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21 febbraio 2019

ILARIA ALPI / LA GIORNALISTA CHE VENNE UCCISA DUE VOLTE. NEL PIU’ TOTALE SILENZIO


 Uno dei più colossali depistaggi di Stato trova oggi la sua ennesima archiviazione. Per il caso di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, infatti, il gip del tribunale di Roma, Andrea Fanelli, dopo la richiesta avanzata dal pm Elisabetta Ceniccola e controfirmata dal procuratore capo Giuseppe Pignatone, ha messo la pietra tombale su quell'omicidio e su quel depistaggio.
Non bastavano le ultime news su un altro omicidio e un altro clamoroso depistaggio, quello di Paolo Borsellino: ora la giustizia (sic) di casa nostra concede il bis.
Un'altra vergogna che suona come un ceffone in faccia a tutti gli italiani che ormai vedono la Giustizia quotidianamente calpestata, senza che nessuno ad alcun livello, tantomeno politico, si alzi per dire qualcosa.
Totali muri di gomma, emblematizzati dagli omertosi e complici silenzi dei media.
Avete letto un rigo su Repubblica o il Corriere della Sera per Alpi e Borsellino?

IL BUIO DOPO PERUGIA
Sintetizzamo le ultime vicende del giallo Alpi. Partiamo dalla clamorosa sentenza di Perugia, che due anni fa ha permesso di riaprire il caso. Una sentenza che ha scagionato Hashi Omar Assan, il giovane somalo che aveva scontato 16 anni di galera ingiustamente: il mostro sbattuto in prima pagina dai media e soprattutto dagli inquirenti.

Omar Hassan Hashi. In apertura Ilaria Alpi

Proprio come nel caso Borsellino, anche questa volta la condanna di un innocente e la non-caccia ai veri esecutori e mandanti, è stata prodotta da un teste taroccato, Ali Rage, alias Gelle, preparato di tutto punto della polizia per fornire una versione fasulla, inventata da cima a fondo. Gelle, infatti, verbalizzò davanti a un pm ma non fu mai presente al processo: nonostante ciò Hashi Assan venne condannato, basandosi solo su quel teste, senza alcun altro riscontro. Ai confini della realtà.
Quel teste, che era stato preparato dalla polizia a fornire quella versione accusatoria contro Hashi Assan – proprio come Vincenzo Scarantino per i primi processi Borsellino – dopo ebbe paura, trascorse un paio di mesi a Roma sotto protezione della polizia, dai cui agenti veniva accompagnato in un'officina auto e la sera riportato nel suo rifugio. Poi Gelle partì in tutta tranquilltà per la Germania, quindi traslocò in Inghilterra.
Nel frattempo le forze dell'ordine neanche lo hanno cercato, pur dovendo testimoniare al processo, che comunque è andato incredilmente in porto, con la condanna di Hashi Assan.
Chi invece riesce a trovare Gelle con facilità e senza ovviamente poter contare sui mezzi di cui dispongono gli investigatori, è l'inviata di "Chi l'ha visto" Chiara Cazzaniga. Si informa presso la comunità somala di Roma, ottiene alcuni recapiti londinesi, vola lì e dopo alcune perlustrazioni trova senza tanti problemi Gelle. Il quale le rilascia una lunga intervista, in cui tira fuori la verità: certo non quella che fu costretto a raccontare al pm romano che la bevve d'un fiato, ma tutta un'altra storia. Dove Hashi Assan non c'entra assolutamente niente.
Racconta il suo "taroccamento", la versione che venne obbligato a recitare, e il dopo, con la protezione della polizia, il lavoro presso l'officina della quale fornisce tutti i dettagli, la comoda fuga e il quieto soggiorno londinese.

L'avvocato Douglas Duale

L'intervista consente all'avvocato del giovane somalo, Douglas Duale, di far riaprire il caso, competente per territorio Perugia, visto che vi sono implicati magistrati romani.
Una sentenza che fa storia, quella perugina, perchè si parla a chiare lettere di depistaggio di Stato. Nella sentenza viene ricostruito tutto il depistaggio mossa per mossa, azione per azione. Vengono fatti i nomi dei poliziotti – anche eccellenti – coinvolti, vengono forniti fortissimi elementi probatori, tracciate alcune solide piste.
A questo punto è un gioco da ragazzi, per la Procura di Roma, proseguire su quel solco tracciato da Perugia. I legali della famiglia Alpi (Antonio D'Amati, Giovanni D'Amati e Carlo Palermo) e soprattutto la madre di Ilaria, Luciana Riccardi, vedono finalmente uno squarcio nel buio e ovviamente chiedono la riapertura delle indagini.
Ma nonostante quella stradocumentata sentenza alla quale basterebbe dare un seguito, il pm Elisabetta Ceniccola della procura romana incredibilmente chiede l'archiviazione del caso, perchè a suo parere non vi sono elementi tali da proseguire nelle indagini, anche perchè sarebbe ormai trascorso troppo tempo. A controfirmare, quindi avallare in toto, quella richiesta di archiviazione è il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone. Siamo sempre più ai confini della realtà.
Eccoci agli ultimi mesi. Ad un certo punto sembra aprirsi un altro spiraglio, perchè dalla procura di Firenze arrivano dei materiali. Nel corso di un'indagine su altri fatti, i procuratori gigliati si imbattono in alcune intercettazioni telefoniche tra somali del 2011. In esse si parla anche dell'omicio di Ilaria e Miran.

La Procura di Roma

A Roma quindi si riapre il caso: o almeno sembra. Ma trascorono solo pochi mesi e di nuovo il pm Ceniccola chiede l'archiviazione, nonostante i legali di Ilaria abbiano nel frattempo prodotto altre memorie e presentato altri elementi. Niente, la procura capitolina ormai sembra tornata quel porto delle nebbie di tanti anni fa.
La richesta del pm Ceniccola a questo punto passa al vaglio definitivo del gip, Andrea Fanelli. Che inizia ad esaminare carte e documenti, poi chiede altro tempo prima di pronunciarsi.
La sua decisione, per l'archiviazione finale, arriva il 6 febbraio, e nei prossimi giorni verrà notificata alle parti, le quali potranno capire le motivazioni di tale scelta.

LA MAGISTRATURA GUARDA
Recapitolando. E' noto e stranoto che Ilaria Alpi e Miran Hrovatin a Mogadiscio all'epoca stavano indagando sui traffici di armi e rifiuti super tossici.
Che avevano scoperto i fili di quei traffici, i quali vedevano come protagonisti faccendieri italiani in combutta con i Servizi segreti sia somali che, soprattutto, italiani.
Che la Somalia era diventata un'ottima discarica per interrare enormi quantità di rifiuti in cambio di armi.
Che la rotta principale per l'interramento era la superstrada Mogadiscio-Bosaso, dove venivano ammassati e poi nascosti centinaia e centinaia di bidoni tossici.
Che quei traffici venivano addirittura agevolati dai soldi della cooperazione internazionale e del Fai (fondo aiuti internazionali)
Che vi erano impegnate imprese anche "eccellenti" le quali non verranno mai toccate e anzi negli anni vedranno aumentare i loro fatturati. La circostanza è tra l'altro documentata in altri procedimenti giudiziari in cui vengono tirate in ballo.

Giuseppe Pititto

Che l'ambasciatore italiano dell'epoca sapeva – anche delle inchieste di Ilaria – ed è stato a guardare. Nè ha collaborato con le autorità italiane che dal canto loro facevano finta di indagare.
Che 7 magistrati si sono alternati nelle inchieste senza mai cavare un ragno dal buco.
Che solo il primo magistrato impegnato, Giuseppe Pititto, aveva imboccato la pista giusta. Per questo l'indagine gli è stata sottratta senza alcun motivo, la rituale "incompatibilità ambientale". Dopo alcuni anni Pititto, nauseato, ha lasciato la magistratura, è passato a fare il dirigente alla Provincia di Roma e ha scritto un thriller che ricalca in modo perfetto il caso-Alpi: "Il grande corruttore", dove viene descritto il delitto di una giornalista, un omicidio di Stato in piena regola (il mandante è addirittura un ministro che diventerà presidente della repubblica…).
Che all'epoca la Digos di Udine aveva raccolto molto materiale che già indicava la pista giusta (rifiuti-armi-cooperazione).
Che il Consiglio superiore della magistratura non ha mia detto una parola su quei magistrati.
E' altrettanto noto che la famiglia Alpi non ha mai smesso di denunciare l'inerzia dei magistrati e la totale assenza della politica nel chiedere verità. Hanno rinunciato a portare avanti il "Premio Alpi" che ogni anno si teneva a Rimini, delusi dai colpevoli silenzi dei media. La madre di Ilaria ha sempre detto: "Lotterò fino alla fine dei miei giorni perchè sia fatta giustizia per mia figlia". Non ce l'ha fatta, è morta un anno fa.
Ed è soprattutto evidente che la giustizia italiana ormai è morta e sepolta. Le ultime due picconate sono state inferte per il caso Borsellino e per quello di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.
Uccisi due volte.
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07 luglio 2018

GIALLO ALPI / ENNESIMO DEPISTAGGIO: TORNA IL MISTER X COPERTO DAL SISDE



Dopo ventiquattro anni di interminabili attese, di giustizia negata, di clamorosi depistaggi di Stato, di vertici istituzionali che hanno remato palesemente contro, pur tra non pochi chiaroscuro si accende un barlume di speranza per far luce sull'assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin a Mogadiscio.
Il gip della procura di Roma, Andrea Fanelli, che avrebbe dovuto decidere sulla archiviazione tombale dell'inchiesta, così come per due volte chiesto dal pm Elisabetta Ceniccola con la strategica controfirma del procuratore capo Giuseppe Pignatone, ha ottenuto altri sei mesi di indagini per focalizzare alcuni punti bollenti e capire se una verità processuale è ancora alla portata di un Paese che osa definirsi civile.
Tutta la vicenda, anche negli ultimi sviluppi, è coperta da un totale silenzio mediatico: solo i siti scrivono qualcosa, i media di regime, Repubblica e Corsera in testa, calano il consueto muro di gomma. I sindacati, dal canto loro, inscenano qualche 'girotondino', niente di più.

L'ORDINANZA DEL GIP FANELLI



Il Tribunale di Roma. In alto
Ilaria Alpi

Ma partiamo dalle 14 pagine dell'ordinanza pronunciata il 26 giugno dal gip Andrea Fanelli.
In primo luogo la toga ritiene che l'incompetenza territoriale di Roma, come chiesto dagli avvocati di parte civile, non sia fondata. Eppure c'era il clamoroso precedente della sentenza pronunciata circa un anno fa da Perugia che, nel prosciogliere da ogni accusa il povero Hashi Omar Hassan che ha scontato ben sedici (16) anni di galera da innocente, aveva scritto espressamente di "Depistaggio di Stato" per l'immensa mole di prove raccolte su infedeli servitori dello stato e inquirenti tutti tesi ad incastrare il somalo innocente, addirittura costruendo a tavolino un teste taroccato, Ahmed Ragi, alias Gelle.
In un lungo excursus storico-processuale, il gip ricostruisce le prime vicende della story, quando il fascicolo processuale venne letteralmente scippato dalle mani dell'unico pm che voleva far luce sul giallo, Giuseppe Pititto, come del resto hanno sempre sostenuto i genitori di Ilaria. 
Fanelli scrive di "rapporti molto tesi all'interno dell'ufficio della Procura di Roma" e in particolare fra l'allora procuratore capo Salvatore Vecchione e lo stesso Pititto. Un braccio di ferro che vede evidentemente soccombere il subordinato Pititto, il quale per la consueta "incompatibilità ambientale" viene allontanato da Roma: pur potendo contare su una serie di ragguardevoli risultati in breve raggiunti, come l'attivazione di contatti con la Digos di Udine che aveva raccolto materiali non poco scottanti. Materiali che, evidentemente, era meglio mettere a marcire nei cassetti, coperti di polvere.


Giuseppe Pititto

L'inchiesta passa al più malleabile Andrea De Gasperis, il quale non brillerà certo per attivismo negli anni successivi. Lo stesso Fanelli rammenta, nella sua odierna ordinanza, le forti lamentele di Pititto a proposito della revoca dell'incarico, proprio mentre aveva intenzione di ascoltare testi da non poco. Scrive Fanelli: "In definitiva, secondo Pititto, per conoscere la causa della morte di Ilaria Alpi bisognava partire dal motivo per il quale l'indagine gli era stata sottratta". Se vi par poco…
Minimizza comunque Fanelli: l'esclusione di Pititto dalle indagini non era dovuta a motivi di "merito", ossia ad un dissidio sulle indagini, ma circa le "modalità" nell'organizzazione del lavoro d'ufficio.
Alcuni anni fa lo stesso Pititto ha scritto un thriller che sembra il copione perfetto del caso Alpi: una giornalista indaga su strani traffici di armi in un paese africano e viene eliminata. A capo della band c'era nientemeno che il ministro degli Interni (italiano) che nel frattempo diventerà capo dello Stato. Un 'giallo' non poi troppo di fantasia. Una seconda edizione, annunciata per la scorsa estate e già prenotata dalle librerie, stranamente, non ha mai visto la luce. Misteri nei misteri.

TOGHE CONTRO TOGHE 
Ma non è certo finita la catena delle toghe che si sono interessate al caso. Fa capolino anche il nome di Franco Ionta, su cui però Fanelli mette la mano sul fuoco: "ha proseguito le indagini rispettando il medesimo programma tracciato dallo stesso Pititto", afferma con sicumera. Perchè non domandare a Pititto se è dello stesso avviso?
Prosegue Fanelli: "Nè sussistono elementi per ritenere che il depistaggio sia stato posto in essere dal pm Ionta al momento dell'audizione di Gelle, il quale – nel corso della successiva escussione avvenuta a Birmigham il 31 marzo 2016 in sede di rogatoria (e prima ancora nel corso dell'intervista rilasciata alla giornalista Rai Chiara Cazzaniga) – ha smentito le dichiarazioni rese al pm Ionta, addirittura disconoscendo la sottoscrizione dei verbali ed affermando che essi sarebbero stati in parte alterati: ebbene, tali dichiarazioni, già di per sé poco verosimili, sono rese ancor più inattendibili dal fatto che il Gelle è risultato essere un soggetto complessivamente non credibile, avendo reso, nel corso del tempo, versioni sempre diverse tra di loro e sempre rispondenti al proprio interesse".


Franco Ionta

Alla fine del tortuosissimo ragionamento viene così sottolineato: "si conferma l'assenza di elementi per poter sostenere il coinvolgimento di un magistrato nella decisione del Gelle di accusare ingiustamente Hashi Omar Hassan".
Un ragionamento che fa letteralmente a pugni con quello portato avanti dai pm perugini e che ha finalmente portato al proscioglimento di Hashi Omar Hassan per quelle accuse taroccate e poi ritrattate davanti alla giornalista Cazzaniga, elemento cardine per la sentenza di Perugia che ha completamente ribaltato il precedente scenario processuale.
Sorge a questo punto un conflitto 'istituzionale'? Perugia crede al Gelle che ritratta, mentre Roma crede prima a Gelle per condannare Hashi e poi ne fa un unico fagotto etichettandolo come "non credibile"? Altri incredibili misteri nei misteri.
Passiamo alla seconda parte dell'ordinanza firmata Fanelli e che concerne il versante delle indagini inviate dalla procura di Firenze a quella capitolina e che sono servite per "non far chiudere" tombalmente il caso.
Eccoci alle intercettatazioni telefoniche tra somali nel 2012. Nelle conversazioni si parla dei due giornalisti italiani uccisi. Viene fatto cenno alla famigerata informazione "che Ilaria Alpi era stata uccisa da militari italiani". Torna alla ribalta il ruolo di un faccendiere della prima ora, il cui nome era subito salito agli onori delle cronache, anche perchè era stato l'ultimo a vedere viva Ilaria, Giancarlo Marocchino. Infine si parla ad una somma corrisposta all'avvocato di Hashi Omar Hassan, Douglas Duale, che dopo anni di battaglia legale è riuscito a far scagionare il suo assistito.

PARLA L'AVVOCATO DOUGLAS DUALE
Abbiamo raggiunto telefonicamente l'avvocato Duale al suo studio romano, nei pressi di piazza Cavour
Cade dalle nuvole, Duale, quando sente che il gip Fanelli intende procedere alla sua "nuova escussione".


Giancarlo Marocchino

"Ma se io non sono mai stato sentito – balza sulla sedia – quale nuova escussione! Sono l'avvocato di Hashi, mi sono prodigato per lui, ma non sono mai stato sentito in nessun modo per altre ragioni".
E sulle somme percepite racconta: "Io non ho mai avuto contatti con il governo somalo, nè con alcun suo rappresentante. Ho soltanto avuto contatti con i familiari del ragazzo. Del resto sapete come funziona la società somala, basata su clan e tribù. E' stata fatta una raccolta di fondi per fronteggiare le spese, in tempi brevi ho ricevuto il minino, lo stretto necessario, 2000-3000 euro. Il resto della somma è stata raccolta in molti mesi e anni successivi ma sempre attraverso i familiari, gli amici, i conoscenti, quelli delle tribù. Ho ricevuto i soldi con quei money transfer da Mohamed Gedi Bashi. In tutto 29 mila euro che per un processo penale di quel calibro e durato più di vent'anni è poca roba".
Si tratta di uno dei nomi, quello di Bashi, che vengono fatti nell'ordinanza di Fanelli. Dell'altro, Abdi Badre Hayle, l'avvocato Duale dice di non saperne nulla.
A proposito di Marocchino e della fonte confidenziale dei Servizi – a questo punto strategica per dipanare la matassa – nota Duale: "Di Marocchino si è parlato fin da subito. Poi il silenzio. La fonte del servizio segreto civile è stata ritenuta fondamentale. Ma è subito calata la scure del ministero degli Interni, che esattamente dieci anni fa, nel 2008, ha comunicato che quella fonte andava tutelata in maniera assoluta".
Come, del resto, il ministero degli Interni ha coperto tutta la "Gelle story": dal taroccamento del teste al suo perfetto addestramento, dalle confessioni al primo pm, fino alla strategica fuga che ha impedito la rituale verbalizzazione in dibattimanto, tanto che la sentenza – incredibile ma vero – è stata pronunciata a carico del giovane somalo senza che Gelle abbia riconfermato in aula le sue accuse.
Non è certo finita: perchè Gelle è stato poi protetto e nascosto dalla polizia (evidentemente su input del Viminale) per alcuni mesi, gli hanno perfino trovato lavoro presso un'officina meccanica romana, lo sono andati a portare la mattina al lavoro e a prendere la sera: servizi perfetti. Fino a che non è stato spedito libero come un fringuello in Germania, e poi in Inghilterra.
Se ne è mai fregato qualcuno dei nostri Vertici Istituzionali di andarlo a cercare? Macchè. Lo ha fatto ed è riuscita a scovarlo e intervistarlo, certo non potendo disporre di grandi mezzi d'intelligence, Chiara Cazzaniga di Chi l'ha Visto.
Ai confini della realtà.

ARIECCO GIANCARLO MAROCCHINO
Passiamo alla terza parte dell'ordinanza firmata Fanelli, in cui si parla di un'anomalia temporale, riemerge la "fonte confidenziale" e torna alla ribalta la figura del faccendiere Giancarlo Marocchino.
Cominciamo dall'informativa partita dalla procura di Firenze. Nota il gip: "ebbene, effettivamente appare anomalo che la nota della Guardia di Finanza di Firenze sia stata materialmente inviata alla procura di Roma oltre 5 anni dopo il provvedimento di trasmissione da parte del dott. Squillace Greco, cosicchè è necessario effettuare i dovuti accertamenti sul punto"


Luciana Riccardi con Hashi

E continua: "Passando ora ad esaminare le richieste istruttorie contenute nell'atto di opposizione all'archiviazione, deve ritenersi che l'unica indagine che appare rilevante sia quela relativa all'escussione della fonte confidenziale citata nella relazione del Sisde del 3 settembre 1997 (da cui emergerebbe il coinvolgimento di Giancarlo Marocchino nell'omicidio Alpi-Hrovatin nonchè in traffici di armi), previa nuova richiesta al direttore pro tempore del Sisde in ordine all'attuale possibilità di rivelarne le generalità: tale atto istruttorio era già stato richiesto nella prima opposizione all'archiviazione".
Destinatario il gip Emanuele Cersosimo a dicembre 2007: ma il ministero dell'Interno aveva risposto, mesi dopo, che "perduranti esigenze di tutela della fonte non consentivano di fornire elementi atti a rivelarne l'identità". Continua Fanelli: "A distanza di oltre 10 anni appare utile verificare la persistenza delle ragioni di segretezza addotte dal Sisde".
Altrimenti, di tutta evidenza, ci troveremmo di fronte ad un secondo, clamoroso "Depistaggio di Stato".
Questo il punto nodale della richiesta Fanelli. Il quale invece non ritiene utile sentire alcuni testi invece strategici: come l'ambasciatore italiano all'epoca a Mogadiscio, Giuseppe Cassini, che secondo la sentenza di Perugia sa molto e può ancora raccontare circostanze da non poco; così come dovrebbero fornire tutte le spiegazioni del caso quei vertici di polizia che hanno dato una "manina" a Gelle nella sua latitanza prima e fuga all'estero poi.
La Voce ha più volte scritto a proposito di Giancarlo Marocchino e della sua opaca figura. Ma a questo proposito è d'obbligo scorrere alcuni passaggi del volume "Giornalismi & Mafie", curato da Roberto Morrione ed uscito esattamente 10 anni fa, maggio 2008.
Un capitolo scritto da Giorgio Alpi, Luciana Riccardi (padre e madre di Itaria) e da Mariangela Gritta Grainer si intitola "L'Omicidio di Ilaria Alpi. Alta mafia fra coperture, deviazioni, segreti". Una lettura oggi più che mai appropriata, anche in memoria di Luciana, che si è spenta – senza che Giustizia sia stata fatta – un mese fa.
Ecco uno stralcio: "E' utile aggiungere che altri testi sentiti dal dottor Pititto avevano sostenuto ipotesi simili anche se non sono stati ritenuti credibili. Ci sono, altresì, alcune informazioni che sono in sintonia con l'ipotesi sostenuta dal colonnello Ali Jiro Shermarke (nell'attività investigativa della Digos di Udine, nell'attività d'intelligence del Sisde e nell'attività della Digos a Roma emergono tre fonti confidenziali diverse a quanto appreso dalla commissione – che ha individuato e interrogato quelle di Udine – che sollevano interrogativi sull'intera vicenda e sul ruolo di Marocchino in quel che accadde quel 20 marzo)".
E ancora: "Su Marocchino, sfiorato da pesanti sospetti relativi a presunti traffici illeciti, di armi e di rifiuti tossici, anche prima del duplice delitto, non è mai stata fatta una indagine, un approfondimento serio..

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18 giugno 2018

I CASI DI ILARIA ALPI E PAOLO BORSELLINO / DEPISTAGGI DI STATO & MURI DI GOMMA


Quando è lo Stato a depistare. Quando sono alte istituzioni a calpestare la verità. Quando alcuni magistrati fanno a pezzi quel poco che ormai resta della giustizia.
Succede in modo sempre più clamoroso in due vicende che hanno segnato il tragico destino del nostro Paese: la strage di via D'Amelio in cui sono stati trucidati Paolo Borsellino e la sua scorta; e l'assassinio dei giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.
Tutto succede nel più totale silenzio da parte delle massime autorità, con il Capo dello Stato Sergio Mattarella fino ad oggi muto, spettatore assente. Nel tombale silenzio di tutte le forze politiche impegnate a spartirsi le poltrone di sottogoverno, mentre le opposizioni sono ormai in via di liquefazione. E nel più assordante silenzio mediatico.
Autentici muri di gomma.
A levarsi, solitarie, le voci di Luciana Riccardi, madre di Ilaria, e di Fiammetta Borsellino, la figlia di Paolo. Due donne coraggio nel deserto.

ROMA E PERUGIA, PROCURE CONTRO 
Partiamo dalla freschissima, ennesima richiesta di archiviazione tombale ribadita l'8 giugno al tribunale di Roma dal pm Elisabetta Ceniccola e super avallata dal procuratore capo Giuseppe Pignatone.
Il caso Alpi-Hrovatin, secondo loro, deve sparire per sempre nel dimenticatoio. Assassini e mandanti non esistono: di certo si è trattato di un suicidio provocato dalla calura somala.



Giuseppe Pignatone. Nel montaggio in alto, Ilaria Alpi e Paolo Borsellino
Uscendo dai paradossi ed entrando nelle spirali della giustizia di casa nostra, la imperturbabile pm Ceniccola se ne frega delle ultime acquisizioni arrivate dalla procura di Firenze e relative alle intercettazioni di alcuni somali che nel 2012 parlavano di "quei due italiani ammazzati a Mogadiscio". Inutili.
Se ne sbatte della montagna di documenti portata in giudizio dai legali di Luciana Riccardi, ossia Giovanni D'Amati, Giuseppe D'Amati e Carlo Palermo.
E soprattutto se ne fotte della sentenza cardine pronunciata dal tribunale di Perugia poco più di un anno fa, con la quale è stato scagionato il povero Hashi Omar Hassan (16 anni di galera da innocente) e soprattutto in cui è stato messo nero su bianco che la costruzione del teste taroccato a tavolino, Ahmed Ali Rage, al secolo Gelle, ha rappresentato un vero e proprio "Depistaggio di Stato".
Raramente capita di leggere una sentenza tanto chiara, inequivocabile e densa di contenuti come quella scritta a Perugia. In cui viene ricostruito per filo e per segno il Grande Depistaggio, minuto per minuto, settimana per settimana, mese per mese. Con un Gelle nel motore, addestrato a puntino per mentire davanti ad un pm; per fuggire con l'aiuto della polizia di stato, per trovare un lavoro grazie alla stessa polizia che addirittura lo ha accompagnato in una officina meccanica romana per due mesi andandolo pure a prendere con l'auto di servizio; e infine agevolandone la fuga in Germania prima e in Inghilterra poi.
Ai confini della realtà.
Gelle non ha mai testimoniato in dibattimento, eppure – caso più unico che raro, il teste chiave che non ribadisce in aula le sue accuse – la vittima predestinata è stata condannata a 26 anni, di cui 16 scontati. Perchè un mostro andava comunque sbattuto in prima pagina e un colpevole a tutti i costi trovato.
Se ne sono altamente fregate, le autorità tutte, di andare a cercare Gelle. Che se la spassava libero come un fringuello a Londra. Dove non lo hanno trovato gli 007 di casa nostra né l'Fbi, ma l'inviata di "Chi l'ha visto" Chiara Cazzaniga, con i non eccelsi mezzi di cui può disporre un normale giornalista.


Chiara Cazzaniga

Le parole di Gelle sono state la chiave del processo di Perugia, dove le toghe non hanno avuto difficoltà a capire la trama, svelare le alte connection, comprendere fino in fondo il meccanismo del clamoroso "Depistaggio di Stato".
Un perfetto assist per la procura di Roma. La quale non doveva fare altro che leggere e capire la sentenza, riaprire il caso, fare un po' di indagini e scovare killer e mandanti. Impresa non titanica, visto che moltissimi elementi probatori erano contenuti proprio nella sentenza perugina.
Come mai Ceniccola e Pignatone non hanno pensato di interrogare quei poliziotti depistatori, di cui nella sentenza di Perugia vengono fatti nomi e cognomi? Perchè non hanno richiamato a verbalizzare l'allora ambasciatore italiano a Mogadiscio? Perchè non hanno 'invitato' a deporre i tanti che hanno chiuso gli occhi e voltato la sguardo dall'altra parte?
Niente, alla procura di Roma hanno pensato bene di incrociare le braccia. E ora mettono insieme quattro frasi: "Non c'è alcuna prova di presunti depistaggi legati alla gestione in Italia del teste Ali Rage". Alcuna prova? Prove colossali che solo chi non vuol vedere non vede.  
E aggiungono: "C'è improbabilità di raggiungere dei risultati, anche alla luce della complessa situazione politica dello Stato africano, della divisione in clan ostili tra loro, dell'inesistenza di forze di polizia che potessero dare affidamento e dell'assenza, ancor oggi, di relazioni diplomatiche".
Capito? Tutta colpa dei somali!


Hashi Omar Hassan

E sulle ultime indagini fiorentine: "le nuove intercettazioni – viene sostenuto – sono sostanzialmente irrilevanti e non rappresentano uno spunto solido per avviare nuovi accertamenti. Non modificano di una virgola il quadro probatorio".
E chissenefrega della sentenza di Perugia! Ai confini della realtà.
Oserà dire una qualcosa, adesso, il Csm? O come al solito resterà muto, sordo e cieco?
L'ultima parola, comunque, spetta al giudice Andrea Fanelli, che dovrà pronunciarsi in modo definitivo sulla richiesta di archiviazione firmata dal suo capo, Pignatone, e dalla pm Ceniccola. Staremo a vedere.

UN ALTRO PENTITO TAROCCATO E L'AGENDA DEI MISTERI
Da un depistaggio all'altro eccoci alla strage di via D'Amelio. Siamo arrivati al Borsellino quater,  con un percorso processuale caratterizzato dal taroccamento del pentito di turno, Vincenzo Scarantino, che esattamente nello stesso modo di Gelle è stato addestrato di tutto punto dagli inquirenti.
Sandro Provvisionato, sulle colonne della Voce, negli scorsi anni ha ricostruito in modo perfetto quel depistaggio, con una serie di inchieste da far tremare le vene e i polsi. Facendo nomi e cognomi, anche stavolta, degli artefici della connection.


Fiammetta Borsellino

Contro i quali si è più volte scagliata Fiammetta Borsellino, la coraggiosa figlia del grande magistrato che alcune settimane fa ha incontrato in carcere i fratelli Graviano, e con i quali avrebbe voluto un secondo incontro, invece negato dai vertici della magistratura, sia locale che nazionale.
Ha appena ribadito le accuse in occasione del festival "Una marina di libri". Ecco le sue accorate parole: "Oggi la ricerca della verità è ancora più difficile perchè è connessa alla ricerca delle ragioni della disonestà di chi questa verità doveva scoprirla. Io non smetto di chiederla. Il contributo di onestà non devono darlo solo i mafiosi, ma anche le persone delle istituzioni che sanno". E non parlano.
A proposto del falso pentito Scarantino, la figlia di Borsellino chiama in causa non solo i poliziotti ma anche diversi magistrati che sin dalle prime battute avrebbero avallato le tante deviazioni. "Sono stati loro stessi autori di un processo caratterizzato da grossolane anomalie. Neanche il CSM ha saputo dare delle risposte". Tanto per cambiare.
Continua il j'accuse di Fiammetta: "Mafia e politica si fanno guerra o si mettono d'accordo. In quei giorni evidentemente si misero d'accordo. Mentre tutti sussurravano a mio padre che il tritolo per lui era arrivato. Lo sapeva anche il procuratore Pietro Giammanco che però non lo avvertì. E nessuno ha mai sentito il bisogno di avvertirlo".
Per la storia, pochi giorni prima della strage di via Capaci Giammanco partecipò ad una cena a casa di Paolo Borsellino. L'ultima cena. Erano presenti alcune toghe 'amiche', tra cui Anna Maria Palma.


Nino Di Matteo

Anna Maria Palma ha istruito i primi processi Borsellino, coadiuvata dall'icona antimafia (allora giovane virgulto fra le toghe siciliane) Nino Di Matteo: insieme hanno diretto "l'operazione Scarantino". A rivelarlo, nel corso di un'udienza del Borsellino quater, lo stesso pentito taroccato. Che non ha mancato di ricordare come i 'suggeritori' gli fossero sempre vicino: anche nel corso delle stesse udienze. Quando non ricordava una 'battuta', chiedeva di andare in bagno, dove trovava chi (il poliziotto o lo 007 di turno) gli rammentava la parte.
La giornalista e scrittrice Roberta Ruscica, in occasione della presentazione a Napoli del suo libro "I Boss di Stato – I protagonisti, gli intrecci e gli interessi dietro la trattativa Stato-Mafia", ha ricordato: "Ho conosciuto Anna Maria Palma e ho creduto anche io in quella pista che si è poi rivelata del tutto sbagliata. E ricordo un particolare che mi raccontò Palma: era entrata in possesso della famosa agenda rossa di Paolo Borsellino. L'aveva avuta nelle sue mani. Non mi ha detto a chi poi l'aveva consegnata o che fine avesse fatto".
Una storia sulla quale nessuno, fino ad oggi, ha mai pensato di far luce.
Come mai? Un mistero tra i misteri.

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14 giugno 2018

LUCIANA RICCARDI / LA “GIUSTIZIA” UCCIDE ANCORA


Oggi (13 giugno) la giustizia muore. Si spegne Luciana Riccardi, la madre di Ilaria Alpi, uccisa 24 anni fa a Mogadiscio. 
Uccisa, insieme al collega giornalista Miran Hrovatin, dallo Stato. Ormai lo sappiamo, e lo ha confermato la sentenza pronunciata da un giudice che non si trova a Berlino, ma a Perugia.
Nonostante questo la procura di Roma qualche giorno fa, l’8 giugno, ha chiesto per l’ennesima volta l’archiviazione del caso. 
Per questo Luciana Riccardi muore. Il suo cuore si è arreso dopo 24 anni di lotte e tribolazioni quotidiane. Impegnata a combattere contro i muri di gomma innalzati dalle Istituzioni massime. 
Ha ricevuto inutili promesse di “far luce” dal capo dello Stato Sergio Mattarella. Ha ricevuto l’insulto delle parole pronunciate dal procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone, “signora, mi dica lei, chi vuole che le interroghi?”.
E invece Pignatone giorni fa le ha sbattuto ancora una volta la porta in faccia, firmando la richiesta di archiviazione tombale con la pm Elisabetta Ceniccola. 
Per questo muore, dopo sua figlia Ilaria, la madre Luciana. Muore uccisa dalla giustizia che non c’è, sparita dalla circolazione. Anzi, in prima fila per depistare, coprire assassini e mandanti, oltraggiare i morti, ucciderli per una seconda e caso mai una terza volta. 
Per sbattere in galera innocenti e fottersene: perchè la Kasta possa crescere come un’orrenda metastasi sul corpo martoriato dell’Italia. 
Ilaria e Luciana vivono dentro di noi. E per quanto potranno consentire le nostre forze lotteremo fino in fondo per loro. E per la Giustizia in cui credevano. 

11 luglio 2017

Newsletter Voce delle Voci 11 luglio 2017

LA NEWSLETTER DI MARTEDI' 11 LUGLIO 2017

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