.

L’EDITORIALE DI ALESSANDRO BIANCARDI
COSÌ MUORE UN QUOTIDIANO
Quando le candeline diventano un cero: 26 settembre 2005-26 settembre 2018
Abruzzo. PrimaDaNoi.it si spegne. È l’annuncio che non avremmo mai voluto dare e che da anni abbiamo cercato di allontanare il più possibile, fino a quando resistere non è stato più sufficiente. Così siamo costretti a fermarci: da oggi non troverete più notizie aggiornate qui.
Il 26 settembre 2005 nasceva il primo quotidiano on line per la regione Abruzzo in un momento in cui la tecnologia era ancora una speranza da queste parti, appena prima dei grandi scandali e in un momento di forti cambiamenti.
Il 26 settembre 2018, 13 anni esatti dopo, dobbiamo fermarci perché non possiamo più garantire la sostenibilità del quotidiano e lo facciamo prima di contrarre debiti che non potremo onorare.
È la fine di un sogno che si è trasformato in un incubo, poiché spesso siamo diventati noi il nemico di troppi e il bersaglio da colpire.
PrimaDaNoi.it muore per asfissia lentissima: un quotidiano vive di pubblicità ma siamo stati bravini a raccogliere quella nazionale e pessimi a convincere gli imprenditori sotto casa. Chissà perché…
PrimaDaNoi.it muore per l’isolamento nel quale è stato relegato solo perché siamo stati “cattivi” con i potenti e qualche difficoltà (piccolissima) in questi lunghi anni gliela abbiamo pure creata.
PrimaDaNoi.it muore perché in questa terra, oggi, la verità, l’informazione, il giornalismo d’inchiesta non sono ritenuti ancora beni vitali dal cittadino comune.
E quindi è la fine di un ciclo, di una stagione della nostra vita e di qualcosa di impalpabile che c’è e che assomiglia, chissà, forse, ad un punto di riferimento o ad una boccata d’aria.
È molto probabile che tra un paio di mesi anche il sito, con i suoi 500mila articoli di cronaca e inchieste abruzzesi, svanirà nel cimitero digitale e non vi sarà più alcuna traccia di quello che è stato.
Per noi, però, non è una sconfitta: non siamo noi a perdere.
Noi siamo quelli che per 13 anni esatti hanno resistito ad ogni sorta di tempesta, sgambetto o tranello, che hanno nuotato sempre controcorrente (purtroppo) e hanno combattuto soli contro tutti.
E quello che non ti ammazza, ti spegne: anche se ci è riuscito solo ora.
Lo diciamo chiaramente e urlando perché rimanga agli atti: la fine di PrimaDaNoi.it è la prova inconfutabile che l’informazione libera, svincolata e indipendente davvero non può esistere, se non per poco.
I patti, invece, sono la via unica anche per un giornale di sopravvivere ed è proprio per questo che non si può essere “indipendenti”, come noi, da tutti; a qualcuno devi pur appoggiarti e fare qualche favore se vuoi che poi ti difenda.
Come direttore mi ritengo l’unico responsabile per aver sempre tenuto una linea editoriale intransigente, improntata solo all’interesse pubblico senza mai farci intralciare da quelli privati (nemmeno i nostri).
La mia è stata una leggerezza imperdonabile ma mai avrei potuto immaginare che il Paese fosse malato a tal punto da trasformare una così preziosa virtù in una sentenza di morte.
Come giornale abbiamo sempre seguito i più alti principi morali (dunque nulla di più antiquato e retrogrado) e certe cose si pagano, qui ed ora, a caro prezzo.
Quando abbiamo iniziato immaginavamo che sarebbe stato difficilissimo ma non conoscevamo certi biechi meccanismi e certi ingranaggi che poi ci hanno stritolato.
Mai avremmo potuto immaginare, per esempio, di inaugurare una nuova stagione di dittature e censure come quelle avviate dalle ignobili sentenze sul “diritto all’oblio” che, nel 2010, per primi al mondo, ci hanno colpito, e da allora e a causa di quelle decisioni, il declino è stato inesorabile e ancora più veloce.
Condannati per aver violato una legge che non c’è in nome della privacy che serve per censurare, intimorire e restituire la verginità a qualche delinquente che non ha imparato la lezione.
Siamo stati costretti dal “sistema” ad essere come un soldato in campo aperto senza difese, bersaglio facile da colpire e solo perché la “Giustizia” l’abbiamo incrociata pochissime volte.
Noi abbiamo cercato di difendere il vostro diritto di conoscere negando la cancellazione di articoli veri e mai diffamatori e ci siamo trovati contro prepotenti e giudici.
Per dirne una, c’è un tizio che da sette anni mi minaccia di morte e profetizza di lasciarmi in mutande: per fortuna si è avverata solo la seconda.
È stato un continuo e disgustoso tiro al piccione.
L’informazione seria e le inchieste giornalistiche hanno per noi un carattere sacrale ma costano tanti soldi, molta fatica e svariate conseguenze e noi, da soli, per questi anni ci siamo fatti carico di tutto questo ma ora non siamo più in grado di fronteggiare tutti i rovesci ed i guasti di un Paese degradato.
Non è sbagliato dire, dunque, che le istituzioni sono state complici della nostra condanna a morte.
Grazie a tutti quelli che ci hanno seguito con assiduità, letto con attenzione, che hanno potuto sapere e scoprire l’Abruzzo in questi 13 anni.
Magari che hanno sperato con noi che le cose potessero migliorare.
Da oggi tutti quelli che pensavano a noi per denunciare qualcosa che loro non avevano il coraggio di fare dovranno rivolgersi altrove.
A quelli a cui siamo antipatici e che oggi non sono affranti come noi dico che prima o poi arriva per tutti il momento di avere bisogno di un quotidiano davvero onesto e libero per conoscere o raccontare.
Noi la nostra parte l’abbiamo fatta.
Non c’è altro da dire e non ne vale la pena.
Punto.
E basta.

Alessandro Biancardi”

13 ottobre 2018

Ecco cosa ho scoperto trascorrendo una giornata con Gideon Levy, il più discusso giornalista israeliano


Gideon Levy è un po’ un re filosofo. Seduto nel suo minuscolo giardino in un sobborgo di Tel Aviv, col cappello di paglia che gli nasconde gli occhi scuri maliziosi, c’è però un che di un personaggio di Graham Greene nel più famigerato scrittore di Haaretz. Coraggioso, malinconico, sovversivo – in modo duro ed intransigente – è il tipo di giornalista che o si ama o si odia. I re filosofi del tipo di Platone sono forse necessari per la nostra salute morale, ma non sono buoni per la nostra pressione sanguigna. La vita di Levy è stata così minacciata dai suoi connazionali sol per aver detto la verità; e questo è il miglior premio che un giornalista possa ottenere.
Ama il giornalismo ma è inorridito dal suo declino. Il suo inglese è impeccabile ma a volte si infervora. Ecco un Levy arrabbiato sull’effetto delle storie dei giornali: “Nell’86, scrissi di una donna beduina palestinese che perse la propria bambina dopo aver dato alla luce in un posto di blocco. Provò in tre diversi posti [israeliani], le venne impedito e diede alla luce in auto. Loro [gli israeliani] non le permisero di portare il bambino in ospedale. Lo portò a piedi per due chilometri fino all’Augusta Victoria [ospedale di Gerusalemme Est]. Il bambino morì. Quando pubblicai questa storia – non voglio dire che Israele “trattenne il fiato”, ma fu un enorme scandalo, era coinvolto il governo, due agenti vennero portati in tribunale…”.
Poi Levy ha trovato altre dieci donne che avevano perso bambini ai checkpoint israeliani. “E a nessuno potrebbe importare di meno oramai. Oggi posso pubblicarlo e la gente sbadiglierebbe, quand’anche lo leggesse. [È] totalmente normalizzato, totalmente giustificato. Ora abbiamo una giustificazione per tutto. La disumanizzazione dei palestinesi ha raggiunto un livello di totale disinteresse. Posso dirvi, senza esagerare, che se un cane israeliano venisse ucciso dai palestinesi, otterrebbe più attenzione sui media israeliani che se 20 giovani palestinesi venissero uccisi – senza che abbiano fatto nulla – a colpi di arma da fuoco da cecchini sulla recinzione a Gaza. La vita dei palestinesi è diventata la cosa a meno prezzo. È un intero sistema di demonizzazione, di de-umanizzazione, un intero sistema di giustificazione: “noi” abbiamo sempre ragione e non possiamo mai sbagliare”.
Poi Levy se la prende con la brigata buonista. “Sto parlando dei liberali. Ci sono quelli [israeliani] che sono felici di qualsiasi morte palestinese. I liberal però ti daranno mille giustificazioni per mantenere la propria coscienza pulita e per non essere disturbati – ‘Non puoi sapere cos’è successo lì, non ci sei stato e, sai, puoi vedere solo parte dell’immagine…’. Ed è molto difficile continuare a raccontare queste bugie, questa è la più grande frustrazione. Vedono i cecchini uccidere un bambino che saluta. Lo fanno vedere in tv, cecchini che uccidono una bella infermiera in uniforme. Vedono un 15enne schiaffeggiare un soldato ed andare in prigione per otto mesi. E giustificano tutto”.
Facile intuire perché, non molto tempo fa, a Levy è stata data una guardia del corpo. “Sai, Robert, per così tanti anni, mi hanno detto: ‘Cerca di essere un po’ più moderato… Dì qualcosa di patriottico. Dì qualcosa di positivo su Israele’. Alla fin fine, diciamo e scriviamo ciò che pensiamo, e non pensiamo alle conseguenze. E devo dirti, molto francamente, che il prezzo pagato oggi da un giornalista russo o turco è molto più alto di qualsiasi altro. Non esageriamo. In fin dei conti, sono ancora un cittadino libero ed ho ancora totale libertà: libertà totale di scrivere ciò che voglio, soprattutto grazie al mio giornale – che è così solidale”.
“Sai, il mio editore è forse l’unico al mondo disposto a pagare milioni in termini di disdette per un articolo che ho scritto. A qualsiasi sottoscrittore che è arrabbiato con me direbbe: ‘Sai una cosa? Forse Haaretz non è il giornale per te!’. Dammi un altro editore che parla così. Grazie a lui, ho piena libertà. Dico quel che penso e sento”.
Il che ci dice qualcosa sia su Israele che sull’editore di Levy. Israele non sfugge mai però alle sue stoccate. “La cosa peggiore che stiamo combattendo è l’indifferenza”, dice. “L’apatia – che abbiamo così tanto in Israele. Se riesco quindi a scuotere i lettori in qualsiasi modo, a mandarli fuori di testa, a farli arrabbiare con me, con quel che dico… sai, molte volte penso che se li faccio arrabbiare così tanto, è un segno che da qualche parte nella loro coscienza sanno che qualcosa non va bene. Ci sono però momenti in cui hai paura, specialmente la sera prima in cui [un articolo] viene pubblicato. Mi dico sempre: ‘Non avrò esagerato stavolta?’. E poi, quando lo rileggo, dico sempre: ‘Avrei dovuto essere molto più estremo!’. Penso sempre di non esser andato abbastanza a fondo”.
Nella storia di Levy, il giornalismo ed Israele si intrecciano. Il suo rapporto di odio-amore con l’uno può essere confuso con il suo orrore per il sentiero su cui il suo paese – in cui i suoi genitori sono fuggiti dall’Europa quando era ancora Palestina – ora viaggia. “La cosa che mi manca davvero, le mie più grandi storie provenivano dalla Striscia di Gaza. E sono 11 anni che mi viene impedito di andarci, perché Israele non lascia entrare alcun israeliano, ancorché con doppia cittadinanza. Anche se la aprissero, pochissimi israeliani si preoccuperebbero di andarci. Hamas forse li fermerebbe. È un ordine contro cui i giornalisti israeliani non hanno mai protestato – tranne me. Perché a loro non potrebbe importare di meno – ricevono le informazioni dal portavoce dell’esercito israeliano – perché dovrebbero prendersi la briga di andare a Gaza?”.
Per Levy, invece, è una cosa professionale. “È una perdita molto profonda, perché le storie più forti erano sempre, e sono ancora, a Gaza. Il fatto che non possa essere lì in questi giorni… Voglio dire, mi chiedo sempre: ‘qual è il posto in cui vorresti di più andare nel mondo? Bali?’. E dico sempre la verità. ‘Gaza. Datemi una settimana a Gaza ora. E non ho bisogno di niente di più”.
I blog non hanno la credibilità dei giornali, dice Levy. “Dico però ai giovani – se e quando lo chiedono – di andare avanti. [Il giornalismo] è un ottimo lavoro, una professione meravigliosa. Non volevo diventarlo. Volevo diventare primo ministro. Le mie prime due scelte erano autista di autobus o primo ministro. Nessuno dei due ha funzionato. Sì, è una questione di leadership. L’autista del bus è il leader, dice lui alle altre persone cosa fare. Continuo a dire ai giovani: ‘Non troverete mai una professione del genere, con così tante opportunità. Avete bisogno solo di una cosa soprattutto, dovete essere curiosi’. È una qualità piuttosto rara, molto più rara di quanto si pensi, perché noi giornalisti pensiamo che tutti siano curiosi come noi”.
Il pessimismo oramai è in molti israeliani, nessuno più di Levy. “Guarda, ora abbiamo a che fare con 700.000 coloni [ebrei]. Non è realistico pensare che vengano cacciati 700.000 coloni. Senza la loro completa evacuazione, non si avrà mai uno stato palestinese vitale. Lo sanno tutti, ma tutti continuano con le solite solfe, perché fa comodo – all’Autorità Palestinese, all’Unione Europea, agli Stati Uniti – [dire] “due stati, due stati”. Dicendo così, l’occupazione durerà altri cento anni. Non succederà mai più. Abbiamo perso questo treno, e non tornerà mai più alla stazione”.
Torniamo ai peccati del giornalismo moderno. “Ammettiamolo – è tutto sui social media ora. Il nostro giornalismo sta morendo. Ora basta fare un tweet molto sofisticato. E per farlo, non devi andare da nessuna parte – seduto nella tua stanza, con un bicchiere di whisky, puoi essere molto, molto sofisticato con un certo senso dell’umorismo, e molto cinico. E questo forse è il problema principale. Voglio dire, pochissimi giornalisti si preoccupano davvero di qualcosa, agli altri importa apparire brillanti. Immagino ci siano alcune eccezioni. Non le vedo però né in Israele né in Cisgiordania. Sono attivisti ma non giornalisti. Ci sono molti giovani attivisti, che sono adorabili”.
Levy concorda sul fatto che Amira Hass di Haaretz, che vive in Cisgiordania, sia una sua pari, perlomeno per l’età – ha 65 anni – e “porta davvero il giornalismo ad un livello superiore perché vive con loro. Penso sia davvero senza precedenti: un giornalista che ‘vive col nemico’. Paga anche un grosso prezzo, in termini di minore importanza qui [in Israele]”.
Più volte però il giornalismo va sotto il microscopio di Levy. “Abbiamo alcuni giovani che vanno nelle zone di guerra solo per mostrare il proprio coraggio. Sono stati in Iraq, in Siria, in Iran. Tornano di solito con foto di sé nella reception dell’hotel, o in una sorta di cosiddetto campo di battaglia. Quando andai a Sarajevo nel ’93, ci andai anche per cercare l’ingiustizia. Non sono andato solo per ‘seguire la storia’. Ho cercato la “cattiveria” di una guerra. Penso ci sia stato molto male a Sarajevo. Ho visto cose che non ho mai visto qui – vecchie signore che scavavano nel terreno per cercare radici, perché non avevano alcunché da mangiare. L’ho visto coi miei stessi occhi. Qui, nei territori occupati, non lo vedi”.
I corrispondenti stranieri fanno poco meglio. “Vedo giornalisti, anche adesso, in piedi vicino alla recinzione [di Gaza], giornalisti che possono entrarci – in quei mesi sanguinosi, con quasi 200 vittime disarmate – e stanno molto, molto lontano. Entrare a Gaza ora non è pericoloso per i giornalisti stranieri. Li vedo però, alla BBC – ed anche su Al-Jazeera ogni tanto – dare i propri resoconti da una collina nel sud di Israele. Ricevono dei filmati, ovviamente dai social media, dai giornalisti locali. Non è però lo stesso”.
Come persistente critico di Israele e della malvagità del suo furto coloniale e del suo vile trattamento contro i palestinesi, mi trovo stranamente in contrasto con Levy – non tanto per la sua condanna dei giornalisti, quanto per la sua critica al popolo. I lettori israeliani sarebbero davvero più interessati alla morte di un cane israeliano che al massacro di 20 palestinesi? Sono scarsamente istruiti come sostiene Levy? Ha un po’ dell'”O tempora o mores”.
“Israele sta diventando uno dei paesi più ignoranti al mondo”, dice questo 65enne Cicerone. “Qualcuno ha detto che è meglio mantenere la gente ignorante… Le giovani generazioni non sanno nulla di nulla. Prova a parlare con qualcuno di loro – non ne hanno idea. Le cose più basilari – chiedi loro chi era Ben Gurion, chi era Moshe Dayan. Chiedi loro cosa sia la “Linea Verde”. Chiedi loro dove sia Jenin. Niente. Ancor prima del lavaggio del cervello, c’è l’ignoranza – parte di ciò che sanno è totalmente sbagliato”.
Un cameriere europeo parla meglio l’inglese di un giovane israeliano medio, sostiene Levy. La conoscenza dell’Olocausto e dei viaggi all’estero “è principalmente un’esperienza di viaggio con la loro scuola superiore ad Auschwitz, dove ti viene detto che il potere è l’unica cosa che conta: il potere militare, questa è l’unica garanzia, nient’altro che il potere militare; e che Israele, dopo l’Olocausto, ha il diritto di fare tutto ciò che vuole. Queste sono le lezioni. Nulla che abbia a che fare con la conoscenza”.
Sì, dice il nostro re filosofo, c’è “un ristretto gruppo di brillanti intellettuali”, ma un recente sondaggio ha scoperto che metà dei giovani israeliani riceve un’educazione da Terzo Mondo. Noi – e qui sono incluso nella generazione di Levy – siamo venuti al mondo dopo degli “eventi drammatici”. La Seconda Guerra Mondiale. Nel suo caso, la fondazione dello stato di Israele. I suoi genitori “si sono salvati all’ultimo minuto” dall’Europa.
“Avevamo anche delle valigie storiche sulle nostre spalle, nessun Facebook e Twitter potevano cancellarle. Oggi non ci sono eventi storici, neanche in questa regione. Cosa sta succedendo qui? Niente – tutto è più o meno uguale. Cinquant’anni di occupazione, nulla è sostanzialmente cambiato. Siamo nella stessa struttura… certo, più insediamenti, brutalità e meno la sensazione che la cosa sia temporanea. Ora è chiaro che non lo sia. Oramai è parte integrante di Israele”.
Ho chiesto a Levy se il sistema di voto proporzionale fosse stato fatto per creare governi di coalizione senza speranza. “Abbiamo quel che siamo”, risponde in modo sconfortante. “Israele è molto nazionalista, di destra e religiosa – molto più di quanto si pensi – ed il governo è uno specchio perfetto del popolo. Netanyahu è il miglior conduttore di Israele. È di gran lunga troppo istruito per il paese – ma, nella sua visione, questa è Israele. Potere, potere e potere – mantenere lo status quo per sempre, non credere affatto agli arabi. Non credere in alcun tipo di accordo con gli arabi, mai. Vivere solo di violenza, in un totale stato di guerra”.
Le relazioni con gli Stati Uniti sono facili. “Non credo che la gente sappia quanto Netanyahu detti la politica americana. Qualunque cosa sia decisa ora – UNRWA [l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione per la Palestina], tutti i tagli – viene da Israele. A Trump non potrebbe importare di meno. Pensi che sapesse cosa fosse l’UNRWA prima? Il razzismo è ora politicamente corretto”. Dove sono allora iniziati i problemi? “Nel ’67, lì è avvenuto il peccato originale. Tutto inizia da lì. E, volendo, il 1948 – perché il ’48 non si è mai fermato in quell’anno. Potremmo davvero aver aperto un nuovo capitolo”. Ci sono ancora esempi di grandi uomini, insiste, anche nel mondo post Seconda Guerra Mondiale. Mandela, ad esempio.
Il giornalista più irascibile ed irritante di Israele dice però anche che “forse siamo troppo vecchi e solo amareggiati, pensavamo di essere i migliori…”. All’apice del sua discorso, appena dietro di noi, un enorme gatto bianco salta dalla siepe del giardino in preda al panico, inseguito da un gatto grigio ancor più grande che digrigna i denti e tira su foglie e polvere. Il gatto più piccolo rappresenta i nemici di Levy. E, nonostante i suoi 65 anni, potete indovinare chi mi ricorda il gatto più grande.
Robert Fisk

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