11 febbraio 2018

Io, monsignor Angelini e l'Africa nera


ANSA
Era il 1976, e il Kenya era una specie di proprietà privata del presidente Mzee Jomo Kenyatta e della terza moglie Mama Ngina, una delle "regine dell'avorio". Nei parchi circolavano ancora parecchi cacciatori bianchi col cappellaccio alla Hemigway, che facevano liberamente strage di ogni specie di animali. E il mitico treno Mombasa-Nairobi impiegava un giorno per percorrere 500 chilometri, ma alla stazione venivi accolto col tappeto rosso e un leggìo su cui erano scritti a mano i nomi dei passeggeri, il numero della carrozza e della cabina in cui avrebbero alloggiato in un viaggio che al mattino prevedeva ben tre colazioni: prima, durante e dopo l'alba.
Fu in quell'estate, seguendo la migrazione circolare di milioni di Gnu che si muovevano dal Kenya all'Uganda alla Tanzania, inseguendo l'erba che le grandi piogge facevano crescere davanti ai loro occhi, la stessa estate in cui Idi Amin Dada col cervello bruciato dalla sifilide si divertiva a sparare con la contraerea ai jet di linea della East African Airways dal terrazzo del palazzo presidenziale di Entebbe, che incontrai Fiorenzo Angelini. Allora solo vescovo, ma già eminenza grigia della sanità cattolica con le mani in pasta in cinque ospedali di Roma, quattrocento immobili e ottomila ettari di tenute agricole intorno alla capitale. Il Giulio Andreotti del Vaticano, di cui era amico fraterno.
Lo incontrai a Kisima o Baragoi, non ricordo bene. Comunque, sulla strada (si fa per dire) che conduceva a Loiyangalani, sulle sponde del Lago Rodolfo. Sbucò tra le bouganville di un lodge con una camicia, un paio di bermuda color kaki e una cinepresa in mano. Fate conto Alberto Sordi in Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l'amico misteriosamente scomparso in Africa. Preciso. E dopo essersi presentato, chiese due informazioni: dove convenisse fare un buon cambio al mercato nero e se l'avorio di contrabbando a trentamila lire al chilo fosse un prezzo accettabile. Sembrava uno scherzo.
Nel pomeriggio di quel giorno, incontrai un missionario italiano che viveva lì da dieci anni e lo trovai coi capelli dritti in testa, sconvolto. Mi raccontò che il monsignore gli aveva chiesto di battezzare un bambino nero, così, per fare un filmino ricordo insieme ai suoi amici. Allargando le braccia, il missionario gli aveva detto che non c'erano bambini da battezzare. Ma lui non aveva fratto una piega: Embé? Ne ribattezziamo uno già battezzato, magari ci diventa santo.
Fui invitato alla cerimonia, ma declinai. Volevo raggiungere Loiyangalani prima del tramonto. Anche lì incontrai un missionario. Aveva organizzato una specie di trattoria sotto un capannone dove il piatto forte del menu erano le chicken balls, le polpette di pollo. Ordinai e mi arrivò una scodella di mezze maniche al ragù. Ottime, a quella latitudine. Così lo ringraziai e gli anticipai che forse il giorno dopo avrebbe visto arrivare il monsignore con la truppa dei suoi amici armati di cinepresa. Lui si rabbuiò, indicò l'unico tronco d'albero che si stagliava contro il cielo sopra una decina di capanne di indigeni turkana fatte di fango e sterco e sentenziò: Se si presenta, lo attacco a quell'albero. Il fatto era che dopo una pressante richiesta di vestiti usati da distribuire alla gente del lago, il monsignore gli aveva fatto recapitare due scatoloni di guanti da neve e giacche a vento. Utilissimi, a quaranta gradi all'ombra che non c'era.
Questo ricordo di Fiorenzo Angelini, cardinale di Santa Romana Chiesa. E adesso posso raccontare che il monsignore che ho scritto e Ivo Garrani ha interpretato in Nel continente Nero di Marco Risi era proprio lui. Né più, né meno. Anzi, a quel tempo molto meno del potente cardinale che poi sarebbe apparso ne Il Divo di Paolo Sorrentino, a braccetto con quel Franco Evangelisti passato alla storia per quel "A fra', che te serve?", sintesi suprema dei vizi e inciuci della nostra Prima Repubblica. Ora leggo che papa Bergoglio in persona andrà a benedire la sua salma. E mi sembra giusto. Come ha detto Andrea Agnelli a proposito di Luciano Moggi (op.cit.): "Rappresenta comunque una parte importante della nostra storia. Siamo il Paese del cattolicesimo e del perdono. Lo possiamo anche perdonare". Ma sì, "Un sigaro e una medaglia non si negano a nessuno" (Winston Churchill).
Andrea Purgatori

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