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10 aprile 2017

Moby Prince, la pista Usa

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«Mayday, Mayday, Mayday, Moby Prince, siamo in collisione, prendiamo fuoco! Ci serve aiuto!»: questo il drammatico messaggio trasmesso venticinque anni fa, alle 22:25:27 del 10 aprile 1991, dal traghetto Moby Prince, entrato in collisione, nella rada del porto di Livorno, con la petroliera Agip Abruzzo.
Richiesta di aiuto inascoltata: muoiono in 140, dopo aver atteso per ore invano i soccorsi. Richiesta di giustizia inascoltata: da venticinque anni, i familiari chiedono invano la verità. Dopo tre inchieste e due processi. Eppure essa emerge prepotentemente dai fatti.
Quella sera nella rada di Livorno c’è un intenso traffico di navi militari e militarizzate degli Stati uniti, che riportano alla base Usa di Camp Darby (limitrofa al porto) parte delle armi usate nella prima guerra del Golfo.
Ci sono anche altre misteriose navi. La Gallant II (nome in codi-ce Theresa), nave militarizzata Usa che, subito dopo l’incidente, lascia precipitosamente la rada di Livorno. La 21 Oktoobar II della società Shifco, la cui flotta, donata dalla Cooperazione italiana alla Somalia ufficialmente per la pesca, viene usata per trasportare armi Usa e rifiuti tossici anche radioattivi in Somalia e per rifornire di armi la Croazia in guerra contro la Jugoslavia.
Per aver trovato le prove di tale traf-fico, la giornalista Ilaria Alpi e il suo operatore Miran Hrovatin vengono assassinati nel 1994 a Mogadiscio in un agguato organizzato dalla Cia con l’aiuto di Gladio e servizi segreti italiani [1].
Con tutta probabilità, la sera del 10 aprile, è in corso nella rada di Livorno il trasbordo di armi Usa che, invece di rientrare a Camp Darby, vengono segretamente inviate in Somalia, Croazia e altre zone, non esclusi depositi di Gladio in Italia [2]. Quando avviene la collisione, chi dirige l’operazione – sicuramente il comando Usa di Camp Darby – cerca subito di cancellare qualsiasi prova. Ciò spiega una serie di «punti oscuri»: il segnale del Moby Prince, ad appena 2 miglia dal porto, che giunge fortemente disturbato; il silenzio di Livorno Radio, il gestore pubblico delle telecomunicazioni, che non chiama il Moby Prince; il comandante del porto Sergio Albanese, «impegnato in altre comunicazioni radio», che non guida i soccorsi e viene subito dopo promosso ammiraglio per i suoi meriti; la mancanza (o meglio sparizione) di tracciati radar e immagini satellitari, in particolare sulla posizione dell’Agip Abruzzo, appena arrivata a Livorno dall’Egitto stranamente in tempo record (4,5 giorni invece di 14); le manomissioni sul traghetto sotto sequestro, dove spariscono strumenti essenziali alle indagini. Così da far apparire quello del Moby Prince un banale incidente, anche per responsabilità del comandante.
I familiari delle vittime sono riusciti ora a ottenere l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta, non solo per dare giustizia ai loro cari, ma per «chiudere un capitolo indegno della storia italiana». Capitolo che resterà aperto se la commissione limiterà come al solito l’inchiesta all’esterno di Camp Darby, la base Usa al centro della strage del Moby Prince. La stessa inquisita dai giudici Casson e Mastelloni nell’inchiesta sull’organizzazione golpista «Gladio». Una delle basi Usa/Nato che – scrive Ferdinan-do Imposimato, presidente onorario della Suprema Corte di Cassazione – fornirono gli esplosivi per le stragi, da Piazza Fontana a Capaci e Via d’Amelio. Basi in cui «si riunivano terroristi neri, ufficiali della Nato, mafiosi, uomini politici italiani e massoni, alla vigilia di attentati».
Il Mayday del Moby Prince è il Mayday della nostra democrazia.

20 marzo 2017

La scottante verità di Ilaria Alpi

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Ilaria Alpi
La docufiction «Ilaria Alpi – L’ultimo viaggio» (visibile sul sito di Rai Tre) [1] getta luce, soprattutto grazie a prove scoperte dal giornalista Luigi Grimaldi, sull’omicidio della giornalista e del suo operatore Miran Hrovatin il 20 marzo 1994 a Mogadiscio. Furono assassinati, in un agguato organizzato dalla Cia con l’aiuto di Gladio e servizi segreti italiani, perché ave-vano scoperto un traffico di armi gestito dalla Cia attraverso la flotta della società Schifco, donata dalla Cooperazione ita-liana alla Somalia ufficialmente per la pesca.
In realtà, agli inizi degli anni Novanta, le navi della Shifco erano usate, in-sieme a navi della Lettonia, per trasportare armi Usa e rifiuti tossici anche radioattivi in Somalia e per rifornire di armi la Croazia in guerra contro la Jugoslavia. Anche se nella docu-fiction non se ne parla, risulta che una nave della Shifco, la 21 Oktoobar II (poi sotto bandiera panamense col nome di Urgull), si trovava il 10 aprile 1991 nel porto di Livorno dove era in corso una operazione segreta di trasbordo di armi Usa rientrate a Camp Darby dopo la guerra all’Iraq, e dove si con-sumò la tragedia della Moby Prince in cui morirono 140 per-sone.
Sul caso Alpi, dopo otto processi (con la condanna di un somalo ritenuto innocente dagli stessi genitori di Ilaria) e quattro commissioni parlamentari, sta venendo alla luce la verità, ossia ciò che Ilaria aveva scoperto e appuntato sui tac-cuini, fatti sparire dai servizi segreti. Una verità di scottante, drammatica attualità.
L’operazione «Restore Hope», lanciata nel dicembre 1992 in Somalia (paese di grande importanza geostrategica) dal presidente Bush, con l’assenso del neo-presidente Clinton, è stata la prima missione di «ingerenza umanitaria».
Con la stessa motivazione, ossia che occorre in-tervenire militarmente quando è in pericolo la sopravvivenza di un popolo, sono state lanciate le successive guerre Usa/Nato contro la Jugoslavia, l’Afghanistan, l’Iraq, la Libia, la Siria e altre operazioni come quelle nello Yemen e in Ucraina. Preparate e accompagnate, sotto la veste «umanita-ria», da attività segrete. Una inchiesta del New York Times [2] ha confermato l’esistenza di una rete inter-nazionale della Cia, che con aerei qatariani, giordani e sauditi fornisce ai «ribelli» in Siria, attraverso la Turchia, armi pro-venienti anche dalla Croazia, che restituisce così alla Cia il «favore» ricevuto negli anni Novanta.
Quando il 29 maggio scorso il quotidiano turco Cumhuriyet ha pubblicato un video che mostra il transito di tali armi attraverso la Turchia, il pre-sidente Erdogan ha dichiarato che il direttore del giornale pa-gherà «un prezzo pesante».
Ventun anni fa Ilaria Alpi pagò con la vita il tentativo di dimostrare che la realtà della guerra non è solo quella che viene fatta apparire ai nostri occhi. Da allora la guerra è divenuta sempre più «coperta». Lo conferma un servizio del New York Times [3] sulla «Team 6», unità supersegreta del Comando Usa per le operazioni speciali, incaricata delle «uccisioni silenziose». I suoi specia-listi «hanno tramato azioni mortali da basi segrete sui calan-chi della Somalia, in Afghanistan si sono impegnati in com-battimenti così ravvicinati da ritornare imbevuti di sangue non loro», uccidendo anche con «primitivi tomahawks». Usando «stazioni di spionaggio in tutto il mondo», camuffan-dosi da «impiegati civili di compagnie o funzionari di amba-sciate», seguono coloro che «gli Stati uniti vogliono uccidere o catturare».
La «Team 6» è divenuta «una macchina globale di caccia all’uomo». I killer di Ilaria Alpi sono oggi ancora più potenti.
Ma la verità è dura da uccidere.

28 gennaio 2016

Iaria Alpi: Nuovo processo per Hashi Hassan



Iaria Alpi: Nuovo processo per Hashi Hassan, ammessi tutti i testi from Mario Rossi Network on Vimeo.
La Corte d'appello di Perugia ha ammesso l'istanza per la revisione del processo a carico di Hashi Omar Hassan il quale è stato condannato a 26 anni per l’omicidio della giornalista del Tg3, Ilaria Alpi, e dell'operatore Miran Hrovatin, a Mogadisco il 20 marzo del 1994. ll collegio presieduto da Giancarlo Massei ha ammesso tutte le deposizioni chieste dalla difesa e dalla procura generale, tra i quali l’ex ambasciatore Giuseppe Cassini e Giancarlo Marocchino. Lo stesso procuratore generale Dario Razzi ha detto: "Va ricercata la verità per il rispetto delle vittime e dell'imputato". Erano presenti in aula lo stesso Hashi Omar Hassan e la madre di Ilaria Alpi, Luciana. L’esame dei testimoni è stato fissato al 5 aprile “con riserva di disporre eventuali rogatorie per i testi che, reperibili fuori del territorio dello Stato, non dovessero presentarsi”. Il caso era stato riaperto dopo le dichiarazioni del supertestimone Gelle, rintracciato da “Chi l’ha visto?” in Gran Bretagna. "E' fondamentale sentirlo al più presto", ha chiesto il legale di Luciana Alpi, l'avvocato D'Amati, ricordando che l'altro testimone del duplice omicidio, l'autista somalo della giornalista, è stato ucciso.

20 marzo 2013

Toxic Somalia. Sulla pista di Ilaria Alpi

Rai Tre presenta un reportage – Premio Speciale alla 18° edizione del concorso dedicato a Ilaria Alpi - scritto e diretto da Paul Moreira, firma di prestigio del giornalismo d’inchiesta in Europa.

Moreira è riuscito a intervistare i pirati somali (che accusano l’Occidente di scaricare, nelle loro acque, rifiuti tossici) e ha documentato l’aumento di infezioni e malattie (triplicate, in due decenni), seguendo la strada aperta da Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sul traffico dei rifiuti tossici e ricostruendo i rapporti segreti tra il mondo degli affari e quello della criminalità.